Tre mesi prima che Hamas attaccasse Israele Ronen Bar, direttore dello Shin bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, ha annunciato che la sua agenzia aveva sviluppato una piattaforma di intelligenza artificiale generativa – simile a ChatGpt – e che la nuova tecnologia era stata integrata nella sua “macchina d’interdizione”, contribuendo al processo decisionale “come un co-pilota”. Il sito d’informazione israeliano Tech12 aveva pubblicato un’anteprima del discorso di Bar: “Il sistema sa tutto del terrorista: dov’è andato, chi sono i suoi amici e i familiari, come passa il tempo, cosa ha detto e cosa ha pubblicato online. Usando l’intelligenza artificiale, il sistema analizza comportamenti, prevede rischi, lancia allarmi”.

Nonostante questo, il 7 ottobre 2023 l’attacco devastante dell’organizzazione islamista palestinese Hamas ha preso completamente alla sprovvista lo Shin bet e il resto del multimiliardario sistema di difesa israeliano. Il fallimento dell’intelligence è stato ancora più sorprendente se si considera che Hamas ha preparato quasi tutta l’operazione alla luce del sole, con tanto di assalti simulati al confine e a territori dove si trovano gli insediamenti israeliani. Gruppi di miliziani guidati da Hamas hanno perfino pubblicato online i video delle esercitazioni. Gli israeliani che vivono vicino al confine hanno notato e denunciato questi movimenti con crescente preoccupazione, ma si è preferito dare ascolto alla burocrazia dei servizi segreti e, per estensione, ai software che gli fornivano le informazioni. I militari di leva israeliani, in maggioranza giovani donne, che monitoravano la situazione attraverso le onnipresenti telecamere di sorveglianza lungo il confine con la Striscia di Gaza, hanno scritto un rapporto dettagliato sulle manovre di Hamas per aprire un varco nella recinzione e prendere degli ostaggi. I loro timori sono stati liquidati come uno “scenario irrealistico”. Da più di un anno i servizi segreti israeliani erano in possesso di un documento di Hamas con tutti i dettagli di un piano d’attacco.

Brian Schimpf, fondatore della Anduril, un’azienda che produce droni. California, febbraio 2021 (Philip Cheung, The New York Times/Contrasto)

Conoscendo i metodi dell’intelligence israeliana, i miliziani gli hanno dato in pasto solo ciò che volevano fargli sapere, servendosi di informatori noti per essere in contatto con gli israeliani. Hanno fatto credere che Hamas si stesse concentrando sul miglioramento dell’economia locale attraverso l’accesso al mercato del lavoro israeliano, e che la superiorità militare di Israele fosse un deterrente per eventuali operazioni di Hamas. Queste relazioni confermavano che il sistema d’intelligence israeliano aveva convinzioni rigide e radicate sulla condotta di Hamas, sommate a un pregiudizio contro i palestinesi, che portava a considerarli incapaci di azioni su vasta scala. L’intelligenza artificiale sapeva tutto dei terroristi, tranne ciò che stavano pensando.

Questa fiducia ingiustificata non riguardava solo i servizi di sicurezza israeliani. Sul numero di novembre/dicembre della rivista statunitense Foreign Affairs è uscito un lungo articolo di Michèle Flournoy sull’intelligenza artificiale (ia). Flournoy è una persona nota nel complesso militare-industriale statunitense. È stata sottosegretaria alla difesa durante l’amministrazione Obama e poi ha contribuito a fondare la Westexec advisors, una società di consulenza nel settore della difesa. Nel 2020 aveva dichiarato alla rivista The American Prospect che “costruire ponti tra la Silicon valley e il governo degli Stati Uniti è molto, molto importante”, e nell’articolo su Foreign Affairs, intitolato “Ai is already at war” (L’intelligenza artificiale è già in guerra), spiegava che gli analisti dei servizi d’intelligence erano già in grado di fare “valutazioni migliori” grazie all’aiuto dell’ia nell’analisi dei dati. “In futuro l’ia cambierà il modo in cui gli Stati Uniti e i loro avversari si affrontano sul campo di battaglia”, ha scritto. “In breve, l’ia ha dato il via a una rivoluzione nella sicurezza i cui effetti hanno appena cominciato a rivelarsi”.

Questa nuova prodigiosa tecnologia, sostiene Flournoy, permetterà agli Stati Uniti non solo di riconoscere le minacce nemiche ma anche di mantenere sistemi di armamenti complessi e di stimare meglio i costi delle decisioni strategiche. Questa rivoluzione, afferma, è rallentata dalla tortuosa e retrograda burocrazia del dipartimento della difesa.

Le lamentele per l’ostruzionismo dei burocrati del Pentagono sono un grande classico delle aziende tecnologiche, e trovano sempre molto spazio sui mezzi d’informazione. “Le startup provano a vendere l’ia a un Pentagono titubante”, titolava nel novembre 2023 il New York Times in un articolo che parlava in modo entusiasta di Shield Ai, un’azienda di droni – in perdita – di cui Flournoy è stata consulente. Oltre a descrivere un drone prodotto dall’azienda, l’articolo citava “i molti ostacoli che la nuova generazione dei fornitori militari sta incontrando per farsi strada in un settore, quello dei finanziamenti del Pentagono, dominato da produttori più grandi di armi che da decenni riforniscono le forze armate”.

La favola del progresso

In realtà l’idea che il governo statunitense faccia resistenza alle nuove tecnologie è poco fondata: secondo i dati, il dipartimento della difesa finanzia almeno 686 progetti legati all’intelligenza artificiale, e nel 2022 ha affidato a un gruppo di grandi aziende tecnologiche un appalto di nove miliardi di dollari per la Joint warfighting cloud capability, un progetto di sviluppo di un grande cloud comune che dovrebbe “mettere il turbo” alle soluzioni basate sull’ia, secondo le parole di un esponente del Pentagono.

Gamechanger, un altro progetto d’intelligenza artificiale, permetterà ai dipendenti del Pentagono di scoprire cosa fa in concreto il loro titanico dipartimento, a partire da come spende i soldi. In un comunicato stampa del 2022 sul nuovo software, il Centro di coordinamento per l’intelligenza artificiale (Jaic) riportava le parole entusiaste di un funzionario del Pentagono, secondo cui “Gamechanger migliorerà la visibilità e la conoscenza delle nostre varie voci di bilancio”. Nonostante questo, nel 2023 il Pentagono non ha superato la revisione contabile per il sesto anno di fila.

L’intelligenza artificiale condizionerà sicuramente il modo di operare dell’esercito. Ma l’idea che gli imprenditori illuminati della Silicon valley stiano rivoluzionando la macchina militare statunitense alimenta la falsa convinzione che questa relazione sia nuova e soprattutto che migliorerà in modo sostanziale il sistema di difesa statunitense, noto per la sua insaziabile fame di denaro, per le sue armi dalle scarse prestazioni e per le guerre perse. In realtà il cambiamento va nella direzione opposta: quando nuove aziende entrano a far parte del complesso militare-industriale, cominciano a comportarsi come quelle che le hanno precedute.

In Ucraina i droni più efficaci sono quelli meno costosi e meno sofisticati

Secchi di urina

La convinzione che i software siano in grado di risolvere i problemi dei conflitti tra gli esseri umani è molto radicata nella storia dell’esercito statunitense. Alla fine degli anni sessanta l’aviazione militare posizionò una fitta rete di sensori nelle giungle del sudest asiatico per interrompere il sentiero di Ho Chi Minh, che il Vietnam del nord usava per rifornire le truppe nel sud. Studiato da un gruppo di scienziati al servizio del Pentagono, il programma, chiamato Igloo white, era stato studiato per rilevare ogni traccia di attività umana, dal rumore degli scarponi in marcia all’odore di ammoniaca delle urine fino alle scintille causate dall’avviamento dei motori. Una volta raccolte tutte le informazioni, le passava a dei giganteschi computer dell’Ibm che si trovavano in una base segreta in Thailandia.

Erano le macchine più potenti in circolazione, capaci di elaborare i segnali identificando in modo esatto le colonne di rifornimento nemiche, rese invisibili dalla fitta vegetazione della giungla. L’operazione, attiva dal 1967 al 1972 per un costo di centinaia di milioni di dollari all’anno, fu un fallimento totale. I vietnamiti escogitarono subito dei modi per neutralizzarla. Come Hamas, che ha mandato in corto circuito gli algoritmi dello Shin bet dandogli in pasto informazioni false, anche i viet­namiti falsificarono i dati, appendendo secchi di urina sugli alberi fuori del sentiero, oppure facendo passare mandrie di bestiame lungo piste inutilizzate che i computer regolarmente interpretavano come movimenti nemici. Nel frattempo i rifornimenti arrivavano senza problemi alle forze nordvietnamite nel sud. Nel 1972 i nordvietnamiti lanciarono una grande offensiva usando centinaia di carri armati di cui Igloo white non si era minimamente accorto. Poco dopo il programma fu cancellato.

I computer Ibm usati per Igloo white erano uno dei fiori all’occhiello dell’industria che oggi chiamiamo Silicon valley. Nata dal settore dell’elettronica che aveva contribuito alla vittoria della seconda guerra mondiale, l’industria fiorì sotto il patrocinio del Pentagono durante gli anni della guerra fredda. Lo sviluppo dei circuiti integrati, fondamentale per i computer moderni e lanciato dalla Texas instruments nel 1958, fu finanziato dal dipartimento della difesa, e fu sperimentato per la prima volta con il sistema di navigazione del missile nucleare intercontinentale Minuteman II. Con l’arrivo delle calcolatrici, la rivoluzione del microchip trovò un mercato commerciale separato dal settore degli appalti governativi, dando vita a una cultura industriale che attecchì, fisicamente e spiritualmente, a sud di San Francisco, a migliaia di chilometri dal Pentagono.

Computer sul campo

Dagli anni ottanta, con il progressivo declino dell’economia manifatturiera statunitense e la crisi inesorabile delle città industriali del midwest, l’economia digitale cominciò a crescere con una progressione esponenziale. Appena un mese dopo essersi quotata in borsa, a dicembre del 1980, la Apple computer valeva più della Ford, ed era orgogliosa di non dipendere dagli appalti pubblici. La Apple era convinta che il suo computer Macintosh avrebbe liberato i cittadini dall’incubo orwelliano del controllo del governo, “mettendo a disposizione degli individui la stessa potenza di calcolo un tempo riservata alle aziende”. Ma anche se questi imprenditori si consideravano “cowboy”, “ribelli” e “rivoluzionari”, per usare le parole della storica Margaret O’Mara, il divorzio dal Pentagono non fu mai completo. Internet, salutata come una tecnologia liberatrice, nasceva da Arpanet, che era stata sviluppata dall’Agenzia per i progetti di ricerca avanzata (Arpa) del Pentagono. In Surveillance valley, Yasha Levine racconta che la prima rete internet fu usata quasi immediatamente per raccogliere informazioni sul movimento antimilitarista. Le prime ricerche a Stanford di Larry Page e Sergey Brin, i fondatori di Google, furono in parte finanziate dalla stessa agenzia del Pentagono, che era diventata Darpa dopo aver aggiunto al proprio nome la parola defense. Google Earth, il software di immagini satellitari di Google, è un’evoluzione di Keyhole EarthViewer, un sistema di cartografia parzialmente finanziato da un’azienda di venture capital di proprietà della Cia e poi comprata da Google, la In-Q-Tel.

Soldati statunitensi partecipano a una simulazione di battaglia in una base in Oklahoma, 2018  (Tamir Kalifa, The New York Times/Contrasto)

Il Pentagono, nel frattempo, non aveva perso di vista il sogno irrealizzato di Igloo white, cioè controllare il campo di battaglia con la potenza dei computer. Dopo la ritirata dal Vietnam, il dipartimento della difesa statunitense spese mucchi di soldi per il programma Assault breaker, che avrebbe dovuto usare potenti radar aviotrasportati per scrutare oltre le linee sovietiche nell’Europa dell’est. Fu un altro fallimento totale: il sistema non era in grado di distinguere i carri armati dalle automobili o dagli alberi spazzati dal vento, e dieci anni dopo il progetto fu cancellato. Ma i militari non si persero d’animo. Alcuni alti ufficiali avevano sviluppato il concetto di “guerra centrata sulla rete” e le loro aspirazioni trovarono uno sbocco in progetti come il Future combat systems (sistemi di combattimento del futuro), che collegava i sensori alle armi attraverso processori molto potenti. Questi processori avrebbero permesso, secondo i sostenitori del programma, di colpire gli obiettivi con una facilità estrema, al punto che non sarebbe stato più necessario installare armature protettive sui carri armati. Dopo aver sprecato quasi venti miliardi di dollari di soldi pubblici, il progetto fu abbandonato nel 2011.

La vecchia e sclerotica Boeing era stata tra le principali fornitrici di questi progetti. Sicuramente la Silicon valley, dinamica e moderna, sarebbe riuscita dove la vecchia guardia aveva fallito.

Peter Thiel ne era convinto. Ex avvocato civilista, Thiel aveva già fatto fortuna contribuendo a fondare l’app di pagamenti PayPal, per poi arricchirsi ancora di più grazie a un investimento in Facebook. Conservatore libertario, nemico degli “hippy che si sono impossessati del paese”, Thiel era deciso, per citare il suo biografo Max Chafkin, “a riportare il complesso militare-industriale nella Silicon valley”. Fondata nel 2003 e basata sulla tecnologia per l’individuazione delle frodi di PayPal, l’azienda di software di Thiel, la Palantir, sfrutta la raccolta di enormi quantità di dati per visualizzare e schematizzare le informazioni in modelli semplici. Anche se sul sito della Palantir c’è ancora scritto che “è essenziale preservare i princìpi della privacy e delle libertà civili quando si usano i dati”, l’azienda ha potuto contare fin da subito sugli investimenti della Cia, attraverso la In-Q-Tel, e gran parte delle commesse iniziali sono arrivate dal mondo dell’intelligence. Con il passare degli anni l’azienda ha costruito rapporti con ufficiali di medio livello dell’esercito e con parlamentari del congresso.

Gli imprenditori della Silicon valley hanno trovato un ambiente favorevole anche tra gli alti funzionari del Pentagono, soprattutto tra i collaboratori di Andrew Marshall, ex direttore dell’Office of net assessment, un centro studi interno al dipartimento. Uno di questi collaboratori, ben inserito nel settore della difesa di Wash­ington, è l’ex marine Robert O. Work. Nominato sottosegretario della marina nel 2009 durante l’amministrazione Obama e subito promosso, Work riteneva che gli Stati Uniti stessero per perdere il loro vantaggio tecnologico in campo militare, un tempo basato sulla superiorità nelle armi nucleari e poi in quelle con guida di precisione. I cinesi e i russi, ammoniva, avevano colmato il divario. Questa minaccia andava affrontata adottando, tra le altre cose, sistemi aerei e navali senza equipaggio e reti di analisi del campo di battaglia dotati di intelligenza artificiale. Bisognava rivolgersi alla Silicon valley.

Una fonte ha definito la tecnologia “una fabbrica per l’assassinio di massa”

Nel 2014 il segretario della difesa Chuck Hagel ha lanciato la Defense innovation initiative (iniziativa per l’innovazione della difesa), supervisionata da Work, con l’obiettivo di “cercare attivamente proposte provenienti da imprese e istituzioni accademiche al di fuori dell’orbita del dipartimento della difesa”. Ash Carter, il successore di Hagel, è andato più volte in pellegrinaggio in California, togliendosi la cravatta ed esaltando i vantaggi della collaborazione. “Stanno inventando nuove tecnologie, creando prosperità, connettività e libertà”, ha detto a un giornalista dopo una delle sue prime visite. “Anche loro si sentono dei servitori dello stato, e vorrebbero qualcuno a cui poter fare riferimento a Washington”. Nel 2015 Carter ha lanciato la Defense innovation unit experimental, un’unità con sede a Mountain View, vicino al quartier generale di Google e della Apple. Il dipartimento della sicurezza interna ha avuto la stessa idea, aprendo un ufficio satellite nelle vicinanze per “coltivare relazioni con le aziende tecnologiche della Silicon valley, in particolare con operatori non tradizionali, per aiutarli a capire le sfide del dipartimento”.

Nel 2016 c’è stato un salto di qualità nel rapporto, quando Carter ha convocato un consiglio di innovazione per la difesa composto da pezzi grossi del mondo tecnologico e militare, con l’incarico di riferire direttamente al segretario della difesa. A capo del consiglio c’era Eric Schmidt, ex presidente esecutivo e amministratore delegato di Google. Il ruolo di Schmidt è stato poi esteso a quello di capo della commissione nazionale per la sicurezza sull’intelligenza artificiale, con Work come vice. I due sono stati incaricati di favorire “lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, dell’apprendimento automatico e delle relative tecnologie per affrontare globalmente le esigenze di sicurezza nazionale e di difesa degli Stati Uniti”.

Google nel caos

Tra gli obiettivi dell’iniziativa sull’intelligenza artificiale di Work c’era quello di sviluppare un sistema in grado di rendere accessibile l’enorme quantità di informazioni catturate da satelliti, intercettazioni telefoniche, email e droni e immagazzinate nelle banche dati dell’intelligence e delle forze armate. Nel 2017 Google si è assicurata un appalto per il progetto Maven, creato da Work per accelerare “l’integrazione dei dati e dell’apprendimento automatico nel dipartimento della difesa”. Lo scopo iniziale del progetto era sviluppare strumenti per l’elaborazione del flusso incessante di filmati girati dai droni per individuare obiettivi militari. Il contratto, secondo le email interne fatte trapelare dal blog di tecnologia Gizmodo, specificava che il coinvolgimento di Google non doveva essere rivelato senza l’autorizzazione dell’azienda. Quando si è sparsa la notizia del contratto, si è scatenato un putiferio. Se all’inizio il motto di Google era don’t be evil, “non essere cattivo”, al tempo del progetto Maven era stato già rimpiazzato da un più blando do the right thing, “fai la cosa giusta”. Molti degli ottantamila dipendenti di Google sono rimasti turbati quando hanno scoperto che l’azienda era coinvolta in un programma di sviluppo di droni armati. Mille dipendenti hanno firmato una petizione chiedendo che l’azienda e i suoi fornitori si impegnassero a non collaborare a tecnologie militari. Alcuni hanno dato le dimissioni.

In tutto questo clamore nessuno ha notato che il progetto Maven rientrava nella grande tradizione di tanti altri programmi militari basati sulla tecnologia informatica: proclami altisonanti completamente slegati dal mondo reale. Il “video full-motion” elaborato da Google avrebbe dovuto essere fornito da Gorgon stare (sguardo della Gorgone), un sistema di nove videocamere montate su droni Reaper. “Riusciamo a vedere tutto”, aveva annunciato frettolosamente il Washington Post in un articolo sulle presunte capacità del sistema. Purtroppo non era vero, come ha poi scoperto l’aviazione militare. Secondo un rapporto elaborato dai militari della base di Eglin nel 2011, le videocamere non erano in grado di “rilevare e identificare prontamente gli obiettivi” e la velocità di trasmissione era troppo bassa. Il sistema, secondo la conclusione dei collaudatori, non era “operativamente efficace”, e non avrebbe dovuto essere impiegato in Afghanistan. Ma l’aviazione militare ha deciso di inviarlo lo stesso. “Ci hanno speso un sacco di soldi, e ancora oggi non funziona”, ha ammesso un ex pilota militare e analista del Pentagono che ha familiarità con il programma.

Un altro militare, oggi al servizio di un’agenzia del Pentagono che si occupa di questi temi, dice che gli sviluppatori di ia sembrano non capire alcuni dei requisiti fondamentali per l’uso della tecnologia a scopi bellici. Racconta di un esperimento della Darpa in cui un robot controllato dall’intelligenza artificiale doveva identificare una squadra di marines in una situazione di battaglia. I soldati erano riusciti a ingannare il sistema nascondendosi in una grossa scatola di cartone, facendo le capriole o camuffandosi con i rami di un abete. Tutti sono riusciti ad avvicinarsi e ad attaccare il robot senza essere riconosciuti.

Arriva Bezos

Nonostante le proteste dei dipendenti di Google, però, il progetto Maven non è morto. Dopo che l’azienda si è ritirata, i subappalti sono passati alla Microsoft, ad Amazon e alla Palantir, tra gli altri. Non c’è stato un annuncio ufficiale, ma i nuovi accordi sono stati svelati da Jack Poulson, un dipendente di Google che a un certo punto se n’è andato disgustato. Poulson, ex professore di Stanford specializzato in supercomputer avanzati, aveva lasciato il mondo accademico nel 2016 per “andare dove c’erano i veri esperti, cioè da Google, almeno all’epoca”, racconta.

Una volta assunto l’incarico di ricercatore scientifico, si è reso conto che la cultura aziendale non gli piaceva, nonostante l’ambiente informale dell’ufficio. Era il loro “senso di superiorità morale” a dargli sui nervi. “La cultura di Google era definita da un eccezionalismo che nasceva dalla convinzione di essere l’unica azienda etica”, racconta. Tutti, però, erano pronti a “girarsi dall’altra parte” quando l’azienda faceva “cose terribili”. Poulson ha deciso di dare le dimissioni quando ha scoperto che Google, mentre puntava alle commesse del Pentagono, lavorava simultaneamente con il governo cinese allo sviluppo di Dragonfly, un motore di ricerca abilitato a mettere sulla lista nera parole chiave sgradite come “diritti umani” o “proteste studentesche”.

Agenti della gendarmeria della provincia di Van, nell’est della Turchia, 1 marzo 2024  (Ozkan Bilgin, Anadolu/Getty)

Consapevole che in pochi avessero compreso la centralità della tecnologia nel complesso militare-industriale, Poulson ha aperto, insieme ad altri dissidenti, un sito chiamato Tech Inquiry. “Quasi nessuno ne parlava”, dice Poulson. “Perciò mi sono messo a studiare queste organizzazioni e i contratti con la Defense innovation unit”. Molti dettagli erano opachi, affogati in documenti contrattuali consultabili solo attraverso continue richieste di accesso agli atti secondo la normativa sulla libertà di informazione.

La ritirata di Google dal contratto Maven ha provocato reazioni indignate nel nascente asse tra difesa e settore tecnologico. Thiel ha definito “un tradimento” la presa di posizione di Google, mentre
Schmidt ha fatto sapere di essere “in disaccordo” con la decisione. Il mensile The Atlantic ha pubblicato un articolo intitolato “la frattura tra Silicon valley e Washing­ton è una minaccia per la sicurezza nazionale”. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha detto durante un evento della rivista Wired: “Se le grandi aziende tecnologiche voltano le spalle al dipartimento della difesa, questo paese è nei guai”.

Bezos in realtà aveva un interesse personale nella vicenda. Già nel 2013 Amazon aveva fatto un passo importante nel settore tecnologico della difesa, aggiudicandosi un appalto della Cia da 600 milioni di dollari per il servizio cloud Amazon web services, sviluppato originariamente per gestire transazioni commerciali. Il cloud stava diventando la nuova frontiera del profitto per aziende come Amazon, Microsoft, Oracle e Google che, dopo essersi scrollata di dosso gli scrupoli morali della vicenda Maven, aveva presentato un’offerta per una fetta dei nove miliardi del contratto per la Joint war­fighting cloud capability. Anche se i servizi commerciali garantivano ancora ampi profitti, le aziende avevano cominciato a mettere gli occhi sul governo come fonte stabile di ricavi. La frattura tra il settore tecnologico e il Pentagono, se mai c’era stata, si stava ricomponendo in fretta.

Soldati del futuro

Si è parlato molto del ruolo dei droni nella guerra in Ucraina. Alcuni hanno detto che questi apparecchi rappresentano un passo avanti epocale della tecnologia militare. Ma la verità è che i droni più efficaci, usati da entrambe le parti in conflitto, sono quelli con la tecnologia più semplice e poco costosi, che possono essere comprati su Amazon e poi modificati per trasportare bombe o granate di piccole dimensioni. Somigliano ai dispositivi elettronici improvvisati usati dai ribelli in Iraq o in Afghanistan più che ai prodotti hi-tech della Darpa.Nonostante questo, l’industria tecnologica continua a proporre strumenti sempre più sofisticati. A dicembre la Anduril, un’altra impresa tecnologica finanziata da Thiel e attiva nel mercato della sicurezza, ha annunciato il lancio del Roadrunner, un piccolo drone a reazione capace di rilevare e distruggere in autonomia mezzi nemici alimentati a reazione, inclusi droni, per poi tornare alla base. Secondo il settimanale Newsweek, l’apparecchio costa “poche centinaia di migliaia di dollari”. Dopo la presentazione del Roadrunner, come al solito i mezzi d’informazione hanno parlato dell’“ultima rivoluzionaria arma statunitense”.

Franklin Spinney, un ex analista del Pentagono, ha avuto una reazione diversa. “È fuffa di marketing”, mi ha detto. La fonte del Pentagono che mi aveva raccontato la storia della scatola di cartone, e che ha avuto l’opportunità di esaminare i prodotti della Anduril, me li ha descritti come “gli F-35 del mondo dei droni, complicati da far funzionare e troppo costosi”. Per nulla scoraggiato, nel gennaio 2022 il comando delle operazioni speciali ha affidato alla Anduril una commessa da un miliardo di dollari per lo sviluppo di un sistema antidrone.

Un mondo armato
Spesa militare a parità di potere d’acquisto, miliardi (Fonte: sipri/the economist)

La Anduril, che come la Palantir prende il nome dal Signore degli anelli, nasce da un’idea di Palmer Luckey. Quando era adolescente, Luckey ha creato Oculus, un visore per la realtà virtuale che poi ha venduto a Facebook per tre miliardi di dollari. In seguito ha deciso di concentrarsi sulle tecnologie militari, lamentando il fatto che le persone in possesso delle competenze tecniche necessarie per costruire le armi del futuro “si rifiutavano di lavorare per il settore della difesa”. Dopo aver venduto al governo un sistema di sorveglianza dei confini nazionali, Luckey si è dedicato ai droni e ad altri sistemi d’armi, coltivando visioni più ambiziose per il futuro della guerra.

Nel 2018, durante un’intervista con la Cnn, Luckey ha rivelato che la Anduril stava lavorando a una “piattaforma d’integrazione dei sensori alimentata dall’intelligenza artificiale” per sviluppare “un perfetto modello in 3d di tutto quello che succede in un’area di vaste dimensioni”. I soldati del futuro, ha assicurato, saranno dei “supereroi” con “il potere della perfetta onniscienza della loro zona operativa, in cui sapranno dove si trova ogni singolo nemico, ogni amico e ogni risorsa”.

Allucinazioni

Per quanto l’idea di un soldato onnisciente possa sembrare fantasiosa, nel 2021 i vertici delle forze armate hanno creduto alla promessa, affidando alla Microsoft un appalto da 21,9 miliardi di dollari per lo sviluppo di un sistema integrato di realtà aumentata basato sul visore HoloLens. Peccato che la tecnologia non abbia superato i test del Pentagono. Il rapporto di valutazione, pubblicato nel 2023, ha rivelato che la maggior parte dei soldati che hanno sperimentato il sistema ha avvertito “almeno un sintomo di impedimento fisico, come perdita dell’orientamento, vertigini, affaticamento della vista, mal di testa, cinetosi, nausea, tensioni al collo e perdita della visione periferica”.

Nuova frontiera
Investimenti di capitali di rischio in startup che si occupano di spazio e difesa, miliardi di dollari (Fonte: pitchbook)

Il congresso ha ritirato gran parte dei finanziamenti per la fornitura, ma l’esercito ha prontamente elargito alla Microsoft altri 125 milioni di dollari per perfezionare il sistema, portando il costo finale a poco meno di 23 miliardi (l’esercito sostiene che nei test interni del nuovo sistema “la risposta dei soldati è stata positiva”).

Nella Silicon valley non tutti sono impressionati da questi sviluppi. A proposito della presunta minaccia rappresentata dalle macchine superintelligenti, Yann LeCun, il capo della ricerca sull’ia della Meta, ha sottolineato che questi allarmi resteranno “prematuri finché non avremo progettato un sistema in grado di competere, in termini di capacità di apprendimento, anche solo con un gatto. Al momento siamo lontani”. È scettico anche Nate Koppikar, fondatore della società di investimento Orso Partners, che ha guadagnato centinaia di milioni di dollari scommettendo contro le aziende tecnologiche. “Tutto quello che è successo nel mondo della tecnologia dopo il 2016 è stato, in mancanza di una definizione migliore, un mucchio di stronzate”, dice.

Dopo lo scoppio della bolla del 2021, in cui gli investitori hanno perso circa settemila miliardi di dollari, il settore ha cominciato a rallentare e a tagliare gli organici, osserva. “E poi, tutto a un tratto, provano a venderci la favola dell’ia come l’ultima frontiera”. Secondo Koppikar, la minaccia dell’ia e dei robot malvagi – “come Arnold Schwarzenegger in Terminator” – fa parte di una campagna di marketing che vorrebbe convincerci del potere strabiliante di una tecnologia che, in realtà, ha una serie di problemi strutturali, come la propensione a inventare le cose, un difetto noto tra gli addetti ai lavori come “allucinazioni”. A questo proposito, Koppikar cita il caso della Palantir, che prima di quotarsi in borsa alla fine del 2020 era in perdita (il titolo è passato da un massimo di 45 dollari nel gennaio 2021 a poco meno di otto dollari due anni dopo). “Allora hanno completamente stravolto il copione e si sono trasformati in un’azienda di ia”.

La Palantir m’interessava perché effettivamente la sua quotazione si è impennata durante la febbre dell’ia del 2023. Mi è stato detto che i sistemi di intelligenza artificiale dell’apparato di sicurezza israeliano probabilmente si affidano alla sua tecnologia. L’umiliante fallimento dello Shin bet nel prevedere l’attacco di Hamas non ha placato la fame di tecnologia delle forze armate israeliane. La pioggia incessante di bombe sugli affollatissimi quartieri della Striscia di Gaza, secondo un servizio molto ben documentato del giornalista israeliano Yuval Abraham su +972 Magazine (e pubblicato nel numero 1542 di Internazionale), è stata in parte coordinata da The Gospel, una piattaforma di intelligenza artificiale per l’individuazione di obiettivi militari. The Gospel produce in automatico una serie di raccomandazioni su dove colpire in base a tutto ciò che la tecnologia identifica come collegato ad Hamas, per esempio l’abitazione privata di un sospetto militante dell’organizzazione. Il sistema è inoltre in grado di calcolare quanti civili, compresi donne e bambini, moriranno nell’attacco (al momento nei bombardamenti israeliani sono morte più di trentamila persone, in buona parte donne e bambini). Una delle fonti dell’intelligence di Abraham ha definito la tecnologia “una fabbrica per l’assassinio di massa”. Nonostante la patina hi-tech del massacro, il risultato non è diverso dalla carneficina inflitta, con mezzi relativamente più primitivi, a Dresda e a Tokyo durante la seconda guerra mondiale.

Per stabilire se la Palantir – che “sta con Israele”, come ha proclamato orgogliosamente l’amministratore delegato Alex Karp – sta effettivamente avendo un ruolo nel massacro, ho contattato l’azienda, ma non ho avuto risposta. Così mi sono rivolto all’intelligenza artificiale. Prima ho chiesto a ChatGpt, che mi ha detto di non avere informazioni perché il suo aggiornamento è fermo al 2022. Allora ho chiesto a Bard, la piattaforma di ia di Google, che ha confermato i miei sospetti. “Nel 2019 la Palantir ha annunciato una nuova collaborazione con l’esercito israeliano per lo sviluppo di strumenti di intelligenza artificiale. Questi strumenti sono stati progettati per aiutare l’esercito israeliano a identificare e tracciare potenziali minacce e prendere decisioni migliori su come usare le risorse”.

Quando ho chiesto di vedere l’annuncio ufficiale, mi ha inviato un comunicato stampa dall’aspetto professionale, con tanto di citazioni di Karp e del capo di stato maggiore delle forze armate israeliane, esattamente le informazioni che cercavo. Ma c’era un problema: era un’allucinazione. Nessun comunicato stampa del genere è stato mai rilasciato. ◆ fas

Andrew Cockburn è un giornalista britannico che segue la politica statunitense per Harper’s Magazine. Il suo ultimo libro è The spoils of war: power, profit and the American war machine(Verso Books 2021).

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Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati