Davanti al centro congressi di Riverside si è radunata una folla che sembra in attesa di un concerto heavy metal. In piedi sotto il primo sole di una mattina di febbraio, davanti alle porte ancora chiuse ci sono soprattutto uomini fra i trenta e i 55 anni: pance generose e capelli lunghi, pantaloncini, tatuaggi e magliette con loghi arzigogolati e indecifrabili di varie band. Saltano all’occhio anche look superati ormai da tempo: jeans aderenti a righe bianche e nere, portatelefono alla cintura e varie accoppiate di sandali da trekking e calzini.

Il centro apre i battenti alle nove in punto e la folla in attesa sciama all’interno, si fa misurare la temperatura come imposto dalle misure contro il covid e poi si dirige verso il lungo bancone per ritirare i pass. I circa trecento visitatori non sono venuti in questa città tra Los Angeles e Palm Springs per assistere a un concerto, ma per partecipare alle quattro giornate dell’annuale campionato mondiale open di flipper. Ci sono giocatori australiani e neozelandesi, giapponesi e canadesi, ma anche europei. Come il tredicenne Arvid Flygare, bambino prodigio svedese che al momento è quarto nella classifica mondiale. Il padre, collezionista di flipper, racconta che Arvid ha avuto il permesso di assentarsi da scuola per una settimana: per la prima volta qui si misurerà con i migliori giocatori in circolazione. Nella delegazione tedesca siamo in tre, tutti giocatori appassionati ma in questo contesto certamente non straordinari. Eppure siamo a pochi metri da eroi che finora avevamo visto solo nei video online dei tornei più importanti.

Pierluigi Longo

Campionati di flipper? Classifica mondiale? Ma le macchine lampeggianti che dalla fine degli anni sessanta agli anni novanta erano onnipresenti in pub, bar e sale giochi non erano sparite da più di vent’anni? Da quando la Williams, l’ultima grande azienda produttrice di flipper, ha fermato la produzione nell’autunno del 1999, effettivamente in giro se ne vedono pochi. Ma negli ultimi dieci, quindici anni si è sviluppata una rete sempre più estesa di giocatori: una federazione mondiale con più di trentamila iscritti. I flipper di nuova produzione – della Stern, l’unica rimasta delle aziende storiche di Chicago, e di alcune nuove imprese statunitensi ed europee – sono destinati soprattutto ai garage, alle stanze per gli hobby e ai capannoni di questa cerchia di collezionisti che s’incontra regolarmente per fare i tornei. Il clou dell’anno è il mondiale open di Riverside, che è appunto aperto a tutte e tutti. Negli Stati Uniti il boom ha perfino fatto sì che qualche flipper sia ricomparso nei bar e nelle sale giochi.

Ci sono modelli di flipper che fanno da filo conduttore nelle vite dei giocatori, gli consentono di ricostruire la loro biografia perché sono sia un’immagine che sbiadisce nella memoria sia una realtà che si conserva e che all’improvviso, decenni dopo, gli si può parare davanti in un centro congressi della California.

Monaco, Harlem Globetrotters, Paragon, Pinball Champ ’82, Taxi, Star Trek - The Next Generation: dei sei flipper più importanti della mia vita, ne ritrovo tre qui, nel salone di Riverside con la moquette chiara e spessa. Il Monaco del 1977 è stato uno degli ultimi flipper con lo sferragliante contatore a rulli bianco e nero che ricorda un registratore di cassa. È un modello prodotto in Spagna, dove negli anni settanta l’industria del flipper era fiorente, anche perché la dittatura di Franco proibiva d’importarli dagli Stati Uniti.

C’era un Monaco anche nella sala biliardo di un centro ricreativo per giovani a Monaco di Baviera, nel quartiere di Thalkirchen. Uno dei giovani rocker che lo presidiavano costantemente a un certo punto mi fece giocare e mi spiegò le regole principali: mai premere i due tasti contemporaneamente, fermare la pallina con una delle due palette all’estremità inferiore del tabellone, prima di tirare prendere sempre di mira un obiettivo che promette tanti punti. Non so dire precisamente quando io abbia cominciato a giocare con questo flipper con la barca a vela e i grattacieli di lusso sul frontone; c’è però un evento che mi è rimasto impresso e che posso datare con esattezza. Un pomeriggio, nel bel mezzo di una partita, dall’ingresso del centro ricreativo dove era sempre accesa una radio portatile si alzò un grido: “Merda, è morto Bon Scott!”. Era il cantante degli AC/DC. È scomparso il 19 febbraio 1980.

Anni dopo arrivò il Paragon di Bally, extralarge. Ce n’era uno in una sala giochi dove, nell’inverno della terza superiore, passavo quasi tutte le mie giornate. Erano mesi solitari: non avevo veri amici e volevo solo battere il record. Ci riuscii a capodanno, un giorno che aspettavo con timore perché non ero stato invitato a nessuna festa. Ogni volta che nella sala giochi deserta sentivo il flipper che annunciava una partita bonus mi sentivo più solo, forse perché quel suono mi ricordava i botti che già si sentivano dalla strada. Poco prima della mezzanotte sparai i miei fuochi d’artificio personali sul Paragon: una serie di lucine colorate sul tabellone che avrebbero fatto invidia a quelle che si stagliavano nel cielo.

Nel primo periodo dell’università, per sfuggire alla noia dei seminari di germanistica, giocavo con un Taxi del 1988 in un pub del quartiere universitario. A Riverside c’è la versione con Marilyn Monroe sul frontone, che in seguito a dispute legali era stata sostituita sulla maggior parte degli oltre settemila esemplari da una mora di nome Lola. Con il Taxi sperai di fare colpo su Emily, che seguiva con me il seminario su Kleist e mi aveva raccontato che da bambina aveva avuto una vera e propria dipendenza da flipper. Conoscevo quel modello alla perfezione ed ero convintissimo che con una buona performance l’avrei conquistata, il contrario di quello che succede in quella canzone del film di Godard Il maschio e la femmina del 1966, in cui Chantal Goya mette in guardia il suo accompagnatore dicendogli: “Se vinci a flipper perdi il mio cuore”. Solo che quella sera feci una figura barbina e per la prima volta fui costretto ad ammettere che sotto pressione giocavo peggio. Però con Emily ci mettemmo insieme lo stesso.

Negli ultimi dieci, quindici anni si è sviluppata una rete sempre più estesa di giocatori: una federazione mondiale con più di trentamila iscritti

A Riverside mi assegnano il Taxi già durante la fase di qualificazione del primo torneo (ogni giorno sui flipper più vecchi si gioca un torneo satellite; su quelli moderni invece si gioca il mondiale vero e proprio, che dura per tutti e quattro i giorni). All’inizio considero l’esito del sorteggio un colpo di fortuna: credo di conoscere il Taxi molto meglio dei miei tre avversari. Ma poi mi capita quello che nei tornei succede molto spesso ai giocatori mediocri: più hanno confidenza con un certo modello e peggio ci giocheranno, perché quel particolare esemplare si rivelerà diverso da tutti gli altri per qualche impercettibile dettaglio, per esempio il modo in cui poggia sul pavimento o le angolazioni che devono prendere le palette per colpire rampe e bersagli. So bene come fare rapidamente un punteggio alto sul Taxi: la prima pallina va subito mandata in buca in basso a destra, mentre la seconda va lanciata sulla rampa sinistra per attivare il multiball, il gioco con due palline. Solo che il flipper di Riverside è impostato un po’ diversamente: la solita scusa del giocatore mediocre.

Il nervosismo dovuto al fatto che per la prima volta sto sfidando i campioni del mondo del flipper fa il resto e, mettendocela tutta, arrivo terzo su quattro – almeno non sono ultimo – con un punteggio che ai tempi dell’università probabilmente avrei superato anche bendato. Insomma, non si può certo dire che io sia un animale da torneo. Alla fine della settimana non mi qualificherò tra i migliori 32 giocatori in nessuno dei cinque tornei.

Bally, Williams e Gottlieb, le tre grandi aziende produttrici di flipper, sono di Chicago, motivo per cui ho sempre creduto fermamente che negli Stati Uniti i flipper fossero diffusissimi. Del resto Pier Paolo Pasolini, descrivendo il crescente “americanismo” dell’Europa nella seconda metà del novecento, parlava proprio dell’“epoca del flipper e della televisione”. Ma cercando informazioni si fanno scoperte decisamente sorprendenti: per molto tempo negli Stati Uniti fu proibito mettere flipper in bar, ristoranti, sale da bowling e centri commerciali. Fino alla metà degli anni settanta quelle macchine erano ritenute, e non solo da Pasolini, simboli della cultura consumistica e nelle metropoli di New York, Los Angeles e perfino di Chicago si vedevano solo in luoghi loschi, come locali per spogliarelli e casinò (nel film di Paul Thomas Anderson Licorice Pizza si parla proprio del momento in cui in California fu abrogato questo divieto). Il flipper era stato messo al bando intorno al 1940: allora erano state spazzate via dallo spazio pubblico le prime pinball machine, che erano puri giochi d’azzardo, ancora senza palette e con premi in denaro.

Il flipper, che nei film della nouvelle vague (e anche nel cinema tedesco della fine degli anni sessanta) rappresenta la voglia d’America dei registi, era prodotto a Chicago, ma ci si giocava soprattutto in Europa. “È un passatempo diffuso principalmente in Germania e in Francia”, si legge nel 1966 in un articolo della rivista statunitense Esquire.

A New York il divieto fu cancellato dopo una leggendaria partita di Roger Sharpe, scrittore e campione di flipper, che si svolse il 2 aprile 1976 di fronte al consiglio comunale per far capire che non era un gioco d’azzardo ma di abilità. Su una foto diventata poi famosa vediamo Sharpe posare, a 27 anni, in giacca e cravatta scura, con i baffi alla Nietzsche, circondato da rappresentanti del consiglio comunale che guardano con aria scettica. Prima di cominciare la partita, aveva dovuto assicurare di non avere interessi commerciali e di non agire per conto di un’azienda produttrice di flipper. Poi la commissione si era spostata verso i due flipper allestiti nell’aula di tribunale: un El Dorado del 1975, scelto per la dimostrazione, e un Bank Shot su cui ripiegare in caso di guasti tecnici.

In un’intervista pubblicata nel 2016 su Pinball Magazine, Sharpe rievoca la storica partita. “Mi stavo dirigendo verso l’El Dorado”, racconta, “quando il presidente del consiglio comunale mi fermò. Indicò il Bank Shot nell’angolo opposto e disse: ‘Quello’. Secondo me era convinto che avessi scelto un flipper truccato”. Sharpe fece partire la prima pallina, la fermò con una delle due palette e spiegò agli spettatori le opzioni che aveva davanti. Poi alcune gli riuscirono, altre no: niente di strano vista la posta in gioco. Ma la giuria non si lasciò convincere tanto facilmente. Possiamo immaginare il nervosismo di Sharpe alla terza delle cinque palline (sui flipper più moderni sono solo tre): tutti i giocatori conoscono la sensazione delle dita che improvvisamente cominciano a tremare sui tasti, del panico suscitato dall’incontrollabile movimento a zigzag della pallina. Chissà cosa gli passava per la testa in quel momento, in cui la posta in gioco non era una partita bonus ma il futuro del gioco. “Spiegai ai presenti che perfino il lancia palline può essere azionato abilmente, per questo anche la molla per lanciare la pallina aveva importanza: se si usava con la giusta delicatezza si poteva far andare la pallina sull’obiettivo desiderato. In cima al campo del Bank Shot c’erano cinque sottili scanalature e io ho puntato tutto su una sola carta, dicendo: ‘Adesso colpirò la pallina in modo da farla scorrere lungo la scanalatura centrale’”. Per un’impresa del genere anche ai giocatori migliori serve una buona dose di fortuna. La pallina di Roger Sharpe andò a finire proprio nella scanalatura centrale. Dopo il colpaccio il giocatore lanciò uno sguardo al presidente della giuria, che interruppe la dimostrazione: “Basta così!”. Sei settimane dopo il New York Times riportava che il consiglio comunale aveva sospeso il divieto, consentendo la presenza dei flipper anche “in cinema, alberghi e bar”. Chicago seguì l’esempio sei mesi dopo.

Pierluigi Longo

Sono passati 46 anni e oggi a Riverside è possibile osservare da vicino i migliori giocatori del mondo. I flipper sono disposti ai lati del grande salone delle feste, al centro del quale ci sono centinaia di sedie per i partecipanti. Nei quarti di finale di un torneo satellite Keith Elwin, 51 anni, californiano undici volte campione del mondo, gioca su un Cheetah del 1980, un modello velocissimo della Stern. Già dal suo modo di avvicinarsi si capisce che sta per succedere qualcosa di straordinario. Certo, qui sono tutti bravissimi, con punteggi che farebbero scalpore in qualsiasi bar o sala da biliardo, ma gli altri giocatori non hanno uno stile che salta subito agli occhi. Elwin, invece, con la sua calma emana vibrazioni fuori dal comune. Si prepara alla prima pallina con gli stessi rituali che hanno anche altri: con il lembo della maglietta strofina la parte anteriore del vetro per eliminare i leggeri aloni che offuscano il campo visivo, poi spinge cinque sei volte i tasti del flipper a tutta forza per provarli e infine poggia la mano destra sul lancia palline.

Non credevo che fosse possibile avere un tale controllo del gioco: Keith Elwin, che come molti altri campioni fa il progettista nell’industria dei flipper, segue il percorso della pallina nella parte superiore del piano con calma vigile; è concentrato, e al massimo fa movimenti appena percepibili con il palmo della mano, che partono dai fianchi e dirigono la pallina argentata esattamente dove lui vuole che vada. Quando la palla si ferma sull’aletta, ha inizio lo spettacolo di precisione: Elwin colpisce bersaglio dopo bersaglio, corsia laterale dopo corsia laterale, mantenen­do per diversi minuti il dominio assoluto sulla pallina, passandola da un’aletta all’altra del flipper quando precipita giù dalla parte superiore del piano o fermandola con eleganza come se azionasse delle calamite.

Keith Elwin non gioca con il flipper, lo ipnotizza; e quello, che con i suoi paraurti e le sue fionde un attimo prima ha fatto impazzire il suo avversario, all’improvviso si tranquillizza come placato da una forza misteriosa. Gli spettatori vedono questa comunione tra uomo e flipper, che sembra dovuta alla disponibilità del flipper stesso, che si rende conto che c’è qualcuno che lo capisce. Quando la pallina argentata finisce fuori, dopo quasi cinque milioni di punti (che sul Cheetah è un punteggio surreale), non sembra che Keith Elwin abbia perso ma piuttosto che abbia concesso agli avversari, ormai privi di speranze, di non dover aspettare ancora per essere dichiarati sconfitti.

I flipper sono praticamente scomparsi dallo spazio pubblico da vent’anni, ma la loro prima crisi risale a molto tempo prima. Mentre la popolarità dei nuovi modelli elettronici di Bally, Williams e Gottlieb stava raggiungendo l’apice, nelle sale giochi faceva la sua comparsa un avversario destinato ben presto a prevalere: il videogioco. Space Invaders fu messo sul mercato nel 1978, Asteroids nel 1979, Pac-Man nel 1980 e in poco tempo i giochi provenienti soprattutto dal Giappone soppiantarono i grossi aggeggi di vetro e metallo senza schermo. Il drastico calo di popolarità del flipper si può ricostruire sul sito International pinball database, che registra per data di consegna e numero di esemplari tutti i flipper mai prodotti. Se si sommano i dati relativi alle tre aziende più importanti si ottiene una statistica agghiacciante: la produzione passò da un massimo di circa duecentomila flipper nel 1979 a 17.841 nel 1983. Dal 1986 ci fu una temporanea ripresa del settore, un periodo di sette, otto anni in cui si diffusero alcuni modelli. Nel 1992 Addams Family diventò il flipper con il maggior numero di esemplari mai prodotti, più di ventimila. Ma la popolarità di singoli modelli con elementi nuovi, come display alfanumerici, jackpot e sequenze video incorporate, non poteva nascondere che l’interesse per il flipper stava diminuendo.

Quando i flipper persero la loro posizione egemone nelle sale giochi degli anni ottanta, tutti erano d’accordo sul motivo: i nuovi video­giochi – più redditizi, robusti e vicini all’estetica intergalattica diffusa da Star Trek e Guerre stellari – avevano soppiantato macchine ormai anacronistiche. A guardarla oggi, però, la loro scomparsa sembra solo un episodio in un processo ben più ampio: il successo di Space invaders e Pac-Man infatti fu di breve durata: anche loro a un certo punto sparirono, insieme alle sale giochi. Flipper e videogiochi sono due vittime ravvicinate della stessa evoluzione, espulse da un mondo che stava cambiando soprattutto per quanto riguarda due ambiti: lo spazio pubblico, che si adattava alle condizioni della tecnologia digitale, e il mondo del lavoro, che passava dall’essere incentrato sulla produzione industriale a concentrarsi sul settore dei servizi e su quello creativo, con i confini tra lavoro e tempo libero che sfumavano.

Oggi, puoi lavorare, giocare, comunicare e ascoltare musica da un telefono che entra in una tasca. Vent’anni fa gli ingombranti apparecchi a moneta come i videogiochi, i juke­box e i flipper o erano digitalizzati per l’uso privato oppure si estinguevano. Grazie a console casalinghe e agli smartphone, i video­giochi sono molto più presenti adesso che ai tempi delle sale giochi. Il flipper, invece, non si è potuto convertire con altrettanta facilità: nessuno dei vari esperimenti su computer e telefoni ha avuto successo. Evidentemente la materialità di fionde e palette, il percorso non programmato di una pallina che si muove in base alla forza di gravità e all’interazione fisica sono fattori insostituibili. L’oggetto-flipper, in sé, è il gioco: separare hardware e software, console e programma, è semplicemente impossibile.

Ma l’oblio è dovuto anche alla concezione del mondo e dell’essere umano: i temi che ispirano i motivi dei flipper di Riverside e la composizione dei partecipanti al torneo lo rendono evidente. Negli ultimi quarant’anni ci sono stati due flipper con frontoni dedicati ai Kiss, due ai Rolling Stones, due agli Iron Maiden, due ai Guns ’n’ Roses, uno a Ted Nugent, uno agli AC/DC, uno agli Aerosmith, uno ai Metallica, uno ai Led Zeppelin e perfino uno ai Rush, ma nessuno che rappresentasse una star della musica nera. Il flipper è sempre stato un gioco da maschi bianchi: più rap e hip hop si facevano largo nella cultura pop, più questo gioco, che si ostinava a seguire solo il rock, diventava marginale. Se la memoria non m’inganna, nella storia del flipper i modelli con persone nere sul frontone sono stati solo tre, e si riferivano sempre al mondo del basket. Il più noto è lo Harlem Globetrotters del 1979 con l’omonima squadra da esibizioni sul frontone: ha venduto 14.500 esemplari che però, come ha raccontato in un’intervista quello che per molto tempo è stato il direttore marketing della Bally, sono stati esportati soprattutto in Francia e Germania.

Pierluigi Longo

Un’altra cosa da osservare è che nel design dei flipper le figure femminili hanno quasi esclusivamente un aspetto sexy e servono a sollecitare migliori prestazioni e maggiore dispendio di denaro da parte dei giocatori maschi.

Di conseguenza, sui trecento partecipanti a questo campionato mondiale le donne non sono più del dieci per cento (nei tornei europei sono ancora meno), mentre da anni l’unico giocatore nero a raggiungere le parti alte della classifica mondiale è lo statu­nitense Steven Bowden, anche lui un designer di flipper.

Il campionato del mondo è il paradiso dei giocatori, ma nella loro gioia a volte s’insinua anche una sensazione di distacco. Qui ci sono tutti questi vecchi tesori restaurati con cura, però manca qualsiasi elemento che evochi lo spazio pubblico e il mondo contemporaneo. La passione per il flipper non aveva a che fare anche con il suo essere semplicemente a portata di mano? I flipper erano ovunque, nei bar e nei locali, nelle piscine e nelle sale da bowling, nei foyer dei cinema e nelle sale giochi.

Quando nei bar e nelle sale giochi di Monaco di Baviera mi capitava di vedere un tecnico che si piazzava di fronte al flipper per revisionarlo, mi sembrava che stesse esercitando una scienza misteriosa. Mai avrei immaginato che i suoi gesti – la cautela nel sollevare il vetro, l’atto di cambiare le lampadine rotte o di regolare le molle – fossero alla portata di qualsiasi giocatore. Qui a Riverside la situazione è ribaltata. Se durante una partita una pallina si incastra o un meccanismo s’inceppa le persone pronte a dare una mano sono tantissime: in quattro e quattr’otto sollevano il vetro e risolvono il problema. Conoscono i flipper a menadito, anche perché a casa ne hanno diversi: tutti i presenti sono insieme giocatori, collezionisti e tecnici. E da questo connubio deriva un tipo di rapporto con le macchine nettamente diverso dal mio. Per me i flipper erano affascinanti proprio perché il loro funzionamento restava un mistero. Se un tecnico rendeva visibile l’interno della macchina io, davanti a quel groviglio di cavi impolverati, mi sentivo deluso, quasi triste, come se per sbaglio fossi entrato nella sala macchine di una giostra.

I flipper sono stati sempre pensati come oggetti dello spazio pubblico e proprio per questo nei bar e nelle sale giochi non venivano maneggiati con particolare cautela. Facevano anche da poggiabicchieri o da portacenere: non li trattavamo con i guanti di velluto perché sapevamo benissimo che in caso di guasto sarebbero stati riparati e comunque nel giro di qualche settimana sarebbero stati sostituiti da un modello nuovo. Qui, al centro congressi di River­side, gli addetti che sollevano il vetro del flipper per liberare una pallina incastrata a volte indossano addirittura dei sottili guanti di stoffa: ricordano un po’ i magazzinieri dei musei quando smontano una mostra liberando con enorme cautela le opere d’arte dai pannelli.

I flipper oggi subiscono lo stesso destino dei dischi in vinile o dei treni notturni di lusso: continuano a esistere, ma non fanno più parte della vita pubblica in maniera scontata; sono elementi di un movimento nostalgico usati solo dai cultori, non da chiunque. E questi cultori formano una comunità che intrattiene una comunicazione sempre più fitta su inter­net, esprimendo un desiderio di socialità in netta contrapposizione al tipico carattere dei giocatori di un tempo, solitari e disadattati.

Finché i flipper erano dappertutto, per giocarci non eri costretto a rivelare nessun dato personale: bastava infilare una moneta nel primo che ti capitava a tiro. In una sala giochi affollata o nel bar all’angolo di una città sconosciuta, l’anonimato era sempre garantito e forse anche questo aveva a che vedere con la passione per il flipper dei delinquenti e dei vagabondi che il cinema – da Truffaut e Godard a Fass­binder e Wenders – raccontava. Era un gioco che non lasciava tracce.

Oggi per divertirsi con i flipper bisogna registrarsi sui siti di associazioni e tornei dando il proprio indirizzo email e pagando su PayPal: i dati personali hanno sostituito, come chiave d’accesso, la monetina. Per capire quanto sia lontana l’epoca d’oro basta attraversare una sala dove si disputa un torneo europeo e guardare le fessure nei modelli più vecchi. C’è scritto 2 partite per 100 lire, 4 spelen 1 gulden, 5 francs 5 plays: monete ormai rottamate di valute fuori corso.

È possibile che il flipper torni a far parte dello spazio pubblico? Negli Stati Uniti sembrano effettivamente esserci dei segni di riscoperta. I grandi campionati di freccette sulle emittenti sportive in pochi anni hanno trasformato quest’altro gioco da bar in un affare da milioni di dollari: ruspanti lanciatori di freccette come Phil Taylor, più volte campione del mondo, si sono trasformati in star. Possiamo immaginare che in futuro anche i tornei di flipper troveranno un pubblico più vasto.

Vedere i campionati di flipper è facile: i mondiali di Riverside sono passati sulla piattaforma di streaming Twitch, con lo schermo diviso tra un’inquadratura ravvicinata del piano di gioco con il punteggio al margine e la squadra dei commentatori seduta dietro a una scrivania. Alcune migliaia gli spettatori seguono in diretta Elwin che arriva primo in uno dei tornei di Riverside e secondo in un altro: in questo week­end ha vinto circa diecimila dollari. Il vincitore del torneo principale è un sedicenne del Colorado: a testimonianza del fatto che sta nascendo una nuova generazione di fuoriclasse.

Può darsi che presto tra i partecipanti spunti un produttore televisivo esperto capace di convincere un’emittente a trasmettere i mondiali di flipper. Allora, se avranno il destino dalla loro, Keith Elwin, Steven Bowden o il tredicenne svedese Arvid Flygare potrebbero diventare i Phil Taylor della pallina argentata. Game on. ◆ sk

Andreas Bernard

è professore al Center for digital cultures dell’università Leuphana di Lüneburg, in Germania. Questo articolo è uscito sul settimanale tedesco Die Zeit con il titolo Spiel des Lebens.

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Questo articolo è uscito sul numero 1465 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati