Alcuni beni hanno un valore in sé (il caffè, il riso, l’oro); altri hanno un valore come sostituti di beni più preziosi (il quarzo per il granito, il poliestere per il cotone). Poi ci sono sostanze dalla forma variabile. Una delle più proteiformi è l’olio di palma raffinato, che può essere commestibile o non commestibile, liquido o solido, salato o dolce, per uso industriale o domestico. In gergo agricolo, è un flex crop, una “coltura flessibile”. Intorno al 1921, un chimico statunitense rimase meravigliato dalla capacità degli oli vegetali di trasformarsi “in ogni sorta di sostanza utile all’uomo” e pronosticò che in futuro avrebbero avuto “per la razza umana più importanza delle grandi industrie dell’acciaio e del ferro”. L’osservazione era davvero premonitrice, soprattutto se pensiamo che quel chimico non si era mai lavato con il gel da doccia né si era mai rasato con la schiuma da barba (molti prodotti per la cura della pelle devono la loro schiumosità all’olio di palma); non aveva mai versato panna vegetale nel tè né mangiato biscotti comprati al supermercato; non aveva mai viaggiato su un veicolo alimentato da un biocarburante né riscaldato una pizza surgelata. Magnificava gli oli vegetali industriali, ma non aveva mai assaggiato la Nutella.
Nel 1914, l’industriale britannico William Lever decise di diversificare il suo impero dell’olio di palma. La margarina, rifletteva, era un mercato potenzialmente molto più grande di quello del sapone, perché i consumatori erano sicuramente disposti a spendere di più per mangiare che per lavarsi. Trent’anni prima, William e suo fratello James – figli di un droghiere di Bolton, vicino a Manchester – avevano lanciato il sapone Sunlight, che diventò uno dei marchi britannici più famosi dell’epoca. La novità non era nel sapone in sé, ma in come veniva venduto: in saponette singole confezionate in scatole colorate, anziché in grossi pezzi tagliati a peso nelle drogherie. Per raggiungere il giusto grado di schiumosità, il Sunlight era composto per il 41,9 per cento da olio di palmisto, estratto dai noccioli della pianta. Negli anni novanta dell’ottocento la Lever Brothers vendeva 2.400 tonnellate di saponette Sunlight a settimana, sfornate a getto continuo dalla fabbrica di Warrington insieme alle scaglie Lux e al Vim, un detersivo per pulire le superfici. Lever, tuttavia, invidiava quelli che chiamava “i produttori di burro”. Poiché si ritrovava spesso a competere per le materie prime con le aziende che fabbricavano margarina, alla fine decise che la cosa migliore era unirsi a loro. Un funzionario pubblico che ebbe a che fare con Lever osservò che a prima vista sembrava “un piccoletto abbastanza insignificante”, ma poi disse che non aveva “mai incontrato un uomo così palesemente megalomane”. Durante la prima guerra mondiale la produzione di margarina nel Regno Unito, grazie soprattutto a Lever, aumentò da 78mila a 238mila tonnellate all’anno. Nel 1929, quattro anni dopo la morte di William, la Lever Brothers si fuse con la Margarine Union per dare vita al colosso dei beni di consumo Unilever, i cui prodotti più famosi sono ancora oggi basati sull’olio di palma.
Una delle sostanze dalla forma più variabile è l’olio di palma raffinato: può essere commestibile o non commestibile, liquido o solido, salato o dolce, per uso industriale o domestico
L’olio di palma è il grasso più consumato del pianeta, molto più di altri oli vegetali come l’olio di soia, di girasole, di arachidi, di cocco o di colza (per non parlare dei grassi animali come il lardo e il burro). Eppure, quando nell’ottocento cominciò la sua estrazione su scala industriale, non era scontato che si sarebbe diffuso come prodotto alimentare in occidente (in Africa invece circolava già da molti anni). In età vittoriana si usava al massimo come rivestimento per prevenire l’ossidazione delle lattine di alluminio dei cibi in scatola. Come osserva Jonathan Robins in Oil palm: a global history, “nel mondo industrializzato, fino agli anni venti del novecento quasi nessuno usava l’olio di palma in cucina”. Negli Stati Uniti fu riconosciuto come alimento solo nel 1930 (i produttori lattiero-caseari combatterono furiosamente contro la nuova industria della “oleomargarina”).
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito l’olio di palma era considerato poco invitante perché, come scrive Robins, “questo grasso era una parte molto visibile e ‘annusabile’ dell’esperienza” di viaggio sui treni a vapore. A ogni fermata, due uomini scendevano ai lati del treno con una lattina di lubrificante e un coltello di legno e cospargevano le ruote di un composto ricavato mescolando palma e sego. Chiunque avesse assistito a questo rituale, odori compresi – o ancora peggio, avesse visto i topi banchettare sugli avanzi delle lattine – comprensibilmente non aveva troppa voglia di spalmare margarina di olio di palma sul pane. Presto, però, la margarina sarebbe diventata uno degli alimenti base della dieta britannica: la versione raffinata dell’olio di palma era inodore e sostanzialmente insapore, quindi irriconoscibile.
Non necessariamente gli alimenti più gustosi sono quelli più preziosi: anche la mancanza di sapore può avere un valore se la consistenza è quella giusta. I cibi inodori, incolori e insapori possono essere usati in una varietà di prodotti senza rivelare la loro presenza. Come dice Robins, “nessuno di noi ha mai comprato al supermercato una stecca di palmitina o un vasetto di digliceridi, entrambi derivati dell’olio di palma, ma questi ingredienti sono comunque nei cibi confezionati che mangiamo”.
A prima vista, un olio di palma insapore e incolore può sembrare strano. Nei paesi dove è apprezzato come prodotto a sé, l’olio di palma è noto per il suo colore e il suo gusto intenso. Quando l’esploratore veneziano Cadamosto lo scoprì in Senegal nel quattrocento, scrisse che aveva “il profumo delle viole, il sapore del nostro olio d’oliva e un colore che tinge il cibo come lo zafferano, ma è più attraente”. L’olio di palma rosso è un olio dal sapore pungente e dalla tonalità intensa, con un aroma a metà tra i fiori e i tuberi (quando arrivò in Malaysia, alcuni coloni ne paragonarono l’odore a quello della cera per pavimenti). A Bahia, in Brasile, è conosciuto come olio di dendê ed è usato per colorare e profumare i piatti, dallo stufato di pesce al cocco al farofa (una mistura di cassava tostata simile al cous cous). Quando ho cucinato per la prima volta con l’olio di palma (per preparare la zuppa di pollo nkrakra secondo la ricetta di Zoe Adjonyoh contenuta nel suo libro Zoe’s Ghana kitchen) sono rimasta colpita da quanto fosse aromatico. Mentre riscaldavo l’olio rosso in padella, la cucina si è impregnata di un aroma dolce e affumicato, prima ancora che aggiungessi una sola spezia. Una goccia d’olio è caduta dal cucchiaio lasciando un segno arancione sul pavimento.
Probabilmente, però, molti di voi non hanno mai usato l’olio di palma per cucinare. Pur essendo in tutti i cibi confezionati, è molto difficile da trovare, almeno nel Regno Unito. Se lo cercate nei supermercati online vi verranno quasi sempre offerti prodotti che si vantano di non contenerlo. Potete trovare grandi bottiglie di plastica di olio di palma rosso e viscoso nei negozi di alimentari africani o caraibici, mentre quelli di cibi biologici hanno costosissimi barattoli di olio di palma biologico non raffinato, che è venduto come cibo di lusso. Nei supermercati Tesco più grandi a volte si trovano bottiglie da due litri di Mother Africa pure red palm oil, proveniente dalla Nigeria, mentre Sainsbury’s vende piccole bottiglie di una miscela di olio di palma rosso e di colza prodotta da un’azienda di cibi naturali chiamata Carotino. Ma non c’è altro.
La palma da olio cresceva nelle piane alluvionali e nelle paludi dell’Africa già milioni di anni prima della comparsa dell’uomo, e gli scavi a Bosumpra, in Ghana, mostrano che le popolazioni locali consumano l’olio di palma da almeno cinquemila anni. Ancora oggi l’olio è prodotto in tutta l’Africa occidentale da piccoli agricoltori. Per fare la raccolta ci si arrampica sul fusto dell’albero e con un machete si tagliano grossi grappoli del frutto, di colore rosso e delle dimensioni di una prugna. I raccoglitori sono quasi sempre uomini, ma in Nigeria c’è una città dove anche le donne nubili e le vedove si arrampicano sugli alberi. I frutti sono quindi lasciati maturare sotto un tappeto e messi a bollire per ammorbidirli prima di essere spremuti per estrarne l’olio. Dal frutto si ricavano due oli separati: uno è estratto dalla polpa carnosa color arancio e un altro dal nocciolo interno, un liquido più fine noto come olio di palmisto. La linfa dell’olio è usata per produrre il vino di palma, che secondo la storica della cucina Jessica Harris “è come il proverbiale calcio del mulo di campagna ed è un po’ la versione dell’Africa occidentale dei liquori di contrabbando”. Oltre che per cucinare, gli africani usano l’olio di palma come unguento, come medicinale, come sapone e per alimentare le lampade. Già nel seicento in Inghilterra l’olio di palma rosso era usato per curare i geloni e i gonfiori.
Fu l’industria delle candele a scoprire come trattare l’olio di palma africano in modo da renderlo inodore e bianco. Prima di allora, per produrre le candele si usavano soprattutto tre materiali, ognuno dei quali aveva degli inconvenienti. Le candele più belle – per la luce e per l’odore – erano quelle di cera d’api, ma erano troppo costose per l’uso quotidiano. Le candele di sego erano molto più economiche ma impregnavano la stanza di un disgustoso odore di carne. Le candele di spermaceti, una cera ricavata da una sostanza secreta dai capodogli, erano di qualità superiore ma costavano il doppio. A metà ottocento la Price’s Patent Candle Company (Ppcc) trovò un modo per produrre candele di olio di palma bianche e inodori. Le chiamarono Belmont Sperm, un riferimento alle più costose candele di spermaceti, anche se in realtà l’olio di palma era ancora più economico del sego. Il segreto per creare una sostanza inodore era usare l’acido e il calore per scomporlo in una serie di componenti tra cui l’acido stearico, l’acido palmitico, l’acido oleico e la glicerina. I primi tentativi di trasformazione furono fallimentari. Uno dei primi agenti usati era l’arsenico, da qui il timore che le “candele cadavere” avvelenassero l’ambiente quando bruciavano. Nel 1836 fu sviluppato un processo per estrarre l’acido stearico dall’olio di palma senza ricorrere all’arsenico, ma le candele stingevano durante la lavorazione. Per produrre candele di palma bianche la Ppcc passò all’acido solforico. Quindi, negli anni ottanta, la ditta britannica Loder brevettò un processo di deodorizzazione per l’olio di palmisto ricavandone una sostanza neutra che poteva essere impiegata per la margarina o come grasso nei piatti cotti al forno. Il processo toglieva all’olio le vitamine e l’odore pungente. Quasi tutto l’olio di palma che oggi è consumato nel mondo è Rbd: refined, bleached and deodorised, raffinato, sbiancato e deodorato.
La pubblicità delle candele della Price cooptò il linguaggio dell’antischiavismo, anticipando il futuro posizionamento dell’olio di palma come alternativa salutare ai grassi idrogenati e, in quanto biocarburante “verde”, come alternativa etica ai combustibili fossili (ma non solo, è stato usato anche per produrre detersivi pubblicizzati come “vegetali”, “rispettosi dell’ambiente” e “naturali”). Secondo Robins, fu una delle più famose campagne pubblicitarie del Regno Unito vittoriano. La Ppcc adottò la retorica del “commercio buono” per pubblicizzare le sue nuove candele all’acido palmitico. “Ogni candela che brucia contribuisce a liberare uno schiavo”, ironizzò uno scrittore. I mercanti britannici dicevano che le candele americane di spermaceti erano uno strumento del traffico illegale di schiavi; in effetti, tra il 1807 e il 1865, quasi 150 milioni di candele furono scambiate con prigionieri africani. In modo tutt’altro che sottile, una pubblicità mostrava un ceraio con il grembiule che consegnava a un africano il berretto frigio della libertà e bruciava con una candela palmitica la corda che lo teneva legato.
L’idea che comprando olio di palma gli europei avrebbero contribuito a liberare i lavoratori africani si rivelò una beffa crudele. La vita di un tagliatore di palma non era mai stata facile o priva di rischi (un mazzo di foglie può pesare fino a 45 chili e si trova a diversi metri di altezza), ma sotto il dominio coloniale europeo il lavoro diventò sempre più duro e sgradevole.
La brutalità e i metodi di sfruttamento con cui Lever si assicurò l’accesso alle palme da olio nel Congo belga definirono lo standard per la moderna industria legata a questo prodotto. Nel 1911, Lever firmò un contratto che gli garantiva l’esclusiva su circa 730mila ettari di palme da olio. È incredibile che la Unilever porti ancora nel marchio il nome di un uomo che, scrivendo a uno dei direttori dell’azienda, affermava: “È risaputo che il cervello dell’africano non è in grado di ricevere nuovi concetti quando arriva allo stadio adulto”. Lever ribattezzò Leverville il villaggio della piantagione e disse che i suoi palmeti erano “la vista più straordinaria a cui abbia mai assistito in qualsiasi parte del mondo”. La vita dei congolesi che ci lavoravano, però, era tutt’altro che straordinaria. Come altri magnati stranieri dell’olio di palma, Lever trasformò i palmeti selvaggi dell’Africa in piantagioni sterili, gestite da una nuova compagnia da lui creata: la Huileries du Congo Belge (Hcb). Nel 1911, quando Sidney Edkins andò a lavorare per la compagnia, osservò che in tutta la zona “a stento si vedeva un villaggio” perché il lavoro forzato “aveva di fatto sterminato la popolazione nel raggio di ottanta chilometri”. Nel 1915, un funzionario della Hcb ammise che gran parte della forza lavoro di Leverville era composta da schiavi a cui erano consegnati solo un manuale di lavoro, un machete e una coperta. Pochi uomini avrebbero scelto spontaneamente di lavorare lì, soprattutto visto com’erano trattati dai capi della compagnia, che esigevano il rigido rispetto delle consegne in qualsiasi stagione dell’anno. Molti operai erano adolescenti e bambini che spingevano carri o caricavano i frutti di palma sulle barche.
Gli esperimenti coloniali con l’olio di palma in Africa furono fallimentari, spiega Robins, in parte per le resistenze africane al controllo europeo e in parte perché gli africani capivano le esigenze della pianta meglio degli europei. Molte presunte efficienze introdotte dai produttori europei erano o impopolari o controproducenti. Gli studi dimostravano che i frutteti gestiti dalla Hcb non producevano raccolti più abbondanti rispetto ai palmeti naturali gestiti dagli agricoltori africani. I metodi di coltivazione della Hcb non tenevano conto del bisogno di rotazione delle colture e dei periodi a maggese necessari per mantenere il terreno fertile. Come scrive Robins, “l’ossessione dell’Europa per l’economia comportava lo sfruttamento di ogni ettaro di terreno per massimizzare i raccolti, mentre gli africani si erano adattati alla terra per massimizzare i frutti del loro lavoro”. Gli europei non capivano che la produzione di olio di palma era parte della vita quotidiana. Negli anni venti, quando in Nigeria arrivarono i frantoi, le donne, che avevano sempre spremuto l’olio a mano, si organizzarono per boicottarli, cercando di impedire agli addetti alle macchine di comprare i frutti di palma al mercato. Robins osserva che “gli uomini riuscivano a spremere a macchina un gallone di olio in un’ora e mezza, mentre una donna impiegava tre ore e mezza per ottenerne altrettanto a mano”, ma era un paragone fuorviante, perché per le donne la spremitura dell’olio era uno dei tanti “lavori di casa” che svolgevano. Un altro motivo di scontro tra europei e africani era la produzione del vino di palma. I funzionari britannici cercarono di vietare l’abbattimento degli alberi per la produzione non olearia, ma la misura ebbe un impatto limitato perché sul mercato locale il vino si vendeva a prezzi molto più alti rispetto all’olio. Infine, il problema principale fu la competizione costante con il consumo interno. Alla fine degli anni trenta, il 65 per cento dell’olio di palma prodotto in Nigeria era consumato dai nigeriani.
Il grande successo mondiale dell’olio di palma arrivò quando l’industria si spostò in Asia, dove non c’era una tradizione né nell’estrazione né nel consumo. Fu in Asia che la palma tenera diventò la varietà predominante per la coltivazione. Originariamente identificata dai botanici tedeschi in Camerun, produce frutti da cui si ricava una percentuale molto più alta di olio (il 50 per cento rispetto al 15 per cento della varietà dura preferita in Africa). Le piantagioni di palma da olio si diffusero un po’ ovunque in Asia orientale negli anni venti del novecento, ma la vera crescita ci fu negli anni settanta, prima in Malaysia e poi in Indonesia. Nel 1970 gli ettari destinati alla palma da olio in Indonesia erano centomila; nel 2015 erano diventati dieci milioni. Uno dei fattori chiave della crescita della produzione di olio di palma in Indonesia fu un investimento della Banca mondiale del valore di mezzo miliardo di dollari (finiti in gran parte nelle tasche del presidente indonesiano Suharto e dei suoi sodali). Ospite del podcast Gastropod, Robins ha spiegato che per la Banca mondiale l’investimento nella produzione di olio di palma indonesiano era un’operazione “due al prezzo di uno”: sembrava un modo perfetto per sfamare la popolazione e allo stesso tempo stimolare l’economia attraverso le esportazioni. Secondo un rapporto della Banca, le due risorse che rendevano l’Indonesia il posto ideale per ottenere l’olio di palma erano “la manodopera giavanese e la terra inutilizzata sulle altre isole”. “Terra inutilizzata”, ovviamente, era un eufemismo per la foresta vergine dell’Indonesia, più della metà della quale è stata rasa al suolo per far posto alle piantagioni. Fino agli anni settanta gli indonesiani usavano poco l’olio di palma; nel 2010, il 94 per cento dell’olio da cucina venduto nel paese era di palma.
Negli ultimi cinquant’anni, gli oli vegetali hanno dato all’alimentazione mondiale un maggior apporto calorico rispetto a qualsiasi altra categoria di cibi, e l’olio di palma più di tutti gli altri oli. Circa il settanta per cento dell’olio di palma prodotto è usato nei cibi ultra-processati prodotti dalla Unilever e dalle aziende concorrenti. Se l’organismo umano ha bisogno di grasso, la lingua (o il cervello, o lo stomaco, oppure ovunque si annidino i nostri desideri gustativi più profondi) lo vuole. Il grasso è un impareggiabile veicolo di sapori. L’olio di palma è stato sfruttato per imporre a miliardi di persone nel mondo una dieta a base di prodotti estremamente lavorati, più ricca e sotto certi aspetti più invitante rispetto a quella dei nostri nonni. Il rovescio della medaglia è che a livello nutritivo l’olio di palma raffinato non ha molto da offrire oltre al grasso. Nel libro di Robins, l’olio di palma emerge come la parte oscura della storia della “rivoluzione verde”. Quando diciamo di sfamare il mondo spesso pensiamo ai cereali ma, come scrive Robins, “dal 1970 i nuovi terreni agricoli adibiti alla produzione di olio sono stati il triplo di quelli per i cereali”. I cereali hanno riempito le pance vuote del mondo, ma è stato l’olio di palma a renderli gradevoli al palato.
L’olio di palma è un grasso semisaturo e semisolido già a temperatura ambiente. Può essere fritto come il lardo, cotto come il burro, sciolto come il cioccolato e montato come la panna, ma a un costo molto più basso. Può allungare la vita di prodotti come il pane e i dolci lavorati con procedimenti industriali. La ragione fondamentale del suo successo, però, è che è notevolmente più economico e ha una resa molto più alta di qualsiasi altro olio vegetale: la palma da olio produce molto più grasso per ettaro di qualsiasi altra pianta. Per estrarre la stessa quantità di olio dalle palme da cocco, per esempio, serve una superficie dieci volte più grande. Nel momento in cui Jocelyn Zuckerman scriveva Planet palm, il prezzo per tonnellata dell’olio di palma era di 694 dollari, contro gli 832 dell’olio di semi di girasole, gli 890 dell’olio di colza e i 1.876 dell’olio di arachide. Il costo dell’olio di palma è sceso per la prima volta sotto quello dell’olio di soia – il suo principale concorrente – nel 1974, quando negli Stati Uniti e in Brasile ci fu un crollo dei raccolti, e da allora il suo vantaggio competitivo cresce costantemente.
Grazie alla coltivazione della palma da olio in Indonesia, dal 1980 al 2015 la produzione mondiale è passata da cinque a 62 milioni di tonnellate all’anno. Zuckerman calcola che metà dei beni in vendita nei supermercati statunitensi contengano olio di palma. Molti sono prodotti per la pulizia e per il bucato o articoli da bagno come il dentifricio o il rossetto. La presenza dell’olio di palma non è quasi mai sbandierata (a eccezione del sapone Palmolive: il nome fu lanciato nel 1898 quando l’idea di un sapone fatto con “olio di palma” aveva ancora un certo fascino) ma è facilmente rintracciabile sotto forma di derivati riconoscibili dal prefisso palm-, stear-, laur- o glic-.
Oltre che dai supermercati, l’aumento della produzione è stato favorito dall’industria dei biocarburanti. Allo stesso modo di altri derivati industriali dell’olio di palma, il biocarburante all’olio di palma è stato lanciato come sostituto virtuoso di un bene già in commercio, salvo poi rivelarsi altrettanto dannoso. Quando negli anni novanta si cominciò a parlare di “picco del petrolio”, molti paesi investirono pesantemente in agrocarburanti a base di olio di palma pensando che fossero una fonte di energia a emissioni zero o addirittura capace di assorbire il carbonio. Nei loro calcoli, però, non avevano tenuto conto delle enormi quantità di CO2 rilasciate quando si smuove la torba per creare una nuova piantagione.
I libri di Zuckerman e Robins – entrambi ottimi – hanno approcci divergenti. Rispetto a Zuckerman, Robins è più solido sull’economia, sulla storia e sugli aspetti puramente fisici di questa “sostanza oleosa” capace di diventare schiuma nel sapone e scaglie nella pasticceria senza che i consumatori si accorgano della sua presenza. Robins, che ha scritto un saggio talmente avvincente che dopo averlo finito non sono riuscito a parlare d’altro per settimane, documenta il ribaltamento attraverso cui una coltura nativa dell’Africa è diventata predominante nel sudest asiatico, al punto tale che oggi l’Africa “importa dieci volte più olio di palma di quanto ne esporti”.
Il libro di Zuckerman ha un taglio più emotivo e racconta come funziona una piantagione di palma da olio in Malaysia: il lavoro minorile, l’intossicazione da pesticidi, la raccolta dei frutti fatta per quattordici ore al giorno senza scarpe né guanti e per pochi spiccioli, sotto la minaccia costante di maltrattamenti.
Zuckerman documenta i modi in cui la lobby dell’olio di palma ha fatto disinformazione e ha combattuto ogni tentativo di regolamentare il settore bollando i contestatori come “eco-colonialisti”. Un esperto di salute pubblica sudafricano citato nel libro sostiene che i metodi usati dell’industria dell’olio di palma sono “ancora più spregevoli di quelli del settore del tabacco”. Quando Richard Walker, il direttore generale della catena di supermercati Iceland, ha annunciato di voler eliminare l’olio di palma dai prodotti del marchio entro la fine del 2018, una serie di spot pubblicitari pagati dal settore lo ha infangato dipingendolo come un ricco privilegiato che voleva affamare i poveri agricoltori della Malaysia. Peccato che gli uomini a capo dell’industria dell’olio di palma “sono tra i più facoltosi di tutto il sudest asiatico”. Robert Kuok, il principale investitore dell’azienda Wilmar International, ha un patrimonio netto di 11 miliardi di dollari ed è l’uomo più ricco della Malaysia. Zuckerman ha provato a fissare un’intervista con il ministro della salute malese, ma il suo addetto stampa l’ha avvertita: “Non può rispondere a domande sull’olio di palma. Può parlare di tutto ma non di quello”.
L’arrivo delle aziende produttrici di olio di palma in Indonesia ha scatenato una specie di girone infernale, come ha raccontato a Zuckerman il primatologo britannico Ian Singleton:
C’è un’area di torbiere acquitrinose, è una foresta primaria, ricca di biodiversità. È piena di pesci e d’acqua. Alcune comunità locali per tradizione catturano questi pesci, da cui prendono la maggior parte delle proteine. L’intero approvvigionamento idrico della comunità locale viene da questa falda. In più ci sono popolazioni che si considerano proprietarie di alcune terre, perché sono state disboscate dai loro antenati, ma non hanno documenti che lo dimostrano. A un certo punto arriva un’azienda da Jakarta o chissà dove e caccia via tutti. “Levatevi dai coglioni”. “Ma questa è la mia terra”. “Documenti? No? Be’, mi dispiace”. E così li mandano via. Poi gli offrono salari talmente di merda che nessuno è disposto a lavorare per loro. Del resto li hanno appena cacciati, quindi li odiano a prescindere. I capi dell’azienda decidono di prendere manodopera dalle isole, dove la gente è disposta a lavorare per meno. I lavoratori arrivano e vivono in condizioni di merda. Allora l’azienda che fa? Abbatte l’intera foresta, annientando tutte le specie animali e vegetali che ci vivono, compresi i funghi, le formiche e le termiti. Incenerisce ogni cazzo di centimetro quadrato. Poi scava anche dei canali, perché per piantare una palma da olio serve almeno un metro di torba asciutta. A quel punto il livello dei fiumi si abbassa, le peschiere spariscono e tutta questa gente che un tempo aveva di che vivere, acqua e proteine, improvvisamente non ha più niente. E intorno ci sono solo piantagioni. Perciò anche se qualcuno ha dei soldi da parte non può coltivare né frutta né verdura. Nel frattempo l’azienda – o un tizio che sta a Jakarta e probabilmente non si è mai mosso da lì – vede il suo conto in banca gonfiarsi ininterrottamente da venticinque o trent’anni.
In Indonesia, tra il 2000 e il 2012 sei milioni di ettari di foresta pluviale sono stati distrutti per fare spazio alla coltivazione della palma da olio, ed è solo l’inizio. Secondo le proiezioni più prudenti, la domanda di olio di palma raddoppierà entro il 2050 (alcune stime dicono che quadruplicherà). L’orango di Sumatra è a forte rischio di estinzione perché il suo habitat è stato distrutto dalle nuove piantagioni.
L’aumento del diabete e dell’obesità in India e in Messico, tra gli altri paesi, è correlato a una sempre maggiore presenza di olio di palma saturo nell’alimentazione, sotto forma di cibi trasformati o oli da cucina a buon mercato che vengono comprati da chi non può permettersi altri grassi. In paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, dove c’è una crescente consapevolezza degli impatti ambientali e sanitari dell’olio di palma, le multinazionali del cibo lo stanno progressivamente eliminando dai loro prodotti, ma continuano a usarlo in quantità maggiore in Asia e in Sudamerica.
Per la prima volta dall’ottocento, il flusso mondiale dell’olio di palma sta rallentando. Il 22 aprile, il presidente indonesiano Joko Widodo ha annunciato il divieto di esportare olio di palma. Il provvedimento aveva l’obiettivo di far abbassare i prezzi interni dei generi alimentari, che si sono impennati dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ma la conseguenza è stata un aumento dei prezzi nel resto del mondo. L’olio di palma è un bene di prima necessità come il grano, il cui prezzo ha un effetto a cascata su quello di molti altri prodotti. Con la carenza di olio di semi di girasole (l’Ucraina è il maggior esportatore), il mercato dell’olio a uso alimentare contava ancora di più sull’olio di palma indonesiano. A marzo alcuni paesi europei hanno cominciato a fissare un tetto alla quantità di olio da cucina acquistabile dai consumatori. Nell’ultimo anno il prezzo dell’olio vegetale è già aumentato moltissimo a causa della siccità in Sudamerica, dove è prodotta gran parte dell’olio di soia mondiale. Secondo un trader del settore citato dal sito Argus, “l’unico vincitore è la Malaysia”. Kuala Lumpur è il secondo maggior esportatore di olio di palma, con il 31 per cento dell’approvvigionamento globale contro il 56 per cento dell’Indonesia. Però non è detto che la Malaysia riuscirà ad approfittare della situazione: nel 2020-21 la resa dell’olio di palma è scesa del 3 per cento a causa della cronica carenza di manodopera provocata dalla pandemia.
Il divieto delle esportazioni in Indonesia è stato revocato a maggio, ma anche questa breve perturbazione è bastata a far emergere la dipendenza del mondo dall’olio di palma, che è il bene sostitutivo per eccellenza e non è affatto facile da rimpiazzare. Tutti gli altri oli vegetali a buon mercato presentano dei problemi, per un motivo o per l’altro. In Brasile, la produzione di olio di soia è una delle prime cause della deforestazione. Ma, come scrive Robins, “la terra non è una cosa uniforme. Dieci ettari di olio di colza nelle praterie canadesi sono un caso diversissimo – in termini di biodiversità, ma anche di emissioni di CO2 e d’impatto sociale – rispetto a un ettaro di olio di palma in una torbiera acquitrinosa del Borneo”.
È possibile produrre l’olio di palma con metodi meno distruttivi? La risposta è sì, ma fino a oggi i proclami sull’“olio di palma sostenibile” sono stati in gran parte legati a un ambientalismo di facciata. Nel 2004 è stata istituita la Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (Rspo). Tra i partecipanti c’è anche il Wwf, ma come scrive Zuckerman, “dodici membri su sedici rappresentano produttori, venditori al dettaglio, banche, investitori e gruppi alimentari legati all’industria dell’olio di palma, il che forse spiega perché i progressi sono stati così limitati”. Le riunioni annuali del gruppo sono “eventi sensazionali” organizzati negli alberghi di Bangkok o di Kuala Lumpur, con tanto di “sessioni di approfondimento, pranzi al buffet e aperitivi”, ma dopo diciassette anni la tavola rotonda ha certificato come sostenibile solo il 19 per cento dell’offerta globale (compreso l’olio usato da Unilever, Nestlé, Colgate-Palmolive e altri) e i criteri usati sono molto deboli. Formalmente la Rspo vieta i disboscamenti, ma se un’azienda agricola ha disboscato un terreno prima di aderire all’organizzazione può essere comunque classificata come sostenibile. Per un consumatore è quasi impossibile sapere se l’olio che sta comprando è stato estratto rispettando le persone e l’ambiente o no. Nel 2019, la Nestlé è riuscita a tracciare solo il 62 per cento del suo olio di palma e ricondurlo a produttori specifici. Come scrive Robins, “a differenza di un prodotto come il caffè, dove la varietà e il territorio d’origine sono elementi importanti nella vendita, l’olio di palma industriale è privo di caratteristiche distintive”.
Sia Zuckerman sia Robins avanzano alcune proposte per limitare i danni dell’olio di palma. Zuckerman descrive un olio di palma sintetico ottenuto da un processo di fermentazione simile a quello della birra e somigliante a “un agglomerato di grumi di colore dorato”, ceroso e inodore. È prodotto dalla Xylome, un’azienda statunitense che ha creato anche un’alternativa sostenibile ai biocarburanti usando la paglia di mais (le bucce di scarto che rimangono sul terreno dopo il raccolto). Nicole Kelleher, “imprenditrice della bellezza” e figlia di Tom, il fondatore dell’azienda, ha calcolato che sostituire tutto l’olio di palma usato nei prodotti per i capelli e la cura della pelle con il suo succedaneo sintetico porterebbe a un risparmio in termini di CO2 equivalente a quattro milioni di voli intorno al mondo all’anno. Il problema è che in questo modo si trasferirebbe ricchezza negli Stati Uniti senza affrontare il problema dei milioni di piccoli proprietari asiatici che vivono grazie all’olio di palma.
Robins individua nella Thailandia un modello per uno sviluppo più “equo” dell’olio di palma. Bangkok è il terzo produttore mondiale, ma a differenza dell’Indonesia e della Malaysia affida circa tre quarti della produzione a piccoli proprietari, con piantagioni mediamente molto più piccole. Soprattutto, la maggior parte di queste coltivazioni non sorge su aree forestali disboscate o torbiere ma su ex piantagioni di gomma. La Dr Bronner’s Magic Soaps, un’azienda produttrice di sapone biologico, ha avviato la produzione di olio di palma in Ghana per controllare ogni aspetto del processo. L’azienda paga l’olio molto di più della media di mercato e ha deciso di smeccanizzare una parte dei frantoi per massimizzare il lavoro umano retribuito (svolto soprattutto da donne). Resta da vedere se questo modello potrà essere applicato su scala più grande. Come dice Robins, “pagare di più l’olio di palma va contro la ragione di fondo per cui l’olio di palma è in tanti prodotti, cioè la sua economicità”.
L’olio di palma a buon mercato è parte di un sistema tardocapitalista fortemente concatenato. Quando diciamo che c’è una domanda per l’olio di palma Rbd, in realtà intendiamo che c’è una domanda per i noodle istantanei, per lo shampoo in bottiglie di plastica e per il gelato tutto l’anno. Robins sottolinea che l’olio di palma tendenzialmente attira più ostilità di altri prodotti tropicali, per esempio il cacao e la soia, che minacciano comunque gli ecosistemi. Questa ostilità, spiega, è dovuta al fatto che “l’olio di palma è percepito come un prodotto che sta dentro le cose, più che come una cosa in sé”. Il sottotitolo del libro di Zuckerman esprime il concetto: “Come l’olio di palma è finito dentro qualsiasi cosa”. Il sottinteso è che questo “qualsiasi cosa” è stato contaminato e che basterebbe sostituire l’olio di palma con un ingrediente migliore. Il problema, però, è che non basterà: è l’intero sistema dei prodotti ultra-processati che deve cambiare. ◆ fas
Bee Wilson
è una scrittrice britannica che si occupa di cucina ed educazione alimentare. Questo articolo è la recensione di due libri: Planet palm: how palm oil ended up in everything – and endangered the world di Jocelyn C. Zuckerman (Hurst 2021) e Oil palm: a global history di Jonathan E. Robins (University of North Carolina press).
È uscito sul quindicinale britannico London Review of Books con il titolo The irreplaceable.
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Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati