Qualche anno fa, quasi senza rendersene conto, Chao Tayiana Maina ha cambiato la storiografia keniana. Per ambientarsi meglio all’università di Voi, a quasi trecento chilometri da dov’era cresciuta, faceva delle lunghe passeggiate. Un giorno si è imbattuta nella stazione ferroviaria della città, un edificio di mattoni rossi che durante la prima guerra mondiale era stata uno snodo cruciale per i trasporti dei colonialisti britannici.
Affascinata dalla bellezza della stazione e, più in generale, dalla storia della ferrovia che in epoca coloniale collegava il Kenya all’Uganda, Tayiana ha cominciato a riflettere su come preservare il ricordo di quelle stazioni. Dopo più di un secolo di attività, i binari erano ormai in rovina. Il Kenya stava progettando una nuova ferrovia affidandone la costruzione ai cinesi e alcune vecchie stazioni erano destinate alla demolizione.
In quattro anni, e grazie al supporto finanziario e morale di amici e parenti, Tayiana ha documentato circa cinquanta siti, scattando foto, girando video e realizzando interviste con persone che avevano lavorato o erano vissute vicino alle stazioni. Nel 2016 il progetto, chiamato Save the railway, ha portato all’inaugurazione di una galleria d’arte a Nairobi e oggi continua grazie a un sito internet con una mappa interattiva. Quell’iniziativa ha segnato l’inizio della missione di Tayiana: usare la tecnologia per riportare alla luce la storia nascosta o soppressa, insieme alle sue ingiustizie, rendendola accessibile a un pubblico più vasto.
In tutta l’Africa i colonialisti britannici romanzarono la nascita delle ferrovie – che in realtà avvenne attraverso lo sfruttamento della manodopera di africani e indiani – con una serie di racconti di avventure in terre “esotiche”.
Tayiana, invece, voleva mettere in evidenza la gioia e il dolore che la ferrovia rappresentava per i comuni cittadini keniani: la usavano per portare i bambini a scuola o i loro prodotti al mercato, ma nel dopoguerra i governanti l’avevano sfruttata anche per trasportare migliaia di ribelli contro il colonialismo verso i campi di prigionia dei combattenti per la liberazione a bordo di vagoni con finestrini sbarrati e filo spinato.
Il Kenya ha subìto il devastante dominio britannico dal 1895 al 1963. Tuttavia gran parte della storia coloniale di questo paese dell’Africa orientale è stata scritta da quella stessa potenza, che ha celebrato il suo dominio e ha messo i bianchi in buona luce, occultando le violenze commesse. Mentre il mondo scopre gradualmente gli orrori dell’impero britannico, tanti giovani keniani si stanno impegnando per cambiare la narrazione e raccontare una versione più equilibrata della storia. “Rivendicare il controllo sul proprio passato ti dà molto potere”, dice Tayiana. “Se è qualcun altro a definire chi sei, questo pregiudica come tu ti vedi”.
Uno sguardo alle stelle
Di recente, un venerdì sera, decine di persone si sono ritrovate in cima a un grattacielo di Nairobi per ascoltare Tayiana parlare del patrimonio astronomico africano. Sotto un cielo nuvoloso, la storica si è chiesta perché il sapere africano sia così poco considerato nel resto del mondo, anche se gli africani incorporano da sempre elaborate osservazioni sul cosmo nella loro vita.
Poi Tayiana ha mostrato una videointervista fatta a un uomo della comunità pastorale seminomade dei samburu, che si sposta nelle vaste aree desertiche nel Kenya settentrionale.
Senza esitare, l’anziano descriveva diversi corpi celesti, per esempio la Nkakwa, che è la via Lattea, oppure Ngurikinyeji, ossia la cintura di Orione. “Questo rafforza la fiducia in noi stessi in quanto africani e ci fa capire che abbiamo da sempre la capacità d’incidere sulla realtà”, dice Karen Mwangi, che quella sera ascoltava l’intervento. “Forse non abbiamo prodotto testimonianze scritte come altre comunità, ma comunque possedevamo questo sapere”. Negli ultimi anni il valore dell’astronomia africana si è fatto più evidente. Nel 2022 il Southern Africa large telescope in Sudafrica, uno dei più grandi telescopi nell’emisfero meridionale, ha contribuito alla scoperta di un sistema di quattro stelle che orbitano l’una attorno all’altra.
Il digital heritage, cioè l’uso delle tecnologie digitali per presentare, salvaguardare e comprendere il patrimonio culturale o naturale, è un settore in crescita in Africa. E durante la pandemia si è ulteriormente sviluppato, perché le istituzioni che ne fanno parte hanno cercato soluzioni per restare a galla.
Le iniziative locali sono molto importanti, perché le organizzazioni nordamericane ed europee hanno a lungo esercitato un potere finanziario e istituzionale sul patrimonio culturale africano, spiega Colleen Morgan, che insegna archeologia digitale all’università di York, nel Regno Unito. Per quanto ben intenzionate, aggiunge, queste organizzazioni tendono a estrarre il sapere indigeno per diffonderlo come meglio credono senza mettere dati o strumenti a disposizione di chi ha contribuito a livello locale.
A Ngong, la città della provincia della Rift valley in cui è cresciuta, Tayiana ha passato gran parte dell’infanzia divorando libri, mappe e vecchie fotografie conservate dai suoi nonni. Quando studiava matematica e informatica all’università Jomo Kenyatta aveva un blog in cui commentava articoli storici sul Kenya. “Sono appassionata di storia fin da piccola. Ho sempre saputo che avrei fatto questo lavoro”, spiega.
Dopo la laurea ha conseguito un master in visualizzazione del patrimonio internazionale alla Glasgow school of art, in Scozia. Una volta tornata in Kenya, ha subito capito che lì quel settore era inesistente. Insieme a un gruppo di donne provenienti da Kenya e Regno Unito ha dato vita al Museo del colonialismo britannico, con l’obiettivo di riempire i vuoti della storia coloniale. Inoltre ha fondato la African digital heritage, un’organizzazione non profit che incoraggia le istituzioni culturali africane a sfruttare le nuove tecnologie.
Anni violenti
Il governo keniano non ha mai scavato troppo in profondità nella storia coloniale del paese. Questo si deve in parte all’invito a “perdonare il passato” lanciato dal primo presidente del paese, Jomo Kenyatta, che dopo l’indipendenza voleva ricucire i rapporti con la minoranza europea per poter dare vita a una nazione unita.
Dal 1952 al 1960 le autorità coloniali britanniche dovettero far fronte alla ribellione del Movimento per la libertà e la terra noto come Mau mau. Fu uno dei periodi più cruenti della storia del paese, durante il quale circa novantamila keniani furono uccisi, torturati o mutilati. In quegli anni si svolse anche il programma di “villaggizzazione” elaborato dai britannici: circa 1,2 milioni di keniani furono trasferiti con la forza in campi di concentramento e sottoposti a un trattamento crudele, per reprimere i combattenti mau mau e i loro sostenitori.
Usando gli archivi e le storie orali raccolte dai sopravvissuti, il Museo del colonialismo britannico ha realizzato ricostruzioni in 3d e digitali di uno di quei campi di prigionia. Nel 2022 ha esposto il lavoro a Nairobi, nell’ambito di una mostra multimediale intitolata Barbed wire village, villaggio di filo spinato.
Non basandosi solo sulle fonti ufficiali, il patrimonio digitale può permettere a una comunità di raccontare le sue storie nel modo in cui preferisce, commenta Melissa Terras, docente all’università di Edimburgo, in Scozia. Questo aspetto apre nuove modalità per scardinare il potere coloniale.
Nonostante le difficoltà che affronta ogni giorno, Tayiana vuole andare avanti. Si considera una “storica testarda”, un riferimento a un racconto della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. Uno dei personaggi di quel racconto è a disagio per il modo in cui gli occidentali trattano la cultura e la storia africana, ma è determinato a cambiare le cose.
“Per me la storia è un qualcosa in divenire. Non solo un oggetto di consumo”, dice Tayiana. ◆ gim
1993 Nasce a Ngong, in Kenya.
2015 Si laurea in matematica e informatica all’università Jomo Kenyatta di Nairobi.
2016 Frequenta un master a Glasgow, in Scozia.
2016 Lancia il progetto Save the railway, che documenta l’evoluzione della ferrovia keniana.
2019 Diventa la direttrice dell’African digital heritage, un’organizzazione non profit che promuove la digitalizzazione del patrimonio culturale africano.
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Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati