Siccome da adolescente non trovavo nessuno che giocasse a scacchi con me, un giorno presi una vecchia copia ingiallita di Chess made easy, un manuale per scacchisti alle prime armi, la studiai con attenzione e cominciai a giocare contro me stessa. La prima edizione del manuale era del 1942. Recentemente l’ho riletta e verso la fine ho notato una breve sezione dedicata alle “donne negli scacchi”. Succede spesso, si legge nel testo, che quando marito e moglie imparano a giocare insieme, “la moglie vince la maggior parte delle partite”. A questo punto ci si aspetterebbe una congiunzione avversativa, seguita da una tipica frase sessista che spazza via le speranze di ogni aspirante giocatrice. Invece ecco cosa c’è scritto:
A livello agonistico le cose cambiano. Una ragione di fondo è che le donne tendono ad avere meno tempo a disposizione. In realtà, però, è soprattutto un fatto di moda e tradizione. In giovane età, le ragazze semplicemente non studiano seriamente gli scacchi come fanno invece molti ragazzi. Le pochissime che ci si dedicano hanno un notevole successo.
Un manuale di scacchi tascabile non è il primo posto dove ci si aspetterebbe di trovare un elegante riferimento agli effetti della socializzazione di genere e alla frammentazione del tempo libero delle donne. Nel 1963, rispondendo a una domanda sull’evidente disparità tra i sessi nel gioco, il grande maestro di scacchi Bobby Fischer disse delle donne: “Forse, semplicemente non sono molto intelligenti”. Nel 1989, Garry Kasparov spiegò che gli scacchi “non si addicono alle donne. È una battaglia, capisci? Una grande battaglia. Le donne sono più deboli nel combattimento” (dopo la sconfitta contro Judit Polgár nel 2002, riferendosi a quelle parole Kasparov ha dichiarato: “Oggi non la penso più così”).
Nessuna donna è mai stata campionessa mondiale di scacchi. Il calcolo delle probabilità è sufficiente a giustificare questo dato (meno donne “studiano seriamente gli scacchi”, quindi il bacino delle potenziali vincitrici è molto più ristretto), ma anche lo stereotipo ha un ruolo. Uno studio del 2007 ha dimostrato che nelle partite a scacchi online le donne giocano bene come gli uomini se non conoscono il genere dell’avversario. Le loro prestazioni calano quando sanno che stanno affrontando un uomo e migliorano se credono di giocare contro un’altra donna, che sia vero o no.
Nel 2015 il grande scacchista britannico Nigel Short ha scritto che gli uomini sono “programmati” per giocare meglio a scacchi e ha ribadito in un tweet che “hanno un cervello diverso da quello delle donne. È una realtà biologica” (anche Short è stato battuto da Polgár, ma evidentemente non ha imparato molto). Questa ipotesi è smentita da una recente analisi basata su tre decenni di studi, secondo la quale non ci sono prove di una differenza morfologica del cervello di uomini e donne, fatte salve le dimensioni. Il cervello del maschio umano è in media dell’11 per cento più grande di quello della femmina e contiene una percentuale più alta di materia bianca (così chiamata per via delle guaine bianche e grasse di mielina che isolano elettricamente le fibre nervose), perché sistemi più grandi richiedono un’infrastruttura più imponente per trasmettere lo stesso segnale a una distanza maggiore. Ma questo non ci dice quasi nulla. In termini assoluti, le dimensioni del cervello non indicano un’intelligenza superiore: il cavallo non è intelligente come lo scimpanzé. Il cervello aumenta con le dimensioni del corpo, a prescindere dal sesso e dalla specie. Quando si mettono a confronto le dimensioni degli organi tra i sessi, le differenze maggiori non sono nel cervello, ma nei polmoni, nel fegato, nel cuore e nella tiroide.
Nonostante questo, la convinzione che esistano differenze cerebrali innate tra i sessi resiste. Perché questi miti sono così duri a morire? Prima di tutto, i risultati delle ricerche spesso si basano su campioni ridotti, e i risultati sono sopravvalutati. Poi ci sono pregiudizi nella divulgazione: gli studi che scoprono differenze tra i sessi sono subito proposti per la pubblicazione, mentre quelli che le smentiscono tendono a essere archiviati. Di conseguenza l’osservazione delle somiglianze è sottostimata e le ricerche che confermano il dimorfismo sessuale cerebrale hanno meno probabilità di essere confutate da altre di segno contrario. Come osserva lo psicologo Gerald Haeffel in un saggio per l’accademia nazionale delle scienze del Regno Unito, uscito a giugno, “la scienza della psicologia viene da una straordinaria serie di successi. Una revisione della letteratura pubblicata mostra che quasi tutte le ipotesi di studio sono avvalorate. Ciò significa che tutte le teorie sono corrette, oppure che la letteratura è sbilanciata a favore dei risultati positivi”.
Quando parlano di differenze cerebrali tra i sessi, i giornalisti spesso evitano di chiarire se queste scoperte riguardano il fringuello zebra o l’avicola delle praterie
Gli scrittori e i giornalisti scientifici contribuiscono a creare questi miti. Quando parlano di differenze cerebrali tra i sessi, spesso evitano di chiarire se queste scoperte riguardano il fringuello zebra o l’avicola delle praterie, oppure – se si parla di esseri umani – non dicono se l’età media dei partecipanti allo studio è di sessant’anni, quindi che i cervelli osservati sono stati soggetti alle influenze di una vita intera. I ricercatori sanno quello che fanno: il sessismo vende. Non aspettiamo altro che la scienza confermi i nostri pregiudizi. Forse, però, in qualche modo c’entra anche l’ipotesi del mondo giusto, una sorta di giustizia naturale in cui le persone ottengono ciò che meritano: il fatto che non sono brava a scacchi è meno frustrante se posso dare la colpa alle limitazioni sessuali del mio cervello anziché alla mancanza di tempo, agli effetti negativi degli stereotipi o alla mia pigrizia. O magari è più facile metabolizzare spiegazioni semplici per fenomeni complicati. Perché rompersi la testa con la complessa confluenza tra corpo e cultura quando possiamo accontentarci di credere che le differenze tra i sessi siano radicate nei nostri geni o nelle vite dei nostri antenati? In The gendered brain, la neuroscienziata Gina Rippon cita uno studio in cui gli autori tentano di collegare la connotazione di genere dei colori rosa e azzurro alle origini evolutive della nostra specie. La conclusione è ancora più sciocca della premessa: le donne-raccoglitrici delle caverne dovevano imparare a cogliere bacche di colore rossastro, mentre gli uomini-cacciatori delle caverne si sarebbero adattati a scrutare l’orizzonte sullo sfondo del cielo azzurro.
Nel 2009 Raymond Tallis scriveva sul New Humanist: “Se v’imbattete in una nuova disciplina con il prefisso neuro ma senza legami con il sistema nervoso in quanto tale, accendente il vostro rilevatore di stronzate. Se ha per oggetto la società, prendete la pistola”. C’è tutto un nuovo filone della scienza popolare che si pone l’obiettivo di smontare la neuroscienza delle differenze sessuali. Spesso i pezzi sono scritti in maniera pesante e cavillosa – viene da chiedersi a quante persone siano riusciti a far cambiare idea – ma finché la “neurospazzatura” continua ad accumularsi, è importante mettere per iscritto contestazioni pazienti e coscienziose.
Nel suo esaustivo saggio, Rippon non esclude completamente la possibilità di differenze cerebrali tra i sessi, ma mostra come alla base della maggior parte delle teorie in circolazione ci siano condizionamenti di genere. I bambini maschi imparano a camminare prima, ma solo perché vengono incoraggiati di più alla motilità; le bambine imparano a parlare prima, ma solo perché gli adulti conversano di più con loro. Gli uomini tendono a fare meglio delle donne nei compiti di “rotazione mentale”, che consistono nel visualizzare come apparirebbe un oggetto da un punto di osservazione diverso. Ma questa differenza non è riscontrata nei bambini piccoli, ed è più probabile che sia correlata con il tempo passato a giocare ai videogiochi: non è tanto una questione di neuroanatomia, ma di chi ha avuto in regalo la Nintendo. Uno studio su un milione di persone in 48 paesi, pubblicato nel 2015, mostra che le donne hanno un’autostima significativamente più bassa rispetto agli uomini. Per spiegare questo risultato, possiamo decidere se sondare i centri dell’autovalutazione cerebrale e raccontarci storielle sugli esseri umani arcaici o se invece considerare seriamente il fatto che ogni cultura ha il suo modo di far sentire le donne a disagio.
Quando scandagliamo il cervello in cerca di segni del sesso, in realtà quella che finiamo per trovare è l’impronta del genere. E se non stiamo attenti, rischiamo di confondere una cosa per l’altra. Se esistono differenze primordiali tra i sessi, abbiamo sprecato l’occasione di trovarle: il sessismo non solo cambia il nostro cervello, ma tende a pregiudicare l’obiettività che serve per essere dei bravi scienziati. Magari alcune donne sono congenitamente meno brave a giocare a scacchi o in matematica o nei compiti di rotazione mentale, ma i limiti fissati dagli stereotipi e dalle barriere materiali sono molto più stretti di quelli biologici. Accettarlo significa cambiare il punto di partenza della nostra indagine. Nel suo recente The disordered cosmos, la cosmologa Chanda Prescod-Weinstein domanda: “Quali sono le condizioni necessarie per fare in modo che un ragazzino nero di tredici anni e sua madre single possano guardare il cielo di notte, lontani dalle luci artificiali, e sapere cosa stanno vedendo? Quali strutture sanitarie, quali livelli di sicurezza alimentare e abitativa servono?”. Nella maggior parte dei casi il cervello è in grado di fare quasi tutto, il problema è che troppi cervelli sono malnutriti, immersi nel cortisolo, circondati da stereotipi e presi dalle esigenze della sopravvivenza. Le parole di Prescod-Weinstein fanno eco a quelle di Stephen Jay Gould quarant’anni fa: “Sono meno interessato al peso e alle circonvoluzioni del cervello di Einstein che alla quasi certezza che persone di pari talento abbiano vissuto e siano morte nei campi di cotone”.
Gli studi delle differenze sessuali nel cervello scontano anche difficoltà terminologiche. I ricercatori raramente specificano cosa intendono con “sesso” e per lo più si affidano all’autodichiarazione di genere dei partecipanti. Quindi la domanda è: cosa stanno veramente studiando? Mi ricordo le lezioni di scienze a scuola, quando ci spiegavano che gli elettroni orbitano intorno al nucleo dell’atomo a distanze fisse, come i pianeti. Chi ha proseguito gli studi di fisica o di chimica sa che era una bugia: quegli orbitali perfetti in realtà sono nuvole confuse di probabilità, ma soprattutto gli elettroni non sono dentro quelle nuvole, sono le nuvole. La mezza verità serve a prepararci per una realtà più complicata. Capire il sesso e il genere richiede un trucchetto pedagogico simile. La semplificazione più diffusa divide sesso e genere dicendo “il sesso è biologico, il genere è sociale”.
La verità è che separare sesso e genere non è così facile. L’uno sembra radicato nella realtà biologica concreta, mentre l’altro poggia sul concetto apparentemente scivoloso d’identità. In realtà, la maggior parte delle persone ha un’idea molto più chiara del genere che del sesso. Il genere è un elemento osservabile del nostro mondo quotidiano, mentre la determinazione del sesso è per lo più accettata sulla fiducia. L’esercito degli Stati Uniti definisce disinvoltamente così il sesso biologico: “Lo status biologico di una persona come maschio o femmina sulla base di cromosomi, gonadi, ormoni e genitali”. Il problema è che questi quattro elementi non arrivano tutti insieme e nessuno di loro, preso singolarmente, costituisce la base per una chiara opposizione binaria tra i sessi. Diversi atleti professionisti, obbligati a sottoporsi a controlli pruriginosi e spesso razzisti, sono stati informati di avere i genitali “giusti” per la loro categoria agonistica, ma di avere livelli di ormoni o cromosomi “sbagliati”. Quale parte ci dice la verità sul sesso? Lo sport professionistico è sempre stato particolarmente interessato a scoprire cosa può fare un corpo atipico quando è sottoposto a forme atipiche di allenamento. Lo spostamento continuo di questa linea di demarcazione tra i sessi non fa che sottolineare l’assurdità di questa definizione.
Le femministe gender critical, che negano l’identità di genere, scelgono la strategia della semplicità, descrivendo le donne come “femmine umane adulte”, definite nella maggior parte dei casi dal fatto di avere l’utero o i genitali giusti. Il pene è associato all’aggressione sessuale e la vagina alla vulnerabilità sessuale, con il risultato di alimentare lo stesso tipo di paure fiabesche di cui si nutre l’estrema destra. La loro, scrive la filosofa Judith Butler, è “un’elaborata fantasia, una fantasia che proviene da paure molto potenti ma che non descrive una realtà sociale”. Statisticamente, le donne trans rischiano di essere vittime di aggressioni sessuali più delle donne cis (che s’identificano con il sesso e il genere attribuiti alla nascita), e la vulnerabilità alla violenza è, per la maggioranza delle donne, una definizione più concreta di ciò che le unisce e le limita. Anche se forse rifiutano i termini della questione, le femministe che escludono le trans dalle loro preoccupazioni dovrebbero riflettere sulla sfida lanciata dalla poeta Audre Lorde: “Quale donna è così innamorata della sua oppressione da non riuscire a vedere l’impronta del proprio tallone sulla faccia di un’altra donna?”.
Secondo altri, la regola aurea per l’identificazione del sesso è nei cromosomi, la prova incontrovertibile, scritta nel codice delle nostre cellule, di chi siamo davvero. Peccato che la maggior parte delle persone non saprà mai niente dei suoi cromosomi (uno studio pubblicato lo scorso giugno, basato sui dati di Uk Biobank, stima che circa un uomo su cinquecento potrebbe avere un cromosoma X o Y in più). Sappiamo ancora meno dei cromosomi, delle gonadi, degli ormoni e dei genitali degli altri. Ciò che ci rimane impresso sono i capelli, i vestiti e quello che riusciamo a distinguere dal grasso e dai muscoli. Quasi tutti questi marcatori possono essere facilmente modificati con la dieta, l’esercizio, la depilazione, la chirurgia, gli ormoni e il trucco. Interpretiamo come differenze attribuibili al sesso differenze che sono state costruite o amplificate grazie a tecniche di genere.
I cromosomi sessuali sono determinanti per la vita, ma non nel senso che spesso intendiamo. In The better half, il genetista Sharon Moalem sostiene che ciò che conta è se i nostri genitori ci hanno passato o no l’equivalente genetico delle cinture di sicurezza. Le “femmine” sono omogametiche: hanno due cromosomi X, uno per genitore. I “maschi”, invece, sono eterogametici: hanno un cromosoma X e un cromosoma Y (negli uccelli è il contrario: i maschi sono omogametici e le femmine eterogametiche). Un cromosoma X contiene circa ottocento geni che codificano le proteine, mentre un cromosoma Y ne contiene solo settanta. Ogni cellula umana usa il materiale genetico su un solo cromosoma X; quando ce ne sono due, un cromosoma X viene silenziato e l’altro viene lasciato attivo. Questa selezione avviene all’inizio dello sviluppo embrionale, e le diverse cellule fanno scelte diverse. Fino a poco tempo fa si pensava che l’inattivazione del cromosoma X fosse completa e permanente, ma in realtà circa un quarto dei geni dell’X silenziato sfugge all’inattivazione e resta a disposizione della cellula. I soggetti omogametici, quindi, sono dotati di un ampio e reattivo bagaglio di risorse genetiche. Di fronte a una minaccia, i soggetti eterogametici hanno solo un set di strumenti genetici. Se questi geni sono all’altezza del loro compito tutto bene; in caso contrario le conseguenze possono essere disastrose. Per chi ha due cromosomi X, il set ausiliario di geni offre un piano di riserva.
Moalem mostra che questa ridondanza genetica conferisce un vantaggio a circa la metà di noi in termini di resistenza del sistema immunitario, mancate anomalie dello sviluppo e percezione dei colori. Soprattutto, tra i geni capaci di sfuggire all’inattivazione del cromosoma X ce ne sono sei che sono importanti per la soppressione dei tumori maligni. Una singola mutazione su un cromosoma X può disattivare un gene cancro-soppressore, rendendo una persona più vulnerabile a una serie di tumori; in chi invece ha una seconda X, questi geni “evasi” restano funzionanti. Sono variazioni che forse spiegano la notevole differenza di longevità tra i sessi. Al momento della nascita, ci sono 105 bambini eterogametici per ogni cento bambine omogametiche, ma una volta raggiunta l’età di quarant’anni i maschi non sono più la maggioranza. Le donne sono l’80 per cento della popolazione centenaria e il 95 per cento della popolazione ultracentenaria. Detto questo, i sistemi immunitari eterogametici tendono a essere iperentusiasti (o “autocritici”, come dice Moalem), il che si traduce in un più alto tasso di malattie autoimmuni, in cui l’organismo si rivolta contro se stesso.
Il lavoro di Moalem ha conseguenze importanti per la ricerca sanitaria, ma non si occupa dei significati sociali del sesso. Rippon, invece, dedica al più lampante oggetto di discordia pochi paragrafi alla fine del suo libro. Se non ci sono un cervello “maschio” e un cervello “femmina”, allora come dobbiamo interpretare lo scollamento tra identità e corpo espresso da molte persone transgender? Evidentemente, per spiegare questo fenomeno dobbiamo parlare di un cervello orientato diversamente rispetto al corpo, cioè di un cervello sessuato. La patina edulcorante di Rippon ricorda la risposta del “daltonismo razziale” al razzismo: “Forse bisogna mettere in discussione l’idea che esistano caselle pre-etichettate in cui mettere gli esseri umani”. Le caselle sono sicuramente un problema; Rippon, però, commette l’errore – molto comune nei lavori sul sesso – di confondere un obiettivo potenziale (o utopistico) con ciò che è giusto nel presente. Desiderare un mondo senza rigide categorie di genere non dovrebbe imporre alle persone che sono danneggiate da queste categorie di sacrificarsi per la causa. Le persone devono vivere nei loro corpi. E ci libereremo delle caselle molto prima se festeggeremo i nostri gioiosi atti sovversivi invece di fare finta che quelle caselle non esistano.
Del resto, essere scettici sulle differenze sessuali non evita che il cervello delle persone si differenzi lungo tante altre direttrici, e possa essere in relazione con il corpo in un modo che stride con le aspettative della società. Dipende dalla natura o dalla cultura; probabilmente non ci sarà mai un modo utile di separare l’una dall’altra. Forse dovremmo semplicemente ammettere che non sappiamo cosa rende trans le persone trans, così come non sappiamo cosa rende gay le persone gay, e che forse c’è qualcosa di sospetto nel volerlo sapere invece di limitarci semplicemente ad accettarlo.
Una delle molte contraddizioni di queste discussioni è che chi vorrebbe trovare e imporre il binarismo spesso resiste all’idea di forme più ampie di diversità. In fondo, tra noi ci sono tantissime differenze. Alcune donne sono molto più vulnerabili alla violenza sessuale di altre. Alcune hanno meno tempo di altre. Alcune ricevono in regalo la console per i videogiochi e vengono lasciate a giocare per ore finché non diventano bravissime negli esercizi di rotazione mentale. Altre sono sminuite sul lavoro, ad altre ancora rubano le idee. Alcune di noi hanno risorse genetiche più robuste. Altre possono rimanere incinte e rischiano che il loro futuro sia preso in ostaggio per questo. Ognuna di queste differenze conta e in ogni momento può essere il locus di una definizione o di una rivendicazione. Le differenze sono anche collegate tra loro, non solo a livello biologico, ma soprattutto per il ruolo politico ed economico che ci è stato attribuito. “La società dominata dal maschio ha definito da sempre le donne come un gruppo biologico distinto”, ha detto l’avvocata e attivista Catharine MacKinnon in un’intervista nel 2015. “Se questo avesse potuto portare alla liberazione, saremmo libere”. ◆ fas
Arianne Shahvisi insegna etica alla Brighton and Sussex medical school. Questo articolo è la recensione di due libri: The gendered brain di Gina Rippon (Vintage 2020) e The better half di Sharon Moalem (Penguin 2021). È uscito sul quindicinale britannico London Review of Books con il titolo What’s the difference?
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Questo articolo è uscito sul numero 1484 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati