I colpi di tosse della mia ragazza mi martellano i timpani senza pietà. Quant’è che va avanti così, quindici minuti, due ore? Non ne ho idea: tutto quello che so è che non riuscirò più ad addormentarmi. Scendo dal letto e barcollo verso la cucina, spalanco la finestra e mi strappo via la maglietta del pigiama. Entra una ventata d’aria fredda e umida e, mentre la pelle si fa tesa e i capelli mi si rizzano in testa, io penso che la genialità di Benjamin Franklin, inventore della democrazia americana e del parafulmine, doveva avere qualcosa a che fare con questa sensazione qui.
Soffro d’insonnia da quando ho memoria. Non ho difficoltà ad addormentarmi, ma poi verso le quattro del mattino sono sveglissimo. Vago affannosamente tra i pensieri, mi c’impiglio, inciampo. Provo e riprovo a liberarmi senza riuscirci. Così passano le ore, finché non crollo sfinito oppure sento suonare la sveglia.
Ho sempre saputo che di questo problema soffrono milioni di persone e che non c’è ragione di dargli troppa importanza. Poi però un romanzo mi ha aperto gli occhi. Nel Ritmo di Harlem il premio Pulitzer Colson Whitehead descrive il quartiere di New York degli anni sessanta: un mondo sporco, popolato di papponi e ladruncoli. Un certo Ray Carney cerca di rimanere pulito, studia. Un professore di economia aziendale gli parla del momento migliore per dedicarsi alla contabilità: suo padre, gli racconta, preferiva “le ore oziose attorno alla mezzanotte”. Fino all’invenzione della lampadina elettrica, infatti, si usava dormire in due fasi. La prima subito dopo l’imbrunire: del resto “senza luce che senso aveva rimanere in piedi?”. Dopo quattro ore, una sveglia interiore ti strappava al sonno per una o due ore circa, poi tornavi a coricarti e dormivi fino al mattino.
Mi sono chiesto se questo fosse effettivamente vero: ho cominciato a fare ricerche online e mi sono imbattuto nello storico Roger Ekirch che nel 2001 pubblicava il saggio Sleep we have lost. Ekirch riferisce di aver analizzato centinaia tra diari, romanzi e articoli di giornale di epoca preindustriale e di averci trovato frequenti riferimenti al sonno bifasico.
Nel Regno Unito chiamavano the watch (turno di guardia) le ore che separavano le due fasi, in francese dorveille, parola composta che significa praticamente dormire a occhi aperti. Il dorveille era un tempo per l’ozio e la fantasia. In un passo del Don Chisciotte di Cervantes, il protagonista insulta il fido scudiero Sancho Panza perché dorme per tutta la notte, senza svegliarsi dopo il primo sonno, come fanno tutti, per discutere di massimi sistemi con il suo padrone. Pare che Benjamin Franklin facesse “bagni d’aria fredda” nel cuore della notte – un bel modo per dire che si sedeva nudo davanti a una finestra aperta – per poi dedicarsi alle sue invenzioni a mente fresca. Altri, invece, tra una fase del sonno e l’altra si limitavano a fare sesso.
Nella mia testa si è fatta strada un’idea: e se non fosse il mio sonno a essere disturbato, ma la società in cui vivo? Se la corrente elettrica oltre a portarci la luce, i robot da cucina e il porno online avesse anche chiuso la porta al mistico mondo del dorveille?
Sia come sia, il mio corpo sembra programmato per un sonno bifasico. Diversamente da Franklin o da Don Chisciotte, io non mi sveglio a mezzanotte ma quattro ore dopo; d’altronde vado a letto più tardi. E se smettessi di considerare la mia veglia una nemica e la vedessi come un’amica che mi prende per mano conducendomi a un altro stato di coscienza?
Sono le tre del mattino ed è la mia prima notte di dorveille. Sono andato a letto alle undici, come sempre. Dopo un bagno d’aria alla Franklin mi siedo al tavolo della cucina. Che fare? Decido di procedere con cautela in questo mondo nuovo. Prima di tutto voglio capire cosa sta succedendo dentro di me. L’aria fresca mi ha ventilato il cervello, ma braccia e gambe sono come anestetizzate. I confini tra sonno e veglia sfumano in una condizione indeterminata. Chiudo gli occhi e ascolto il vento tra le foglie degli alberi. Non ci sono bambini che strillano scalmanati in cortile, non si sente lo sferragliare della lavatrice dell’appartamento accanto. Se non ci fosse il ronzio sommesso del frigorifero si udirebbero solo i suoni della natura. Dopo un’ora ecco il cinguettio, inizialmente sporadico, degli uccelli che annunciano timidamente il giorno che sta per cominciare. Mentre il mondo si risveglia, io barcollo verso il letto, stanco ma felice.
Non ho difficoltà ad addormentarmi, ma poi verso le quattro del mattino sono sveglissimo. Vago affannosamente tra i pensieri, mi c’impiglio. Provo e riprovo a liberarmi senza riuscirci
Quando mi alzo sono le dieci e mi sento riposato come non mi capitava da tempo. Verso l’ora di pranzo sono in ufficio, accendo il computer e continuo a leggere il saggio di Ekirch, che adesso parla di un esperimento fatto dal ricercatore del sonno Thomas Wehr nei primi anni novanta. I soggetti studiati avevano vissuto un periodo senza luce elettrica: quattordici ore al giorno nell’oscurità totale. Ciascuno poteva decidere in autonomia quando e quanto dormire. Dopo un mese si era manifestato il sonno bifasico. I soggetti raccontavano di sentirsi molto rilassati, di provare una sensazione simile a quella della meditazione. Wehr rilevò un aumento del livello di prolattina, ormone che nelle donne stimola la produzione di latte e il cui rilascio s’intensifica dopo l’orgasmo; in altre specie di mammiferi è la prolattina che determina i comportamenti di cura della prole.
La notte dopo sono un bambino: sono seduto sulla riva di un lago e sfoglio un mazzo di carte che raffigurano automobili. Quando le carte svaniscono, mi sveglio. Il display del telefono segna le 3.28. Vado in cucina e apro la finestra. Oggi il vento è più forte, ruggisce sordo. M’infilo la giacca ed esco nella notte.
I lampioni davanti a casa inondano il marciapiede di luce calda. Mi muovo sospeso in una nuvola di stanchezza, soffice e morbida. Arrivo in un parco. A quest’ora della notte mi sono trovato spesso a tornare a casa brillo ed euforico dopo una serata in discoteca. Adesso è diverso: sono stanco ma fresco, sobrio e allo stesso tempo inebriato. Quel che chiamiamo “vita notturna” non è altro che il proseguimento di quella diurna, mi dico. Al bancone del bar o sulla pista da ballo ci portiamo appresso successi e sconfitte vissuti durante il giorno. Solo il sonno ci consente di rielaborare il vissuto e chiudere la giornata. Ma questo momento non è né ieri né oggi e neanche domani. È un intermezzo.
Nei giorni successivi si stabilisce una routine: vado a letto prima di mezzanotte, mi sveglio tra le tre e le quattro, faccio un bagno d’aria e poi leggo o passeggio. Poi torno a dormire, fino alle dieci o anche le undici e mezzo, tanto sono un freelance. Nel pomeriggio mi rimetto a leggere e scopro che la tesi di Ekirch è piuttosto controversa: nel 2015 il gruppo di ricerca del neurobiologo Jerome Siegel ha preso in esame i ritmi del sonno di tre popolazioni indigene che vivono in condizioni preindustriali, mentre Gerrit Verhoeven, ricercatore in studi culturali, ha analizzato diversi atti giudiziari dell’Anversa del seicento e del settecento. Né il gruppo di ricerca di Siegel né Verhoeven hanno trovato riferimenti al sonno bifasico. Eppure ci sono diari e articoli di giornale, Don Chisciotte e Franklin.
Non mi scoraggio e vado avanti con l’esperimento. Alla notte numero cinque decido di sfruttare il dorveille per dedicarmi alla creatività. Al centro commerciale mi procuro una tela e dei colori acrilici. L’ultima volta che ho dipinto risale a molti anni fa e non ho mai pensato di avere un grande talento, ma magari adesso sarà tutto diverso.
Dopo il solito bagno d’aria, metto in sottofondo la musica di una band islandese dream pop e provo a fare come Jackson Pollock: premo il tubetto del viola e distribuisco il colore sulla tela, poi passo al blu. Il risultato sono delle striature raccapriccianti. Cancello e applico nuovamente il colore, e così via: passa un’ora, ne passano due. A un certo punto il risultato mi pare accettabile e decido di mettermi a letto. Però sono sveglissimo e prima delle sei non riesco a prendere sonno.
Il giorno dopo, esausto, chiamo Hannah Ahlheim. È una storica, proprio come Ekirch, e ha scritto un libro sulla storia del sonno. Le chiedo se, secondo lei, la teoria del suo collega è plausibile. “Dal punto di vista scientifico è difficile da capire”, mi risponde: la ricerca sul sonno, infatti, è una disciplina molto recente, nata solo nel novecento, motivo per cui sui comportamenti del sonno delle generazioni precedenti non sappiamo molto più di quello che troviamo nei romanzi, nei diari e nei trattati di medicina.
“Non sono sicura che il sonno naturale sia mai esistito”, osserva Ahlheim. Quando andiamo a letto e quanto dormiamo dipendono anche dai comportamenti che vediamo intorno a noi. E infatti in diverse zone del mondo ci sono ritmi del sonno diversi: nell’Europa meridionale si usa fare la pennichella e anche in Giappone molti fanno brevi pisolini durante il giorno. Insomma, il sonno è anche un costrutto sociale. Ahlheim raccomanda poi di non idealizzare il passato: “Non so se chi condivideva la stanza da letto con altre cinque o dieci persone dormisse davvero meglio di noi”.
Non è che in questa nostra epoca così irrequieta abbiamo perso qualcosa? “Certo è che abbiamo smesso di dare valore al dolce far niente”, risponde Ahlheim. Oggi il sonno è una risorsa economica: ci serve per funzionare; non abbiamo tempo di dormicchiare, oziare e sognare a occhi aperti. Eppure sono proprio queste le esperienze che ci permettono di entrare in contatto con il nostro subconscio.
La notte dopo mi siedo a occhi chiusi ad ascoltare il rumore del vento. Nella mia testa risuona la frase di Ahlheim: “Abbiamo smesso di dare valore al dolce far niente”. Ho cercato di ottimizzare perfino il dorveille, sfruttandolo per aumentare la mia presunta creatività.
Prima di andare a letto, leggo ancora qualche pagina del Don Chisciotte. Il protagonista parte alla volta della sua prima avventura: all’orizzonte scorge una locanda che gli sembra un castello, davanti alla porta due prostitute che scambia per innocenti fanciulle. “Non fuggano le vostre grazie”, le apostrofa rassicurante, avvicinandosi armato di lancia e visiera di cartone. Quelle, però, sentendone il linguaggio antiquato, scoppiano a ridere. Penso: la lotta di Don Chisciotte è la mia. Come lui, cerco di vivere come si faceva in un’epoca ormai irrimediabilmente passata. Magari abbiamo davvero disimparato il ritmo naturale del sonno ma, anche se fosse così e io riuscissi a recuperarlo, quel ritmo non farebbe altro che isolarmi dai miei contemporanei. Per un autentico dorveille, infatti, dovrei andare a letto alle otto. Sarei sempre riposato, certo, ma mi sentirei terribilmente solo.
Sono tornato al sonno monofasico: dormo otto ore, a volte tutte di fila, a volte svegliandomi a intermittenza. Resto a letto, come facevo prima, ma senza sforzarmi di riprendere sonno. Leggo qualche pagina e poi mi riaddormento. ◆ sk
Benedikt Herber è un giornalista, scrittore e critico letterario tedesco. Questo articolo è uscito sul settimanale tedesco Die Zeit con il titolo Und wenn ich einfach wach bleibe?
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Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati