Ogni quattro anni il National intelligence council degli Stati Uniti pubblica un rapporto intitolato Global trends (Tendenze globali) che cerca di prevedere le minacce e le incertezze che peseranno sul mondo nei due decenni successivi. Firmato da un’associazione di agenti segreti che si fanno chiamare come un gruppo indie rock – Strategic features group – il rapporto ha l’obiettivo di spingere la Casa Bianca e i suoi consiglieri a tendere lo sguardo verso un orizzonte temporale più lungo. Si tratta quindi di documenti di natura speculativa, che di solito vengono desecretati senza troppo clamore. È stato sicuramente così per il rapporto pubblicato nel 2017, per lo più ignorato dall’opinione pubblica finché, apparentemente all’improvviso, l’epidemia che annunciava è arrivata. La “pandemia globale del 2023” ha effettivamente bloccato il traffico internazionale e ha creato il caos economico proprio come previsto, solo che lo ha fatto con tre anni di anticipo.
Eppure neanche il rapporto successivo ha attirato l’attenzione, forse perché si concentrava su un tema tanto nebuloso quanto onnipresente: l’aumento dell’insicurezza. L’edizione 2021 di Global trends era incentrata sulle minacce incrociate che incombono sull’umanità in una situazione di “incertezza crescente”. Uno dei grafici del rapporto, intitolato “Erosione della sicurezza umana”, presenta una serie di input minacciosi: condizioni meteorologiche estreme, uso improprio delle risorse idriche, aumento del livello del mare, geoingegneria, cambiamenti sociali e di governo, disuguaglianza, instabilità, conflitti e altro. Qui, sostengono gli autori, c’è il futuro che ci aspetta, a meno di un miracolo.
Invece di considerare la terra come un bene comune che abbiamo il dovere di curare, trattiamo il mondo naturale come una risorsa inesauribile da sfruttare
Il rapporto si conclude presentando cinque scenari, ciascuno con la traiettoria che potrebbe prendere il nostro futuro incerto. Il quinto e ultimo si chiude con una nota di speranza. Intitolato “Tragedia e mobilitazione”, immagina una rivoluzione globale. In questo possibile futuro il surriscaldamento del pianeta porta a una grande carestia e a una serie di conflitti. Traumatizzati dalle esperienze del covid-19 e della fame, i giovani lanciano un movimento di ribellione transnazionale chiedendo un “drastico cambiamento del sistema”, prima sulla politica ambientale e poi sui temi della sanità pubblica e della povertà. I partiti verdi vanno al potere in tutta Europa, le Nazioni Unite sono rivitalizzate e la Cina si schiera dalla loro parte, seguita dall’Australia, dal Canada e anche dagli Stati Uniti dopo che gli ambientalisti stravincono le elezioni. Risultato? Una nuova organizzazione internazionale, il Consiglio per la sicurezza umana. Per evitare boicottaggi i paesi ricchi e le aziende si adeguano. Nel 2038 un riconoscimento crescente dell’insostenibilità dei metodi del passato trasformerà il modo di vedere l’alimentazione, la salute e la sicurezza ambientale. Gli unici paesi scontenti saranno i pochi stati petroliferi rimasti.
Di fronte a questo scenario finale, per la prima volta in vita mia mi sono sorpresa a essere d’accordo con i servizi segreti statunitensi: un’esperienza davvero destabilizzante. Se vogliamo sfuggire al destino del grafico “Erosione della sicurezza umana”, un grande movimento dovrà allontanare i nostri sistemi dal consumo eccessivo di combustibili fossili. Come giustamente riconoscono gli autori del rapporto, le istituzioni internazionali, i governi nazionali, le economie, le infrastrutture e gli incentivi devono essere tutti ripensati. Mi sono tornate in mente le conclusioni dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l’autorità mondiale sulla scienza climatica: per scongiurare la catastrofe servono “cambiamenti rapidi, profondi e senza precedenti in tutti gli aspetti della società”. Allo stesso tempo, mi sono chiesta se un Consiglio per la sicurezza umana basti a rimetterci in carreggiata. Se le minacce che incombono sull’umanità sono legate a doppio filo alla devastazione del pianeta, non dovremmo chiederci anche cosa significa la sicurezza per gli ecosistemi, le piante e gli animali da cui dipendono la nostra alimentazione, la salute e l’ambiente?
Per capire la situazione attuale potremmo dire che ci stiamo avvicinando a grandi passi verso un futuro messo a rischio dalla ricerca di sicurezza solo per gli esseri umani. Molti dei problemi elencati nel rapporto Global trends nascono dal fatto che i nostri sistemi sociali e politici raramente (per non dire mai) tengono conto della sopravvivenza o del benessere di altri soggetti. Invece di considerare la terra come un bene comune che abbiamo il dovere di curare, invece di rispettare gli ecosistemi che dovremmo proteggere, trattiamo il mondo naturale come una risorsa inesauribile da sfruttare a piacimento.
Gli ambientalisti cercano soluzioni giuridiche creative per difendere i diritti dei bambini, delle generazioni future e del mondo non solo umano, cioè di chi non ha i diritti politici tipicamente riconosciuti alla maggior parte degli adulti in età per votare. Nel 2015 il governo olandese è stato costretto a limitare le emissioni inquinanti dopo un contenzioso avviato da un gruppo di ragazze e ragazzi. Tre anni dopo la corte costituzionale della Colombia si è espressa a favore di un gruppo di giovani che avevano chiesto di fermare la deforestazione. La corte ha riconosciuto personalità giuridica alla foresta amazzonica e ha impegnato il governo colombiano a proteggerla, una conclusione che non ha niente di strano se si pensa che in alcune giurisdizioni le imprese hanno lo stesso status. Se l’azienda Amazon può essere una “persona giuridica” perché non può esserlo anche l’Amazzonia, quella vera? Nel 2008 l’Ecuador ha aperto una nuova strada quando ha sancito i diritti della Pachamama, la madre terra, nella nuova costituzione. Due anni dopo lo ha fatto anche la Bolivia, incoraggiando le comunità di tutto il mondo a fare lo stesso. Una serie di leggi ispirate dalla cultura dei maori ha attribuito personalità giuridica a Te Urewera, una foresta ancestrale in Nuova Zelanda, e poi al fiume Whanganui, riconoscendolo come un’entità vivente che parte dalle montagne e arriva al mare. Citando queste decisioni, alcuni giudici in India hanno dichiarato che i fiumi Gange e Yamuna e i loro affluenti sono “entità giuridiche viventi che hanno lo status di persona giuridica con tutti i relativi diritti, doveri e responsabilità”.
Negli Stati Uniti decine di amministrazioni hanno approvato ordinanze locali che riconoscono i diritti della natura. In Ohio gli elettori hanno attribuito diritti giuridici al lago Erie per proteggerlo dagli scarichi che provocano la fioritura di alghe tossiche (l’iniziativa è stata bocciata da un giudice federale). Nel 2019 la Ojibwa white earth nation del Minnesota ha stabilito che il manoomin, il riso selvatico considerato un cibo sacro ed essenziale nella cultura anishinaabe, ha diritto a esistere e crescere. Il Canada si è accodato a questa tendenza nel 2021, quando il Magpie, un fiume lungo trecento chilometri nella Côte-Nord, in Québec, è diventato la prima entità naturale a essere considerata portatrice di diritti. I rappresentanti del consiglio degli innu sono stati nominati guardiani del fiume, con l’incarico di proteggere i nove diritti che ora ha il corso d’acqua, tra cui il diritto di scorrere, di essere libero dall’inquinamento, di conservare la biodiversità e di fare causa. Se agli ecosistemi canadesi dovesse essere riconosciuta personalità giuridica a livello federale, potrebbe essergli attribuito il diritto costituzionale della “sicurezza della persona”.
È una sfida profonda alle basi concettuali dei sistemi giuridici occidentali: si mette in discussione uno dei princìpi fondamentali del pensiero occidentale, cioè che l’essere umano è al di sopra e al di là del resto del creato. Tradotta in legge, la distinzione è chiara. Gli esseri umani e le loro estensioni – le organizzazioni e le aziende – sono considerati persone giuridiche con diritti inalienabili, mentre tutti gli altri elementi sono, appunto, senza diritti. Questa visione autocelebrativa e autolesionista attraversa le epoche e le ideologie economiche. Il capitalismo e il colonialismo ne hanno fatto un caposaldo essenziale per la sicurezza della proprietà e del profitto; ma anche il comunismo, storicamente, ha sempre trattato la natura come un oggetto senza diritti, da tesaurizzare, plasmare, svuotare e distruggere.
Oggi tutti i tentativi di raggiungere la sicurezza separandoci e mettendoci al di sopra del resto del regno animale e dominando la natura ci si ritorce contro in modo clamoroso. Uno studio del 2021, ben documentato e sottoposto a valutazione paritaria, stima che entro la fine del secolo il cambiamento climatico provocherà 83 milioni di morti in eccesso tra gli esseri umani (cioè morti in più rispetto a quelli che ci si aspetterebbe naturalmente); ma la cifra, avvertono gli autori, è probabilmente sottostimata. Di qui al 2040 quasi un bambino su quattro vivrà in zone in stato di severità idrica e nel 2070 circa tre miliardi di persone vivranno in zone calde, cioè al di fuori della fascia dove rimangono le condizioni climatiche che hanno dato origine a gran parte della civiltà umana. Nei prossimi decenni un milione di specie di animali e di insetti rischiano di sparire, stravolgendo le catene alimentari e provocando conseguenze a cascata. Gli insetti in via di estinzione sono un nutrimento essenziale per molti uccelli, tra cui i passeri; senza questi impollinatori, molte piante e molte colture alimentari non cresceranno.
L’attribuzione dei diritti giuridici alla natura non fermerà questa spirale, ma potrebbe contribuire a rallentarla, e anche la velocità conta. In un articolo sul non perdere la speranza, uno dei principali autori del rapporto del 2022 dell’Ipcc scrive: “Ogni singola tonnellata di anidride carbonica a cui impediamo di entrare nell’atmosfera diminuisce la severità degli effetti che causiamo”. Vale per ogni giorno in cui una condotta di combustibili fossili viene bloccata, per ogni ettaro di habitat naturale che viene salvato, per ogni creatura a rischio di estinzione che sopravvive e per ogni litro d’acqua che resta potabile.
Il mio interesse per i diritti della natura nasce in parte dalla convinzione che la biodiversità ha un valore politico, oltre che biologico. Ogni specie estinta a causa nostra riduce quella che potremmo chiamare la democrazia ecologica, evidenziando la necessità di definire un sistema politico per rappresentare e proteggere in modo efficace gli interessi delle altre forme di vita. I benefici per gli animali e per gli insetti – oltre che per il 40 per cento delle specie vegetali oggi messe in pericolo dal cambiamento climatico – dovrebbero essere più che sufficienti a spingerci a combattere l’estinzione. Ma essere solidali con il mondo non solo umano è anche una scelta egoistica. La biodiversità è essenziale per la nostra esistenza: per la sicurezza degli ecosistemi di cui facciamo parte, per i sistemi alimentari a cui ci affidiamo e per la possibilità di evitare future pandemie. Quando un ecosistema è sano, la biodiversità frena la trasmissione di agenti patogeni; la variazione genetica diluisce e spezza le vie del contagio. Questo significa che la contrazione e frammentazione degli habitat selvatici oltre a ridurre la biodiversità aumenta i rischi di quello che gli scienziati chiamano spillover, ovvero il contatto tra essere umano e animale e il passaggio di specie di un’infezione.
Come spiega un rapporto delle Nazioni Unite del 2020 sulla prevenzione delle pandemie, le malattie trasmissibili sono un prodotto dell’attività umana. Sono l’ennesimo sintomo dell’arroganza umana, una conseguenza di secoli di tentativi di conquistare la natura. I cambiamenti nell’uso della terra – su tutti il disboscamento dei terreni destinati all’allevamento intensivo – sono responsabili di un terzo delle malattie emergenti. Come gli uragani e le siccità causati dal riscaldamento climatico, nuovi e pericolosi agenti patogeni sono collegati all’attività umana. Un ambiente ancora più congeniale alla proliferazione di microbi nocivi è quello dei moderni recinti d’ingrasso, che ammassano enormi quantità di animali geneticamente simili in condizioni crudeli e insalubri. Come ha scritto recentemente la rivista American Journal of Lifestyle Medicine, l’allevamento intensivo dà ai virus un numero infinito di “giri di roulette pandemica”. Proprio per questo motivo l’American public health association, la più grande organizzazione di professionisti della sanità pubblica negli Stati Uniti, invoca da anni una moratoria sugli allevamenti industriali.

Date queste e innumerevoli altre sfide, non possiamo limitare le nostre ambizioni al Consiglio per la sicurezza umana immaginato dal rapporto Global trends, anche se sarebbe un ottimo inizio. Quello che serve è un Consiglio per la sicurezza non solo umana. Dobbiamo lavorare con il mondo naturale e non contro, cooperare con il Sole e con il vento per gestire le energie rinnovabili, con gli oceani e i boschi per ingabbiare anidride carbonica, con piante diverse per raffreddare le città e sfamare il pianeta, con gli animali che forniscono un rifugio alle altre specie.
Oltre a lavorare con la natura, ovviamente, dobbiamo lavorare le une con gli altri. Questo vuol dire trasformare la nostra ansia e insicurezza per il clima in solidarietà, per contrastare l’ascesa dell’autoritarismo e sconfiggere gli interessi che spingono per soluzioni inadeguate.
Nel 1974, Garrett Hardin pubblicò su Psychology Today un articolo in cui ridicolizzava l’idea di restituire la terra alle comunità indigene o di risarcirle, sulla base delle tesi che aveva già esposto in La tragedia dei beni comuni. Intitolato “Lifeboat ethics: the case against helping the poor” (L’etica della scialuppa: perché non bisogna aiutare i poveri), l’articolo invitava il lettore a immaginarsi una scena: piccole imbarcazioni piene di passeggeri ricchi galleggiano pericolosamente in mare tra gente che sta affogando e minaccia di ribaltare gli scafi. L’unico modo che i pochi privilegiati hanno per tutelarsi, sostiene Hardin, è respingere gli altri – dalle scialuppe, dai paesi ricchi, dai beni comuni – facendo incetta delle risorse, fermando l’immigrazione e interrompendo gli aiuti alimentari internazionali per ridurre la popolazione globale dei poveri che, ammette, sono in stragrande maggioranza non bianchi. “Per il prossimo futuro”, scrive, “la nostra sopravvivenza impone che governiamo le nostre azioni secondo l’etica di una scialuppa, per quanto crudele sia”.
Le idee di Hardin sono in linea con la corrente di pensiero oggi chiamata “ecofascista” che si basa sul concetto ristretto e meschino di sicurezza, quello della difesa del proprio privilegio a spese della vita degli altri. Secondo uno studio di Will Kymlicka, politologo della Queen’s university, questa fede nella gerarchia tra specie viventi è “sistematicamente associata a una maggiore disumanizzazione dei gruppi umani svantaggiati o emarginati”. O, come mi ha detto recentemente la celebre abolizionista Angela Davis: “Mettere gli esseri umani davanti a tutto porta anche a una serie di definizioni restrittive di ciò che può essere considerato umano, e la brutalizzazione degli animali è correlata alla brutalizzazione degli animali umani”. E qui si pone l’ennesimo problema della “grande catena dell’essere”: i suoi sostenitori sono convinti che certe categorie di umani siano superiori ad altre.
L’attivista e scrittrice Naomi Klein sostiene che offrire alle persone una base di sicurezza materiale, in particolare una garanzia per le professioni legate alla sostenibilità che possa facilitare una giusta transizione dai combustibili fossili, è una condizione fondamentale per affrontare i problemi climatici: “Più le persone si sentono sicure, sapendo che le loro famiglie non dovranno preoccuparsi di mangiare, dei medicinali e della casa, meno saranno vulnerabili alle forze della demagogia razzista che si nutre delle paure inevitabilmente diffuse nei periodi di grande cambiamento”. La sicurezza materiale, osserva, può aiutarci “ad affrontare la crisi di empatia”.
Ma non possiamo semplicemente riproporre le politiche sociali del new deal. Invece di guardare nostalgicamente indietro allo stato sociale del novecento, fondato sulla premessa di una crescita economica e di un’estrazione di risorse illimitate e viziato da un’esclusione su base razziale e di genere, dovremmo aspirare a una visione orientata al futuro di uno stato capace di garantire la sicurezza a tutti in modo sostenibile, uno stato decarbonizzato e democratico, quello che io chiamo stato di solidarietà. Radicato nell’etica collaborativa dei beni comuni, uno stato di solidarietà aspira all’uguaglianza, politica ed economica, e al riconoscimento della nostra fondamentale interdipendenza, anche con il resto del mondo.
Oggi sappiamo dove ci porta l’ignoranza degli obblighi e dei limiti: alla catastrofe climatica e alla spirale dell’insicurezza. Ma questa non è certo una rivelazione. Nel dialogo Crizia, Platone si lamenta della distruzione della terra per colpa del malgoverno e descrive i terreni sterili, l’assenza di alberi e i templi abbandonati dove una volta c’erano sorgenti d’acqua: “Lo scheletro di un corpo colpito da una malattia, perché tutta la terra che c’era intorno, tutto ciò che vi era di fertile e morbido è scivolato via”. I sumeri, i romani, i maya e altre società antiche si spinsero oltre i limiti ecologici, creando instabilità e accelerando il crollo delle loro civiltà. Leggendo le ricostruzioni dell’epoca coloniale ci s’imbatte in persone che pianificano apertamente la devastazione. La differenza oggi è che questa distruzione avviene su scala globale.
I tentativi antropocentrici di conquistare la terra sono sempre controproducenti. Non esiste un modo di conquistare il mondo se vogliamo vivere in sicurezza. Il mito della grande catena dell’essere va smantellato. L’immagine del mondo naturale come un circolo inclusivo non è un sogno romantico: descrive la nostra realtà, dove siamo parte di un cerchio intricato e interdipendente della vita, della non vita e perfino della semivita. Mio padre è un chimico farmaceutico che si occupa di studiare i virus, compreso quello che provoca il covid-19. I virus sono sequenze microscopiche di dna o rna che sfruttano l’energia delle cellule ospiti per replicarsi; esistono in un limbo che sfida le categorie, una strana area grigia tra il vivere e il non vivere, tra l’animato e l’inanimato. Quello che vedo nel lavoro di mio padre più che il desiderio di controllo è un senso di mistero. I virus non sono simpatici, ma mio padre mi ha mostrato che meritano il nostro rispetto e perfino la nostra ammirazione. Il fatto che la nostra vita dipende da processi fisici e biologici che a stento riusciamo a categorizzare e da dinamiche complesse che non comandiamo dovrebbe suscitare meraviglia, oltre che una buona dose di umiltà. Questa umiltà è l’etica che associo alle capacità positive e generative dell’incertezza, che ci aiutano a essere curiosi, a entrare in contatto, a evolverci e magari a sopravvivere in un mondo che sta cambiando radicalmente.
Non ho pronto il modello di una società in cui tutti i nostri problemi saranno risolti per sempre; non ce l’ha nessuno. Come ha detto l’economista Elinor Ostrom, non ci sono panacee, solo possibilità. Non credo nell’utopia, ma riesco comunque a immaginare un futuro più incoraggiante in cui i nostri problemi diventeranno più interessanti e complessi. Invece di rispondere alle domande noiose e demoralizzanti che ci troviamo di fronte oggi – è giusto che una manciata di dirigenti dell’industria dei combustibili fossili abbia la licenza di incenerire il pianeta? – potremmo puntare a costruire una società sicura e sostenibile che ci costringa ad affrontare questioni filosofiche e pratiche ben più avvincenti. Se la natura ha dei diritti, anche le specie invasive dovrebbero avere le stesse tutele? Dove finisce lo spartiacque se tutti gli ecosistemi sono interconnessi? Come possiamo prendere delle decisioni ed esercitare la sovranità quando le nostre azioni hanno ripercussioni globali? Queste sono le domande su cui vale la pena di riflettere, e le risposte non sono ovvie. Ma nonostante l’incertezza e l’indeterminatezza, di una cosa sono certa: l’illusione della sicurezza umana a spese della natura non può continuare. ◆ fas
Astra Taylor è una scrittrice, regista e attivista politica canadese statunitense. Questo articolo è un adattamento dal suo libro The age of insecurity: coming together as things fall apart (L’età dell’insicurezza: venirsi incontro mentre tutto crolla), 2023. Il suo ultimo libro è Solidarity: the past, present, and future of a world-changing idea (Solidarietà: il passato, il presente e il futuro di un’idea che cambia il mondo), 2024.
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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati