Nel deserto del Nevada, da qualche parte tra un bordello diroccato e un sito per test nucleari, c’è un paesino chiamato Tonopah. La strada principale è un susseguirsi di casinò polverosi, musei delle miniere e negozi di anticaglie. Nelle vetrine fanno capolino manifesti sbiaditi con le facce di persone scomparse. Un segnale avverte di non entrare nei tunnel abbandonati delle miniere. Le strade sono deserte, a parte qualche turista.
Molte delle persone che arrivano fin qui alloggiano nel World famous clown motel, uno dei pochi alberghi disponibili. È difficile non notarlo. Due pagliacci di legno alti sei metri svettano nel parcheggio. Un palo rosa e celeste sorregge una grande insegna luminosa su cui c’è un clown che fa giochi di prestigio: un richiamo per gli automobilisti, o un invito a scappare. Lo definiscono “il motel più spaventoso d’America”. Si dice sia stregato. Potrebbe essere vero.
Ci sono andato a gennaio per capire perché gli Stati Uniti – il paese in cui vivo da sedici anni – hanno una passione così strana e unica per il loro passato violento. È vero soprattutto nell’ovest, e Tonopah ne è il simbolo perfetto.
All’ombra dei pagliacci, poco oltre il parcheggio del motel, c’è un cimitero che custodisce una storia spettrale. Circa un secolo fa Tonopah era una cittadina vivace di tremila abitanti cresciuta grazie all’estrazione dell’argento. Poi una malattia misteriosa decimò la popolazione. Fu uno degli eventi più terrificanti della storia del Nevada, conosciuto come death harvest, raccolto di morte. Nella primavera del 1905 un giornale locale cominciò a raccontare che ogni giorno almeno dieci uomini, tutti giovani e apparentemente in ottima salute, morivano per una malattia che uccideva quattro contagiati su cinque. Le notizie che arrivavano dalla cittadina erano orribili. Ai malati si ingrossava il collo, poi la pelle diventava nera. La maggior parte delle persone moriva un giorno dopo la comparsa dei sintomi. Un uomo che si era salvato scappando a Reno riferì ai giornalisti di aver visto dodici corpi “anneriti dalla terribile malattia che sta falciando la popolazione”.
Nessuno sapeva come fosse cominciato il contagio. Alcuni davano la colpa all’insolita topografia della cittadina, ipotizzando che un gas pericoloso fosse uscito dalle miniere e si fosse addensato nell’avvallamento, tra le montagne basse ai margini del deserto. Un articolo di giornale puntava il dito contro un whisky dal sapore orribile che era servito in un bar. Secondo un altro l’infezione era partita dalla carne di maiali cannibali. La maggior parte delle persone era convinta che la malattia fosse contagiosa, ma nessuno era in grado di spiegare perché donne e bambini fossero risparmiati. Cosa ancora più strana, non si ammalavano gli abitanti dei paesi confinanti. Per chi viveva a Tonopah, l’unica possibilità era andarsene.
Negli anni la cappa di morte ha abbandonato la città, sostituita da qualcos’altro: cacciatori di fantasmi, celebrità dei social network, souvenir di pessima qualità e visite guidate attraverso i momenti più oscuri della storia della città. Sotto lo sguardo di un migliaio di pagliacci, mi sono unito a questa folla nel tentativo di capire perché spesso negli Stati Uniti la tragedia si trasforma in turismo.
Freddo e sabbia
Sono cresciuto in una zona verde e collinare del sudovest dell’Inghilterra, a pochi chilometri dalla costa atlantica. Da quelle parti non ci sono strade dritte. Il tratto più lungo di asfalto senza curve è una striscia a una sola corsia lunga un chilometro e mezzo che, come diceva sempre mio padre, “era stata costruita dai romani”. Quasi tutti i tragitti tra le colline punteggiate di mucche nel nord della contea di Devon prevedono tornanti da far venire il voltastomaco, tra siepi che seguono percorsi tracciati dal bestiame migliaia di anni prima.
La strada per Tonopah è quanto di più lontano e diverso esista dal posto in cui sono nato. Comincio il mio viaggio una settimana dopo che una tempesta ha gelato il deserto. La temperatura è ancora bassa mentre percorro la Route 95. La neve imbianca le colline tra la sabbia e la Sierra Nevada, un posto talmente desolato che ispira al tempo stesso solitudine e timore.
Sotto un cielo vastissimo, paesini sparsi punteggiano il paesaggio. Supero piccoli ristoranti vuoti che si affacciano sulla strada, vecchi camion arrugginiti e migliaia di chilometri di strada deserta. Mi fermo di tanto in tanto per fotografare tunnel di miniere abbandonate e tavole calde chiuse, mentre il freddo e la sabbia spazzano il deserto. Gli unici esseri umani che vedo per centinaia di chilometri sono gli autisti che trasportano merci tra Reno e Las Vegas.
Arrivo a Tonopah quando il sole sta per tramontare. Vedo un’insegna sgargiante che trafigge il crepuscolo: Clown motel. World famous. Vacancy.
“Ho aggiunto io le parole World famous”, mi dice con orgoglio Hame Anand in mezzo ai duemila pagliacci che ci sono nell’atrio del motel. Anand e il suo socio, l’albergatore di Las Vegas Vijay Mehar, hanno rilevato questo posto nel 2019. Superata la pandemia, hanno cominciato a fare buoni affari, soprattutto grazie ai due film dell’orrore girati qui e ai tantissimi influencer di YouTube e TikTok alla ricerca di contenuti virali.
All’esterno stanno costruendo un nuovo bar. Sbircio attraverso l’intelaiatura incompleta di una finestra e vedo il cimitero. I due posti sono vicini non solo fisicamente. Pochi anni dopo l’epidemia, nel 1911, Tonopah fu colpita da un’altra tragedia, un incendio in una miniera che causò la morte di diciassette persone. Una delle vittime si chiamava Clarence David. Di lui si sa poco, a parte il fatto che collezionava oggetti legati ai pagliacci. Aveva un figlio piccolo e una figlia, che sono cresciuti in zona e da anziani, nel 1985, hanno deciso di aprire un motel per onorare la memoria del padre, seppellito a pochi metri di distanza.
Naturalmente ci sono tantissime storie di fantasmi intorno a questo posto. Il proprietario precedente, Bob Perchetti, pubblicizzava il motel dicendo che era infestato. In un episodio del programma tv Cacciatori di fantasmi, girato qui nel 2015, Perchetti sosteneva che gli spettri di minatori morti facevano regolarmente visita agli ospiti nelle loro stanze. Raccontava anche che ad alcuni era capitato di svegliarsi e ritrovarsi un pagliaccio davanti.
Oltre ad aggiungere le parole “famoso in tutto il mondo” sull’insegna, Anand mi racconta di aver dipinto a pois l’esterno del motel e di aver raddoppiato il numero di pagliacci nell’atrio, la maggior parte dei quali sono stati regalati dai visitatori.
Vicino a un pagliaccio di cotone dal naso rosa, uno strano biglietto ricorda la morte di una donna chiamata Donna. “Lisa, la figlia, ha lasciato qui il suo pagliaccio”, si legge sul biglietto, come se mettere qui i pagliacci dei parenti defunti fosse normale.
Anand sembra innamorato del motel. Per anni ha lavorato nel settore della pubblicità in India e a Las Vegas, ma in questo strano posto nel deserto sembra aver trovato la sua vocazione. “Il motel ha bisogno di me”, dice sorridendo. Mentre vado verso la mia stanza, Anand consegna a una giovane coppia un rilevatore di campi elettromagnetici. Lo strumento per la caccia ai fantasmi può essere noleggiato per 35 dollari al giorno, anche se – si legge su una piccola etichetta – non c’è la certezza d’intercettare un’attività paranormale. Tutto contento, Anand spiega alla coppia che gli ospiti del motel hanno accesso al cimitero “24 ore su 24, sette giorni su sette”.
La mia stanza, la numero 222, si chiama Clownvis, unione delle parole “Clown” ed “Elvis”. Quando entro, mi ritrovo a essere fissato da almeno venti dipinti pacchiani con la faccia di Elvis Presley.
Ombre sulla collina
Nel tardo pomeriggio visito il cimitero, appena oltre il parcheggio del motel ricoperto di neve. Ci sono seppelliti molti dei giovani uomini uccisi dal cosiddetto raccolto di morte. Tutti i circa trecento cadaveri sepolti qui sono andati incontro al loro destino tra il 1901 e il 1911. Quattordici tombe contengono i cadaveri delle persone uccise dall’incendio nel tunnel della miniera. Ma oltre all’epidemia e all’incendio c’è stato anche altro.
Sulla maggior parte delle tombe non ci sono lapidi ma croci di legno che proiettano lunghe ombre sulla collina. Molte hanno targhe di latta su cui è riportata la causa della morte. C’è Charles Smith, un classificatore di minerali grezzi “assassinato nella sua capanna dietro la miniera centrale”. C’è Jerry O’Donel, morto dopo essere caduto in un tunnel sotterraneo ed essere saltato in aria a causa della dinamite. E poi c’è “Big” Billy Murphy, un addetto alle gabbie degli ascensori nella miniera che per tre volte si è inoltrato nel tunnel infuocato durante il famigerato incendio per salvare dei minatori che avevano perso i sensi. Non è mai riemerso dalla sua terza discesa. Ci sono anche una decina di tombe di bambini, diverse serie di fratelli morti in incidenti in miniera e qualche nome di ragazza, probabilmente lavoratrici del sesso che sono state uccise o si sono suicidate con il
fenolo.
Allen Metscher ha trascorso gli ultimi quarant’anni a indagare sulle vite delle persone morte in quel decennio brutale. È lui a incidere le loro storie sui sottili fogli di latta affissi sulle tombe. È nato a Tonopah negli anni quaranta e non ha mai lasciato questa piccola città mineraria nel Nevada centrale. “Mio nonno è arrivato in Nevada nel 1902 insieme ad altri cercatori d’oro. È morto nel crollo di una miniera”, mi racconta. “Ha lasciato in povertà una moglie e due figli, mio padre e mio zio. Alla fine entrambi sono morti di silicosi perché anche loro lavoravano in miniera”. Negli anni ottanta Metscher e i suoi due fratelli crearono la Central Nevada historical society con l’obiettivo di mantenere viva la storia della regione. Gran parte del loro lavoro è qui, nel cimitero. Passano le giornate ad accompagnare i turisti in tour guidati e ad aggiungere altre targhe alle tombe.
Aggirandomi per la cittadina e parlando con gli abitanti e con chi è di passaggio, imparo altre cose sulla storia del posto. Per quasi dodicimila anni questa parte del Nevada è stata abitata da popolazioni indigene. Poi sono arrivati i coloni europei, come in gran parte dell’ovest. Hanno saccheggiato, ucciso e, quando hanno capito che c’erano risorse sottoterra, hanno costruito i primi insediamenti. Tonopah fu fondata nel 1900, dopo che un uomo che si chiamava Jim Butler decise di accamparsi vicino a una sorgente a ridosso delle colline, ai margini del deserto. La storia narra che Butler si svegliò e si accorse che il suo asino era scomparso. Alla fine riuscì a trovarlo, ma l’uomo era così arrabbiato che lanciò una pietra contro l’animale. Si accorse che la pietra brillava d’argento.
La notizia di quella scoperta si diffuse rapidamente in tutto l’ovest. Centinaia di persone a caccia di fortuna arrivarono nell’accampamento e cominciarono a lavorare in condizioni brutali, mentre compagnie minerarie create all’improvviso reclamavano la proprietà del metallo sotto le colline polverose. Nel 1905 le persone cominciarono a morire per l’epidemia. La notizia arrivò nelle redazioni di San Francisco, in California. Uno studioso di mineralogia disse ai giornalisti che le persone morivano quasi sicuramente a causa dell’ammoniaca contenuta nell’acqua che usciva dalle rocce vulcaniche. Non era vero. Un’altra ipotesi era che le verdure andate a male avvelenavano l’acqua.
Centinaia di uomini terrorizzati fuggirono da Tonopah. I funzionari della città si riunirono e prepararono una dichiarazione che fu mandata a tutti i giornali, nel tentativo di salvare la reputazione della città e sottolineare gli sforzi per disinfettarne ogni angolo e bruciare tutte le verdure andate a male. Non ci fu niente da fare. Tonopah si spopolò.
La prima sparatoria
L’ovest degli Stati Uniti è pieno di questi luoghi un tempo violenti e che di recente hanno cercato di ripulirsi per ospitare turisti e incentivare i consumi. Arrivando dalla California ho visto l’indicazione del posto in cui sorgeva l’ultimo accampamento del Donner party, un famoso gruppo di pionieri rimasti intrappolati in una tempesta invernale. Più di quaranta persone morirono e alcuni dei sopravvissuti mangiarono i loro cadaveri. Oggi quella tragedia è commemorata con un parco, un museo, un resort sciistico, film e musical.
Tombstone, una cittadina dell’Arizona che deve il suo nome a una pietra tombale, guadagna buona parte dei suoi soldi grazie ai turisti che visitano il sito della sparatoria all’O. K. Corral, uno scontro tra rappresentanti della legge e banditi avvenuto più di 140 anni fa. In tutto l’ovest ci sono molte altre località sconosciute che in cambio di qualche dollaro offrono la possibilità di dare una sbirciatina nel loro passato oscuro. A poche ore da Tonopah c’è Porterville, in California. Sul marciapiede di fronte a una farmacia della catena Rite aid sorge la Zalud house, una casa in mattoni rossi. Un secolo fa tra le pareti di quell’abitazione una famiglia d’immigrati tedeschi fu vittima di una serie di tragedie molto tristi, e oggi le persone pagano tre dollari per visitare quella casa. In mostra ci sono il letto in cui la giovane Mary Jane Zalud morì di tubercolosi, la sedia a dondolo crivellata di proiettili su cui era seduto suo padre quando fu ucciso da un’amante respinta e la sella dalla quale il figlio più piccolo della famiglia fu disarcionato, per poi morire a causa delle ferite.
Il rapporto degli statunitensi con gli orrori del passato non potrebbe essere più diverso da quello dell’Inghilterra sudoccidentale. Nel settembre 1975, a pochi chilometri dal posto in cui sono cresciuto, tre fratelli anziani si spararono a vicenda in una fattoria, a quanto pare per un patto suicida. La storia della loro morte è solo sussurrata. Non ci sono indicazioni stradali per quell’indirizzo né tantomeno visite guidate. Non è rimasto niente a segnalare la tragedia, e sarebbe impensabile l’idea di sfruttarla per soldi.
In Inghilterra ogni centimetro di suolo è stato al centro di guerre e omicidi, è stato coltivato, comprato e venduto cento volte, dai druidi ai romani, passando per i galli e fino all’epoca moderna. Gli orrori del passato sono sepolti in profondità, sotto il senso di colpa coloniale e le tragedie segrete. La carneficina causata dall’espansione degli Stati Uniti è più recente, una macchia di sangue che si sta ancora asciugando sulla sabbia. “Il moderno ovest è nato nel sangue”, dice William Deverell, docente di storia all’università della Southern California. “Gli episodi di violenza e terrore sono in un modo o nell’altro diventati parte integrante di alcuni aspetti del carattere americano”.
Gli statunitensi hanno dissotterrato quel passato cupo, l’hanno rispolverato, confezionato e messo in vendita. “La storia è plasmata e distorta per soddisfare le richieste del mercato”, racconta Boyd Cothran, storico e autore di Remembering the Modoc war. Redemptive violence and the making of American innocence (2017). “Uno dei modi più diffusi in cui questa storia è ricordata nell’ovest degli Stati Uniti è facendosi una domanda: ‘Come convinciamo i turisti a fermarsi nella nostra cittadina e a spendere un po’ di soldi?’”, prosegue Cothran. A Tonopah i massacri sono attrazioni, anche se la verità dietro la leggenda sembra essere meno importante. Nel 1905, mesi dopo la fine del raccolto della morte, i cadaveri furono mandati a San Francisco e Reno per le autopsie. Si scoprì che a uccidere tutte quelle persone non era stato un liquore cattivo o un gas nocivo, ma una forma di polmonite provocata dall’acqua insalubre. Nella corsa a estrarre le ricchezze del sottosuolo, la cittadina non aveva costruito un sistema fognario. I vasi da notte erano svuotati sui marciapiedi di legno. Per le strade della cittadina scorrevano i rifiuti del mattatoio.
Alla fine le condizioni igieniche migliorarono, ma decenni dopo, quando le miniere furono chiuse, la storia raccapricciante di Tonopah diventò un caposaldo della sua identità: un’attrazione per turisti molto tempo dopo che si è esaurito l’argento dei suoi filoni. Oggi a Tonopah da sfruttare c’è rimasto solo il folclore. In un modo o nell’altro sono sopravvissuto alla nottata nel motel senza vedere l’ombra di un fantasma, meno che mai quello di Clownvis. Al mattino ho visto Sydney Ostrander, una regista, sistemare un treppiedi e una videocamera nel parcheggio innevato. “Stiamo girando un video per una canzone intitolata Hotel for clowns”, mi racconta. Chiedo se l’artista, una stella nascente della scena indie pop che si chiama Chloe Moriondo, avesse in mente Tonopah quando ha scritto la canzone. “Penso che la canzone sia farina del suo sacco”, mi dice Ostrander. “Ma poi è venuto fuori che questo posto c’era davvero”.
Morto di paura
Mentre salgo in auto per percorrere al contrario la lunga strada che mi riporterà a San Francisco, vedo un uomo in piedi in mezzo al parcheggio. Sta riprendendo il suo amico, forse un altro youtuber, che scende gli scalini del cimitero mangiando dei pezzi di carne essiccata comprati alla stazione di servizio. Ai confini della città, sulla Route 95, una modella che indossa un abito di seta rosa e un boa di piume si esibisce in magnifiche pose sul bordo della strada davanti a un fotografo, mentre sabbia e vento spazzano l’asfalto.
Più tardi Metscher mi chiama per raccontarmi che sta preparando una nuova targa per il cimitero: “Era il barbiere della città”, dice. “Faceva la barba ai cadaveri per farli sembrare in ordine agli occhi dei familiari. È morto di polmonite, ma gira voce che sia morto di paura. Penso che sulla targa ci scriverò questo”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1522 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati