La Mara salvatrucha, il Barrio 18 e le altre organizzazioni criminali più piccole sono scomparse dalle strade del Salvador. Il governo del presidente populista Nayib Bukele, che a marzo del 2022 aveva proclamato lo stato d’emergenza, le ha smantellate, minando il loro dominio sul territorio, i loro mezzi di finanziamento e la loro struttura gerarchica.
El Faro ha parlato con il capo di una banda che oggi si nasconde all’estero; ha visitato molte zone che vivevano sotto il controllo delle organizzazioni criminali; ha girato il centro della capitale; ha intervistato imprenditori che per anni hanno subìto estorsioni da parte delle bande e ha parlato con poliziotti, rappresentanti delle ong e politici dell’opposizione. La conclusione è chiara: le bande come El Salvador le conosceva non esistono più.
Il boss fuggito all’estero ha accettato di parlare a condizione di restare anonimo e di non rivelare il nome della sua organizzazione né dove vive. Faceva parte di un gruppo importante ed era al corrente dei negoziati che le bande hanno portato avanti con i governi salvadoregni, dal 2012 fino a oggi. Gli chiediamo se Bukele ha davvero distrutto le gang: “Per come le conoscevamo, no, non ci sono più. Nelle città non ci sono più neanche i loro affiliati”.
Confini invisibili
Le basi sono rimaste scollegate dai boss che davano ordini dalle carceri: da tempo i “soldati” delle pandillas, le gang, pensano che i loro capi li abbiano “venduti”. Oggi le organizzazioni criminali sono strutture frammentate e incapaci di prendere decisioni a livello nazionale. Tuttavia ci sono ancora piccole bande o persone che potrebbero continuare ad agire da sole. Chiediamo alla nostra fonte se ha paura di ritorsioni della sua organizzazione. “Certe cose non succedono più. Ho paura del governo”, risponde.
Le pandillas arrivarono nel Salvador alla fine degli anni ottanta, dopo che i salvadoregni fuggiti in California durante la guerra civile del loro paese (1980-1992) furono espulsi dagli Stati Uniti. Nel dopoguerra le bande criminali si consolidarono, senza mai essere prese di mira dallo stato. Nel 2003, durante la presidenza di Francisco Flores, fu lanciato un piano di repressione che le portò alla ribalta. Le bande diventavano più forti mentre aumentava il tasso di omicidi nel paese, che nel 2015 ha raggiunto il picco di 103 ogni centomila persone. Almeno dal 2012, sotto il primo governo del Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (Fmln, sinistra), queste organizzazioni criminali portano avanti una trattativa con la politica: hanno offerto di ridurre gli omicidi in cambio di alcuni benefici carcerari per i boss detenuti, che hanno mantenuto il comando sulle basi all’esterno. Ma le bande sono cresciute, raggiungendo i 70mila affiliati attivi in un paese di 6,5 milioni di abitanti.
Bukele ha negoziato per la prima volta con loro quando era sindaco della capitale San Salvador, dal 2015 al 2018. Le bande controllavano quasi tutto il territorio, con una presenza salda soprattutto nelle comunità più povere. I loro affiliati hanno costretto con la forza e il terrore migliaia di comunità a vivere secondo le loro regole: vedere, sentire e tacere. Respingere le richieste di denaro o violare le norme di convivenza imposte era spesso punito con la morte. I civili sono stati in molte occasioni le vittime collaterali della guerra tra bande. Uno degli esempi più terribili risale a giugno del 2010, quando una fazione del Barrio 18 bruciò vive diciassette persone in un autobus del trasporto pubblico, solo perché vivevano in una comunità controllata dai rivali, la Mara salvatrucha.
Abbiamo verificato l’assenza dei pandilleros nelle zone che prima dominavano e abbiamo parlato con gli abitanti, gli insegnanti e i leader delle comunità: tutti hanno confermato che sono scomparsi. L’immenso potere che avevano accumulato è a poco a poco svanito dall’inizio dello stato d’emergenza, a marzo del 2022. La differenza è palpabile: le organizzazioni non fanno più estorsioni e non riscuotono le altre “tasse” per il diritto di parcheggiare la propria auto, per la vendita di immobili o per i contratti della tv via cavo.
In alcune comunità, dicono gli abitanti, funzionano i servizi di consegna a domicilio dei ristoranti e Uber, una cosa impensabile fino a poco tempo fa.
Comunità che erano divise da confini invisibili si stanno muovendo per recuperare gli spazi comuni, come i campetti da calcio o i parchi, che delimitavano le varie zone di potere.
Negli ultimi mesi gli imprenditori e i piccoli commercianti che versavano le mazzette alle bande si sono liberati dal giogo dell’estorsione. Un ristoratore di San Salvador che pagava il Barrio 18 ha smesso di farlo a novembre del 2022. Il proprietario di un negozio di parrucchiere nel centro della capitale non paga la Mara salvatrucha da dicembre.
Le associazioni commerciali non hanno statistiche, ma i loro iscritti sentono che qualcosa è cambiato. “I soci che lavorano nella distribuzione ci dicono che stanno rifornendo quartieri e zone dove prima non potevano entrare”, afferma un rappresentante della camera di commercio del Salvador.
Anche i personaggi pubblici critici con lo stato d’emergenza ammettono che la misura decisa da Bukele è servita a combattere le organizzazioni criminali. Marvin Reyes ha fatto il poliziotto per vent’anni e dal 2016 dirige il movimento dei lavoratori della polizia. Il suo compito principale è proteggere gli agenti dagli abusi. “Le bande come le conoscevamo, cioè organizzazioni di stampo nazionale, sono scomparse”, dice. “Controllano ancora alcune zone: fanno finta di fare delle consegne a domicilio per raccogliere le tangenti”, spiega. Poi aggiunge che “diventeranno piccole mafie”. E sul presidente dice: “Potrà essere rieletto a vita grazie a quello che ha fatto”.
Il parlamento ha approvato lo stato d’emergenza alla fine di marzo 2022, dopo che la Mara salvatrucha aveva ucciso 87 persone in meno di due giorni. Quel massacro ha segnato la fine del patto che Bukele aveva segretamente stretto con le bande all’inizio del suo mandato.
La misura, ancora in vigore, comporta la sospensione delle garanzie costituzionali: la polizia può arrestare chiunque senza un mandato e senza dare informazioni. Il periodo di detenzione provvisoria è passato da 72 ore a quindici giorni, e chi viene fermato non ha diritto ad avere un avvocato. Secondo il governo, fino a gennaio del 2023 gli arresti sono stati 63mila.
Diverse organizzazioni per i diritti umani, come Human rights watch e Cristosal, hanno documentato centinaia di arresti arbitrari, torture e perfino morti violente di persone mentre erano sotto custodia. Tutto quello che riguarda lo stato d’emergenza è avvolto dall’opacità: non è possibile verificare il numero dei detenuti e l’unica fonte ufficiale sono i tweet dei funzionari pubblici. I dati sui detenuti, come l’età, i reati che gli sono imputati o il gruppo a cui si pensa che appartengano sono riservati.
Nonostante le numerose accuse di violazione dei diritti umani, circa l’80 per cento dei salvadoregni approva la misura.
La città proibita
“In questo campo da calcio c’erano solo pandilleros”, dice un uomo che vive a Las Margaritas, nel comune di Soyapango, indicando un terreno. È un pomeriggio di gennaio e alcuni ragazzi stanno giocando una partita molto combattuta.
Tutte le persone che incontriamo ci confermano che gli affiliati delle bande non si vedono più in giro, ma alcuni parlano a condizione di restare anonimi, perché temono che sia una circostanza passeggera. Anche se la maggior parte delle fonti ha accettato di essere citata con nome e cognome, per la loro sicurezza abbiamo scelto di usare solo il nome.
Par anni Las Margaritas è stata una roccaforte della Mara salvatrucha. Il campo da calcio è adiacente a un’altra comunità in cui comandava una fazione del Barrio 18, i Sureños. Le sparatorie erano ricorrenti.
“Ti facevano pagare venti dollari per ogni macchina che entrava. Se rifiutavi, te la rubavano. Quando un parente veniva a trovarti dovevi chiedere il permesso. Ora non si vedono più”, dice l’uomo.
I componenti del consiglio del quartiere Las Palmas hanno parlato con i giornalisti degli abusi delle bande, in strada e in pieno giorno
A gennaio abbiamo visitato anche alcune zone del dipartimento di San Salvador che per anni sono state territori delle bande, come Las Margaritas e Villa de Jesús, sempre a Soyapango, in mano ai Sureños; o Las Palmas, nel comune di San Salvador, controllata dai Revolucionarios.
I gruppi criminali esercitavano il loro controllo in modo crudele e inappellabile, chiedendo soldi per ogni cosa, anche la più banale. Dopo la morte della madre, una donna e la sorella hanno venduto la vecchia casa di famiglia per dodicimila dollari, dividendosi il ricavato. Ma quando la pandilla ha scoperto che la casa era stata venduta senza che loro ricevessero niente, ha chiesto il conto.
“Non ho potuto godermi l’eredità di mia madre”, racconta la donna.
Durante la nostra visita i componenti del consiglio del quartiere Las Palmas hanno fatto una cosa fino a un anno fa impossibile: hanno discusso apertamente con i giornalisti degli abusi delle bande criminali, in strada e in pieno giorno.
“Prima vi avremmo risposto che non sapevamo nulla e che non volevamo parlare”, ammette Víctor, il presidente.
Gli abitanti ci hanno accompagnato in quella che chiamano “la città proibita”, una parte del quartiere dove gli affiliati avevano una casa comune per incontrarsi e torturare le vittime. Oggi la struttura è disabitata.
Il centro della capitale è un esempio chiaro di quanto sia difficile ricostruire la fiducia dei cittadini dopo anni di sottomissione alla criminalità
Las Cañas, nel comune di Ilopango, era un quartiere diviso in due: la parte alta era controllata dalla Mara salvatrucha, l’altra dal Barrio 18. La separazione era così radicale che la scuola (situata in alto) ha dovuto chiudere alcune classi per mancanza di studenti. Gli insegnanti hanno affittato una casa nella parte bassa del quartiere per insegnare ai bambini che non potevano raggiungere la scuola.
L’ultima domenica di gennaio del 2023 la comunità ha organizzato un’insolita partita di calcio con giocatori provenienti dalle due zone del quartiere. Anche se vivono vicini, i ragazzi delle due squadre non si conoscevano. “Cinque anni fa abbiamo chiuso la scuola calcio perché i pandilleros salivano su quella collinetta per spararci contro. I bambini sapevano che quando sentivano uno sparo dovevano buttarsi a terra. Poi i genitori gli hanno proibito di venire ad allenarsi”, racconta Francisco, l’allenatore.
“Si respira una grande tranquillità, ma se lasceranno uscire quelle persone dal carcere il sangue tornerà a scorrere”, ha detto una donna che ha un piccolo ristorante sulla spiaggia.
Qualcuno ci sorveglia
A Nahuizalco, nel dipartimento di Sonsonate, convergevano le tre bande criminali principali, e il parco centrale è sempre stato un potenziale campo di battaglia. Seduto al centro del parco, un uomo ha raccontato di quando il funerale di un parente finì in tragedia: il cimitero si trovava in una zona controllata dalla Mara salvatrucha. Dato che lui e la sua famiglia vivevano in un’area dominata da un altro gruppo, ci fu una sparatoria nel bel mezzo della funzione. Il fratello ne uscì con un polmone perforato e un bambino perse un occhio. Oggi nel parco ci sono i turisti.
Abbiamo avvertito lo stesso sollievo nel quartiere Panamericana, controllato dai Sailors locos salvatrucha. Un muratore ci ha detto di aver rinunciato a lavori ben retribuiti solo perché erano in zone controllate da bande rivali. “Il cambiamento più grande è che oggi si può lavorare ovunque”.
Nel dipartimento di Santa Ana si trova la comunità di Emmanuel, che per anni è stata in mano alla Mara salvatrucha. Le 480 famiglie che vivevano qui dovevano stare attente a come muoversi. “Ora siamo felici, perché possiamo andare dove vogliamo”, racconta una donna. I venditori ambulanti circolano di nuovo per strada. “Prima non venivano, perché dovevano pagare la mazzetta alla banda”, spiega Herminia, una commerciante.
Nella maggior parte delle comunità che abbiamo visitato, però, ci sono stati anche arresti e abusi da parte dell’esercito e della polizia nei confronti di persone che non avevano legami con le bande. Un ragazzo di Soyapango ha raccontato la sua esperienza: “Stavo tornando a casa dal lavoro quando un soldato mi ha detto: ‘Fermati lì, figlio di puttana’. Mi ha dato un calcio e se n’è andato”.
Almeno fino al 2015 nel comune di San Salvador c’erano circa 40mila venditori ambulanti ed erano circa 1,2 milioni le persone che ogni giorno passavano per i 250 isolati del centro tra le cinque e le sette del pomeriggio. Le divisioni erano nette: una strada segnava il confine tra l’area controllata da una banda e quella in mano a un’altra; alcuni ambulanti non potevano spostarsi neanche di dieci metri dal posto in cui preparavano da mangiare.
L’ex sindaco della capitale, Norman Quijano (in carica dal 2009 al 2015), ha ammesso di aver cancellato alcune visite alle comunità del centro, di aver sospeso il progetto di un nuovo mercato e perfino la raccolta dei rifiuti dopo aver saputo che un gruppo criminale era contrario.
Per decenni la zona è stata un labirinto controllato da più organizzazioni. Chiediamo a due venditori ambulanti se la divisione in zone di potere è rimasta. “C’è ancora qualcuno”, dicono. “A due isolati da qui vendono droga giorno e notte. Passano in moto. Una dose di cocaina costa sei dollari, una di marijuana cinque. I boss sono andati negli Stati Uniti, in Messico, in Guatemala o sono finiti in prigione, ma ci sono ancora circa otto ragazzi tra gli 11 ai 22 anni, sono armati, fanno rapporto ai capi per telefono e spacciano.
Ci sono ancora occhi che sorvegliano”. Cinque isolati più avanti, proprio al confine tra la zona controllata dalla Mara salvatrucha e quella in mano ai Revolucionarios, un altro venditore ha accettato di parlare. “Hanno arrestato gli affiliati di entrambe le bande”, dice. “Per quanto ne so io, solo la moglie di uno dei capi continua a vendere droga. Per il resto, non c’è più nessuno. Soldati e polizia sono arrivati con una lista di nomi di persone da arrestare. Sappiamo tutti chi sono”.
Il centro della capitale è un esempio chiaro di quanto sia difficile ricostruire la fiducia dei cittadini dopo anni di sottomissione alle organizzazioni criminali. I venditori ci hanno parlato a condizione di restare anonimi. “Prima o poi usciranno di prigione e penseranno che siamo stati noi a denunciarli. Sarà un massacro”, dice un commerciante.
Nessuna riscossione
“A ottobre ho pagato la mazzetta, poi all’inizio di novembre alcuni poliziotti hanno interrogato me come gli altri gestori e proprietari dei negozi. Mi hanno chiesto se pagavo il pizzo alle bande e ho risposto di sì. Volevano sapere a chi davo i soldi, ma gli ho risposto che non lo sapevo, ed è la verità. Non so a chi andava il mio denaro. I pandilleros non sono più venuti e non mi hanno più chiamato. Da novembre non pago più”, racconta il proprietario di un ristorante della capitale che versava 275 dollari al mese dal 2015, quando aveva aperto la sua attività in una zona controllata dal Barrio 18. Ha chiesto di non scrivere il suo nome.
“Mi chiamavano il 20 di ogni mese. Avevo un dipendente di fiducia che si occupava dei pagamenti, ma né a dicembre né a gennaio si sono fatti vivi. Non sappiamo se sia una situazione definitiva o temporanea”, aggiunge.
El Faro ha intervistato anche il proprietario di un salone di parrucchiere nel centro storico di San Salvador, un dipendente di una grande catena di distribuzione dell’area metropolitana, un venditore ambulante, un imprenditore e il capo di un sindacato dei trasporti pubblici. I primi tre hanno detto di aver smesso di pagare le mazzette alle bande nell’ultimo trimestre, mentre il trasportatore ha detto che il pizzo “è diminuito molto”. L’imprenditore stava ancora pagando nelle zone dell’entroterra.
Da uno studio condotto nel 2015 è emerso che le ditte di trasporti versavano 34 milioni di dollari all’anno agli estorsori. Se i datori di lavoro si rifiutavano, i dipendenti subivano le conseguenze. Nell’anno in cui è stato fatto lo studio sono stati uccisi 95 trasportatori. Secondo Juan Pablo Álvarez, il direttore di Rutas unidas salvadoreñas, un sindacato che riunisce cinquemila compagnie di trasporto pubblico a livello nazionale, lo stato d’emergenza ha ridotto le estorsioni nella capitale, ma nelle zone rurali il problema c’è ancora.
El Faro ha parlato anche con un imprenditore che distribuisce generi alimentari in tutto il paese. “Non abbiamo mai smesso di pagare”, dice. “Il calo delle estorsioni riguarda solo la capitale e i luoghi che interessano al governo. Nel resto del Salvador è rimasto tutto invariato”. In alcune zone le bande sono state sconfitte, ma ci sono ancora dei gruppi attivi.
L’ultimo studio ufficiale che ha cercato di misurare l’impatto della violenza delle organizzazioni criminali sull’economia salvadoregna risale a sette anni fa. Nel 2016 la banca centrale del paese ha stimato che la violenza delle bande era costata al Salvador quattro miliardi di dollari.
Quell’anno El Faro e il quotidiano statunitense New York Times hanno svolto un’inchiesta congiunta, basata su alcune intercettazioni telefoniche dei leader dei gruppi criminali. E hanno scoperto che la Mara salvatrucha intascava ogni anno circa 31,2 milioni di dollari, soprattutto grazie alle estorsioni.
◆ Il 24 febbraio 2023 i primi duemila detenuti sospettati di essere affiliati a qualche organizzazione criminale attiva nel Salvador sono stati trasferiti in un megacarcere fatto costruire dal presidente populista Nayib Bukele come parte della sua strategia contro la criminalità organizzata. Bukele ha pubblicato su Twitter le immagini e i video del trasferimento nel Centro di confinamento del terrorismo, pensato per ospitare 40mila detenuti. Poi ha scritto che “questa sarà la loro nuova casa, dove vivranno per decenni, senza più fare danni alla popolazione”. Il carcere, che si trova a Tecoluca, una settantina di chilometri a sudest della capitale San Salvador, è composto da otto edifici, ognuno dei quali con 32 celle di circa cento metri quadrati, dove vivranno più di cento detenuti. Lo stato d’emergenza decretato dal governo alla fine di marzo del 2022 è ancora in vigore. Bbc
Il proprietario di un salone di parrucchiere nel centro storico di San Salvador ci racconta di aver aperto la sua attività quattordici anni fa e di aver versato venti dollari alla settimana ai Central locos salvatrucha: “Da quando è in vigore lo stato d’emergenza la polizia ha arrestato molti criminali che vendevano droga o controllavano il quartiere. A dicembre non ho pagato e poi nessuno è più venuto a riscuotere”.
Zone pericolose
Il 27 gennaio El Faro ha accompagnato un dipendente di un’azienda di distribuzione lungo un percorso che attraversa quartieri storicamente controllati dalle bande. Siamo partiti dal 10 de octubre a San Marcos, nel dipartimento di San Salvador, un territorio controllato per anni dalla Mara salvatrucha. Erano le sette e mezzo di mattina. All’ingresso principale sette camion e un minibus bianco si preparavano a partire: Coca-Cola, acqua, succhi, dolci e prodotti vari. “Oggi riusciamo a entrare in certe zone. Tre o quattro anni fa sarebbe stato impossibile: solo le aziende che pagavano una somma alle bande potevano mandare i loro venditori in certe comunità”, ha spiegato.
Le sue parole confermano le segnalazioni ricevute dalla camera di commercio: “Alcune aziende ci dicono che oggi è possibile raggiungere delle aree che fino a poco tempo fa erano molto pericolose. I soci che lavorano nella grande distribuzione hanno fatto consegne in luoghi prima inaccessibili. Per le aziende che si occupano di generi alimentari è lo stesso”.
Il 21 gennaio la catena Pizza Hut ha annunciato l’avvio del servizio di consegna a domicilio in tre quartieri di Soyapango. El Faro ha chiesto all’azienda se la decisione dipendesse dai risultati ottenuti con lo stato d’emergenza, ma la risposta è stata evasiva: “Valutiamo costantemente l’opportunità di espandere la nostra copertura per raggiungere più famiglie”.
I risultati di questa politica, comunque, sono sotto gli occhi di tutti. Ma come cambieranno le organizzazioni criminali? E quanto sono sostenibili nel tempo i successi ottenuti con misure repressive?
Zaira Navas, ex ispettrice generale della polizia che oggi analizza le conseguenze della misura imposta dal governo per l’ong Cristosal, si chiede: “Dove sono i pandilleros?”. La risposta ufficiale è che gli affiliati delle bande ancora in libertà si nascondono o sono fuggiti dal paese. “Secondo le nostre ricerche la quota di persone che appartengono alle organizzazioni criminali e che sono arrestate durante lo stato d’emergenza non raggiunge il 30 per cento. Il resto, la maggioranza, sono civili”, afferma Navas. “Le persone arrestate e poi rilasciate non arrivano al 30 per cento. La migliore propaganda per il governo non sarebbe presentarci i pandilleros che hanno un peso nazionale? Eppure non lo sta facendo”.
Senza un piano per il futuro
Verónica Reyna, direttrice per i diritti umani del Servizio sociale passionista, un’istituzione che da anni è presente nelle zone controllate dai gruppi criminali, non ha dubbi sui risultati ottenuti con l’imposizione dello stato d’emergenza: “Le gang sono state smantellate”. Ma è preoccupata dalle violazioni dei diritti umani legate a questa misura: “La domanda ovvia è: cosa succederà a tutte le persone arrestate? Il governo aspetterà che muoiano in prigione?”.
René Portillo Cuadra, deputato del partito di destra Arena, ammette che il governo ha inferto un duro colpo alle organizzazioni criminali. “La percezione è condivisa: oggi si può circolare nelle comunità che prima erano controllate dalle bande e gli spazi pubblici sono di nuovo tranquilli. Sembra che la struttura delle pandillas sia stata smantellata”, dice. Tuttavia, non nasconde di essere preoccupato: “A che prezzo?”, si chiede. “Ecco uno degli effetti dello stato d’emergenza, importante quanto la serenità dei salvadoregni: lo smantellamento dello stato di diritto. La presunzione d’innocenza, il diritto alla legittima difesa e l’indipendenza dei poteri sono scomparsi. Ai cittadini non è più garantito un processo equo. Le istituzioni che indagano e puniscono i crimini sono guidate da una sola persona”.
Secondo Anabel Belloso, deputata del partito di sinistra Fmln, “è prematuro dare per scontato che le bande criminali siano state distrutte”. Anche se la popolazione si sente più sicura, lei ha dei dubbi sulla sostenibilità dei risultati ottenuti: “Non sembra esserci un piano strutturato per il futuro”.
Claudia Ortiz, deputata del partito Vamos (centro), racconta che durante le sue visite in diverse comunità del paese la gente le ha confermato che la vita ora è più tranquilla. È un fatto positivo, anche se è preoccupata per la violazione dei diritti umani: “È normale che le persone si sentano al sicuro quando possono lasciare il loro quartiere senza doversi confrontare con le bande criminali. Ma cos’è rimasto sotto il tappeto? Quello che non si vede è che ci sono persone innocenti in carcere. E alcune non usciranno vive”. Uno dei problemi principali è che la procura generale non indaga su chi ha commesso un crimine. Un altro è che non ci sono giudici indipendenti.
“Tutti i salvadoregni che oggi si sentono più sereni non vorranno ascoltare questa storia, perché è scomoda. Sapere che la mia tranquillità è stata raggiunta a un prezzo inaccettabile per qualsiasi essere umano è sconvolgente”, dice Ortiz. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati