Dalla finestra del commissariato di polizia l’ispettore capo e criminologo João Portugal osserva pensieroso il porto turistico di Mindelo, la città principale di São Vicente, una delle isole che formano l’arcipelago di Capo Verde. In uno degli yacht cullati dalle onde, con le vele bianche che brillano al sole di mezzogiorno, è sicuramente nascosta della cocaina. “Non ho dubbi”, afferma Portugal con decisione.
“È da un po’ che teniamo d’occhio quell’imbarcazione”, dice indicando il porto. “Viene dai Paesi Bassi ma sono anni che il proprietario non si fa vedere”. Perquisirla, però, non è semplice. Servono le prove che sia coinvolta nel traffico di droga e l’autorizzazione di un magistrato, spiega. “L’ultima cosa che vorremmo è fare irruzione e poi dover risarcire i danni al proprietario perché non abbiamo trovato niente”.
Sotto la finestra del suo ufficio i turisti passeggiano lungo il viale costeggiato da pittoresche casette colorate, costruite all’epoca della colonizzazione portoghese. Dietro la cornice idilliaca delle spiagge bianche, degli sport acquatici e della musica melanconica di Cesária Évora, si nasconde però un altro mondo. Nell’ottobre 2022 nella stiva di una barca a vela nel porto di Mindelo sono stati trovati dieci sacchi con due quintali di cocaina. Sempre nelle acque territoriali capoverdiane, ad aprile erano state sequestrate 5,6 tonnellate di cocaina su un peschereccio proveniente dal Brasile. L’operazione di polizia – svolta in collaborazione con la marina statunitense – aveva impedito che il carico di droga, del valore di 330 milioni di euro, arrivasse sul mercato europeo.
Coste non sorvegliate
Vista la loro posizione lungo la rotta commerciale transatlantica che collega il Sudamerica all’Africa occidentale, le isole di Capo Verde sono diventate un importante snodo del traffico internazionale di cocaina. Verso la fine del secolo scorso i narcotrafficanti hanno cominciato a usare la cosiddetta Highway 10 – che prende il nome dalla latitudine lungo la quale avveniva, in direzione opposta, la tratta degli schiavi – per evitare i porti nordeuropei di Rotterdam, nei Paesi Bassi, e Anversa, in Belgio, che sono strettamente sorvegliati. Nelle acque dell’Africa occidentale la droga è poi trasferita su altre navi o in container dall’origine meno sospetta, perché non sudamericani. Oppure viaggia via terra, attraverso il deserto del Sahara, da dove poi arriva ai consumatori in Europa.
La repubblica di Capo Verde, con i suoi quasi mille chilometri di coste, ha rischiato di diventare un narcostato, un paradiso tropicale per i baroni della droga e il riciclaggio di denaro sporco. Ma sarebbe stato un incubo per il suo mezzo milione di abitanti, che avrebbero dovuto fare i conti con le conseguenze devastanti della criminalità, della corruzione, della diffusione delle tossicodipendenze e della violenza tra bande.
Nel 2011 l’arcipelago ha aperto gli occhi. Quell’anno è stato smantellato un traffico internazionale di droga. Nell’operazione Lancha voadora/Flying boat (Nave volante), a cui ha partecipato anche la polizia olandese, alcuni contrabbandieri sono stati colti in flagrante mentre tentavano di nascondere 1,5 tonnellate di cocaina nel garage di un condominio. Da lì la droga doveva essere trasportata in Europa. I responsabili, tra cui alcuni capoverdiani olandesi, sono finiti in carcere. Gli inquirenti hanno dato la caccia ai capitali e agli immobili di proprietà delle bande. E hanno avuto successo. Alcuni moderni e vistosi edifici di Praia, la capitale di Capo Verde, in precedenza nelle mani dei narcotrafficanti, ora ospitano le sedi di enti pubblici e forze di sicurezza. Tre anni dopo l’operazione, però, il paese ha assistito a una serie di attentati. È stata uccisa la madre di un’ispettrice dell’antidroga e il figlio dell’allora primo ministro José Maria Neves ha rischiato di fare la stessa fine. A quel punto a Capo Verde erano tutti piuttosto spaventati. Una cosa era chiara: bisognava cambiare strada.
Da più parti sono arrivati aiuti per migliorare il lavoro della polizia, della dogana, della magistratura e dei servizi investigativi. Oggi Capo Verde, una delle poche democrazie stabili dell’Africa occidentale, è in questa regione l’alleato più affidabile nella lotta contro il traffico internazionale di stupefacenti.
L’Unione europea e l’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine (Unodc) organizzano nell’arcipelago dei corsi di formazione. Gli Stati Uniti hanno costruito il centro di coordinamento marittimo Cosmar, mentre Bruxelles finanzia una nuova struttura con l’obiettivo di rafforzare la collaborazione tra i paesi dell’Africa occidentale quando si tratta d’intercettare navi che trasportano droga fuori delle loro acque territoriali.
Nel centro Cosmar, un edificio moderno a Praia in cui c’è un continuo via vai di militari, è appena cominciato un corso sulla lotta contro la criminalità in mare. Oltre al traffico di droga e di esseri umani, si parla anche di pirateria e pesca illegale. L’Unodc ha organizzato le stesse lezioni in Senegal, nella speranza che i paesi della Comunità economica dell’Africa occidentale (Cédéao) riescano a collaborare meglio.
Nella saletta gli investigatori ascoltano con attenzione una procuratrice nigeriana che spiega quanto sia importante un buon coordinamento e il rispetto delle procedure. “Bisogna decidere in anticipo chi dovrà effettuare l’arresto in mare e come condurre l’indagine. Durante l’arresto e la raccolta di prove non si possono commettere errori procedurali”, dice la donna con enfasi. “Neanche uno! Abbiamo a che fare con criminali internazionali. Non vi immaginate neanche quanti soldi abbiano a disposizione. Possono pagare i migliori avvocati del mondo per mandare a monte le indagini o un processo. E poi, in un batter d’occhio, ve li ritrovate a piede libero”.
Nessun settore ha superato indenne la pandemia come il commercio di cocaina. I Paesi Bassi hanno un ruolo centrale nella distribuzione
Il detective José Baptista conosce bene questa frustrazione. Racconta che nel porto di Mindelo c’è una barca a vela abbandonata. Nel 2014 lui e il collega Daniel Cruz avevano sorpreso il proprietario mentre cercava di trasportare 520 chili di cocaina su un’auto. I responsabili “hanno passato appena un anno in carcere”, sospira Baptista, fissando la barca dalla banchina. “Sono usciti per un vizio di forma”.
Il poliziotto sa che quelle persone si trovano ancora da qualche parte sull’isola e, al solo pensiero, va su tutte le furie. Per questo non ci si può fermare, dice. “Se ci arrendiamo, Capo Verde diventerà un narcostato. I trafficanti di droga penseranno che le autorità sono assenti e che quindi possono fare quello che vogliono”.
Nonostante le possibilità limitate di Capo Verde, che è un paese molto povero, lo stato cerca di farsi vedere. Al porto due agenti della polizia marittima fanno il giro di pattuglia quotidiano. Hanno imparato a prestare attenzione a ogni dettaglio, come l’assenza di manutenzione di una barca o delle funi annodate male, segno che l’equipaggio è inesperto.
L’agente Wilson Forte guida con attenzione una motovedetta tra gli yacht ormeggiati. Alcuni sono lì da anni, racconta, indicando imbarcazioni trascurate e rovinate. “Questa appartiene a una donna olandese che è rimasta a vivere qui dopo la morte del marito. Ogni giorno raggiunge la riva su una barchetta a remi. Le chiediamo sempre se ha bisogno di aiuto, ma non lo accetta mai”.
Un gruppo di pescatori saluta i poliziotti. Alcuni turisti su un catamarano agitano allegramente le braccia in direzione degli agenti. “Ci conosciamo tutti”, spiega Forte, mentre accelera per uscire dal porto. Le onde s’infrangono contro la barca, mentre il poliziotto sfreccia accanto alle portacontainer e a un’enorme petroliera. “Controlliamo anche che le navi non abbiano perdite”.
Sparita da tempo
A migliaia di chilometri di distanza, nella capitale portoghese Lisbona, si trova il centro nevralgico della lotta al narcotraffico in mare. In un ufficio poco appariscente si raccolgono dati e informazioni sulle imbarcazioni sospette, come yacht e pescherecci. È la sede del Centro di analisi e operazioni marittime-Narcotici (Maoc-N), fondato nel 2007 da Paesi Bassi, Francia, Irlanda, Italia, Spagna, Portogallo e Regno Unito.
I suoi agenti seguono e condividono le segnalazioni della Dea, l’agenzia antidroga degli Stati Uniti, delle autorità brasiliane e degli organismi antimafia italiani. Se ci sono prove sufficienti che una nave sta per partire dal Sudamerica e attraversare l’oceano con a bordo delle sostanze stupefacenti, il Maoc-N avverte le autorità in Africa occidentale. Negli ultimi quindici anni questo lavoro ha portato a più di trecento interventi e al sequestro di 282 tonnellate di cocaina – per un valore di mercato di 19,7 miliardi di euro – oltre a 661 tonnellate di cannabis e a 1,1 tonnellate di eroina.
Il direttore esecutivo del Maoc-N è un poliziotto olandese, Sjoerd Top. Nelle prime ore del mattino gli analisti di Lisbona hanno notato una nave brasiliana sospetta al largo delle coste del Sahara occidentale. Alcuni grandi schermi di computer mostrano la posizione di migliaia di navi. Quando l’analista va a ricostruire il percorso compiuto dall’imbarcazione sospetta, nota che anche davanti alla costa del Brasile era scomparsa per qualche istante dai radar. È possibile che, in quei momenti in mare aperto, sia stata caricata della cocaina, che poi potrebbe essere stata trasportata su piccoli motoscafi fino alla costa del Marocco. Ma ormai non ha più senso avvertire le autorità marocchine, spiega Top: “Quella cocaina sarà già sparita da un pezzo”.
Gli agenti del Maoc-N tengono d’occhio circa quattrocento imbarcazioni, tra quelle che si trovano negli elenchi delle navi sospette realizzati da altri paesi, quelle che hanno cambiato improvvisamente proprietario o bandiera, oppure quelle già coinvolte in attività criminali. Intervenire non è facile, afferma Top. “L’anno scorso abbiamo dovuto lasciar andare almeno venti navi di cui eravamo certi che avessero della droga a bordo”.
“È un vero peccato”, si rammarica il capitano Silvo Cardoso, che tutti i giorni si presenta sul Guardião con l’uniforme stirata di tutto punto
I mezzi giuridici e militari a disposizione dei paesi africani sono limitati, per cui spesso deve intervenire una nave europea o statunitense che si trova a passare nei paraggi e che, oltretutto, deve avere il mandato giusto, precisa Top: “Un’imbarcazione che pattuglia il golfo di Guinea per contrastare la pirateria, per esempio, non può entrare in azione in un’operazione antidroga”.
Mentre le autorità sono impegnate a trovare il modo migliore per fermare il traffico internazionale di droga, la produzione e il consumo di cocaina aumentano. Nessun settore sembra aver superato indenne la pandemia come il commercio di cocaina. I Paesi Bassi hanno un ruolo centrale nella distribuzione. Nel 2022 nei porti di Rotterdam e di Anversa è stata sequestrata una quantità record di cocaina: 160 tonnellate. Ed è comunque solo la punta dell’iceberg: si stima che la quantità che arriva nell’Unione europea sia cinque volte superiore. Dai porti del Nordeuropa, in gran parte grazie ai narcotrafficanti olandesi, la droga raggiunge gli altri paesi.
Fondi inesauribili
Secondo gli esperti, i cartelli della droga funzionano come “multinazionali ben collaudate” con ingegnose e raffinate reti di comunicazione e distribuzione, che gli permettono di trasportare il prodotto senza problemi. Se incontrano ostacoli, nel giro di pochi mesi trovano una nuova rotta o un nuovo metodo per contrabbandare le loro merci. Per esempio, spiega Sjoerd Top, oggi la cocaina viaggia nascosta nei materiali edili o negli abiti, imbevuti di questa sostanza. I cartelli hanno a disposizione fondi pressoché inesauribili per reclutare persone lungo le rotte o, se necessario, per farle sparire.
Nella sede della delegazione dell’Unione europea a Praia, il diplomatico Ignacio Sobrino Castelló dice di temere che “a Bruxelles questi temi non siano considerati urgenti. I cartelli sono ben organizzati, hanno un sacco di soldi e agiscono molto in fretta. I nostri servizi investigativi, che dispongono di mezzi limitati, non riescono più a starci dietro”.
Seduto a un immenso tavolo da riunioni in un ufficio affacciato su un viale di Praia, con alle spalle le bandiere di tutti gli stati dell’Unione, Castelló ha l’aria di una persona sconfitta. Da quindici anni la delegazione europea collabora costantemente con le autorità capoverdiane. “Siamo riusciti a evitare la destabilizzazione del paese”, dice. “Però in questa regione il narcotraffico è stato a lungo ignorato. Tutti parlavano solo della pesca illegale o della pirateria, soprattutto perché gli armatori europei si preoccupavano per le loro portacontainer nel golfo di Guinea”.
Per contrastare il traffico di cocaina nei porti dell’Africa occidentale dovrebbero esserci sempre delle navi militari pronte a entrare in azione, spiega Castelló. Dieci anni fa, ricorda il diplomatico, uno sforzo europeo congiunto aveva permesso di bloccare la pirateria davanti alle coste della Somalia. “Non ci dispiacerebbe che i Paesi Bassi inviassero una nave militare, visto il ruolo centrale che hanno nel traffico internazionale di droga. Ma, al momento, in Europa attirare l’attenzione su questo problema è quasi impossibile. Prima tutti erano concentrati sul covid-19, ora sull’Ucraina”.
Laurent Laniel, un esperto francese di narcotraffico che lavora all’European monitoring centre for drugs and drug addiction (Emcdda) di Lisbona, lancia un ulteriore avvertimento. “Guardate cos’è successo nei Paesi Bassi: prima è stato ucciso un avvocato, poi è toccato a un giornalista. La violenza, la corruzione e le azioni eversive sono in aumento. Sono sempre di più le persone ‘perbene’ attirate nel circuito criminale: funzionari, doganieri, politici, ma anche professionisti, come avvocati e commercialisti. Quando la malavita s’infiltra nel mondo della legalità, non c’è scampo”.
L’Emcdda fu creato all’inizio degli anni novanta per far fronte ai rischi per la salute legati all’epidemia di aids e alla dipendenza da eroina. Da anni i suoi esperti mettono in guardia sulla crescita della criminalità organizzata in Europa. “La sicurezza nazionale, però, è una questione interna agli stati dell’Unione, noi non abbiamo alcuna influenza. I Paesi Bassi hanno degli interessi economici da difendere nel porto di Rotterdam”, spiega Laniel. “Controllare tutti i container che arrivano nel porto è impossibile. Se il governo decidesse di farlo si scontrerebbe con la resistenza delle aziende di trasporti. In ogni caso, arriverà il momento in cui difendere lo stato di diritto sarà più importante degli interessi economici”.
Bambini nelle baraccopoli
Se si guarda oltre l’aspetto da cartolina di Praia, la capitale capoverdiana adagiata sulle colline, l’impronta delle bande di trafficanti è evidente. Intorno a un campetto da calcio in uno dei quartieri poveri della periferia, un gruppo di ragazzi che giocano a calcio a piedi nudi con indosso delle magliette sdrucite ci saluta facendo dei gesti da gangster con le mani.
“Hanno visto troppa tv”, sospira Antonio Furtado, che si definisce “pastore”. A suo dire, i danni maggiori li ha fatti un film brasiliano del 2002, Cidade de Deus, su alcuni ragazzi di una favela brasiliana che sopravvivono grazie al traffico di droga.
In passato Furtado, 52 anni, è stato dipendente dalla cocaina e dall’eroina. Ma trent’anni fa, dopo aver rischiato di morire, si è dato una raddrizzata. Ora, da una chiesa improvvisata nella baraccopoli di Praia, aiuta chi ha una tossicodipendenza a uscirne e si assicura che ragazzi e ragazze restino sulla buona strada. Accompagnandosi con la chitarra, canta delle canzoni per tre dei venticinque bambini che gli sono stati affidati. “Dio è amore, il peccato non entra nel mio cuore. Il mio cuore si apre solo all’amore”, cantano.
“È una fatica incredibile”, si lamenta Furtado, mentre manda dei ragazzi con indosso dei gilet verdi in un campetto a giocare a pallone. “Dopo le cinque del pomeriggio le strade si riempiono di persone che fumano crack e nessuno osa mettere piede fuori casa”.
“Gli abitanti delle baraccopoli sono prigionieri di una spirale di povertà e violenza”, dice Furtado. “I bambini crescono in famiglie disfunzionali. Il padre è assente, la madre è in giro a racimolare il necessario per sopravvivere. Nessuno bada a loro. Non vanno nemmeno a scuola. Che esempi possono trovare per strada?”, si chiede, mentre indica un paio di persone visibilmente strafatte.
Per la ministra della giustizia capoverdiana Joana Rosa questo malessere sociale è il motivo principale per collaborare alla lotta internazionale contro il narcotraffico.
“Dobbiamo impedire l’arrivo della droga, che mette a repentaglio la nostra società e minaccia lo stato di diritto con la corruzione e la criminalità. Ma da soli non possiamo farcela”, afferma Rosa, seduta sul divano di pelle del suo ufficio al ministero. “Il traffico di droga è un problema mondiale e va affrontato insieme. Anno dopo anno, i criminali diventano più creativi e professionali. Non abbiamo nemmeno gli aerei e le navi per sorvegliarli”.
La carenza di mezzi è una spina nel fianco anche per Sjoerd Top del Maoc-N. Lo ripete anche durante una visita a São Vincente per conoscere le autorità capoverdiane. Top partecipa a un’ispezione al Guardião, una modernissima motovedetta lunga cinquanta metri, costruita nel 2011 dal cantiere navale olandese Damen Shipyards e in parte finanziata dai Paesi Bassi.
La nave, però, l’unica della guardia costiera capoverdiana abbastanza grande e solida da poter operare al di fuori delle acque territoriali, è ferma da due anni nel porto di Mindelo. C’è un problema di funzionamento del software, fornito dall’azienda statunitense Caterpillar. Il danno è grosso e Capo Verde non ha i soldi per risolverlo.
“È un vero peccato”, si rammarica il capitano Silvo Cardoso, che tutti i giorni si presenta sul Guardião con l’uniforme stirata di tutto punto per dare ordini all’equipaggio di venti marinai. “Avremmo potuto partecipare a un bel po’ di operazioni”.
Nonostante l’inconveniente, il lavoro quotidiano sulla nave prosegue, spiega il capitano, mentre alle sue spalle i meccanici in uniforme percorrono il ponte e vanno ad accendere i motori sottocoperta. “Senza manutenzione, qui andrebbe tutto a rotoli. E noi possiamo gestirla. Sostituire i sistemi informatici difettosi, però, è un’altra faccenda”, afferma Cardoso. “Per quello ci serve aiuto”.
Ragionare come loro
Nel porto di Mindelo l’ispettore capo Portugal cerca di mantenere alto il morale. “Facciamo quel che possiamo. Se manca il personale o il materiale, avvertiamo le autorità in Europa che è in arrivo una nave sospetta”. Secondo lui, il fatto che negli ultimi anni a Capo Verde ci siano stati meno sequestri di droga è un buon segno. Tuttavia, potrebbe anche significare che i cartelli hanno spostato le rotte più a sud o che hanno cambiato sistemi. “La Guinea-Bissau è un narcostato che non collabora a livello internazionale. Se lì la porta è aperta o se i trafficanti trovano un nuovo modo di nascondere la droga, noi continueremo a fare buchi nell’acqua”.
Per un criminologo come lui, quello che bisogna fare è chiaro: “Per arrestare i trafficanti, si deve ragionare come loro. È l’unico modo per mantenere il vantaggio”. ◆ oa
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Questo articolo è uscito sul numero 1513 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati