Nel 1968 tutto il mondo aveva lo sguardo rivolto all’insù: mancava un anno allo sbarco sulla Luna e sembrava che il futuro sarebbe stato nello spazio. Ma c’era anche chi guardava in basso e si rendeva conto che sarebbe stata l’Antartide a decidere il nostro destino. Il geografo inglese John Mercer era considerato un eccentrico nella comunità scientifica: si diceva che facesse jogging completamente nudo, e che sempre nudo svolgesse le sue ricerche, il che è ancor più sorprendente se si considera che si occupava di Antartide. Anche per questo, quando nel 1968 predisse che i ghiacci dell’Antartide occidentale avrebbero potuto sciogliersi e far salire di sei metri il livello dei mari, la sua tesi fu liquidata da molti come un delirio.
Nessuno credette a Mercer. La glaciologia, ovvero la scienza che studia la neve e il ghiaccio, godeva di scarsissima considerazione e il cambiamento climatico non era oggetto di dibattito scientifico. Oggi invece sappiamo che Mercer aveva ragione. Nel 1978 avanzò un’altra tesi che allora sembrò assurda e oggi invece appare scontata: lo scioglimento sarebbe dipeso dall’effetto serra causato dagli esseri umani.
A prendere sul serio Mercer fin da subito fu Terry Hughes, che aveva studiato scienza dei materiali ma aveva un debole per il ghiaccio. Hughes non solo era convinto che il ghiaccio si sarebbe sciolto, ma credeva anche di aver individuato il luogo dove sarebbe cominciato il processo di scioglimento, anche se, come Mercer prima di lui, non aveva a disposizione metodi di misurazione sofisticati. Hughes lavorava all’università del Maine, negli Stati Uniti, quando, in un articolo scientifico del 1981, usò un’espressione che avrebbe avuto grande fortuna in glaciologia: “il ventre molle”. Durante la seconda guerra mondiale, quando gli alleati si chiedevano come attaccare la Germania nazista, il premier britannico Winston Churchill aveva definito così l’Italia, che secondo lui era l’anello debole tra le potenze dell’Asse.
Hughes aveva individuato l’anello debole dell’Antartide in un ghiacciaio che, come una sorta di tappo di ghiaccio, impedisce all’Antartide occidentale di sciogliersi e defluire verso il mare.
Oggi sappiamo che a determinare l’innalzamento del livello del mare nel corso dei prossimi decenni sarà quel ghiacciaio, da cui dipende come – e soprattutto dove – vivremo in futuro. Quel ghiacciaio è il Thwaites.
Nel febbraio 2019, mezzo secolo dopo le profezie di John Mercer, una donna è appoggiata al parapetto della nave rompighiaccio Nathaniel B. Palmer e fissa la nebbia davanti a sé. Anna Wåhlin insegna all’università di Göteborg, in Svezia, ed è un’oceanografa tra le più autorevoli al mondo. Per le sue ricerche passa più tempo in mare che in laboratorio. Il suo viso è segnato dal sole e dal vento, e quando parla delle spedizioni scientifiche ai confini del mondo le brillano gli occhi.
Per molti anni Wåhlin ha studiato l’Antartide occidentale e in particolare il ghiacciaio Thwaites senza mai averlo visto da vicino, e poi all’improvviso eccolo ergersi di fronte a lei come un’enorme, sublime e frastagliata parete di ghiaccio. Tra i pochi posti al mondo che ancora resistono alla conquista umana, l’Antartide è quello in cui le condizioni sono più estreme. Nessun altro luogo è così freddo – qui le temperature invernali oscillano tra i meno sessanta e i meno settanta gradi – e da nessun’altra parte le tempeste sono così frequenti.
L’Antartide è l’ultimo continente disabitato. Le ricercatrici come Wåhlin vengono qui per prendere le misure di una catastrofe imminente, le cui proporzioni sono ancora ignote: lo scioglimento delle calotte polari e il conseguente innalzamento del livello del mare. È uno dei cosiddetti tipping point, i punti di non ritorno della crisi climatica.
Che vuol dire? Proviamo a immaginare una palla e una collina. Se diamo un calcio alla palla verso l’alto, quella prima rotola un po’, poi riscende verso di noi. Ma se la mandiamo oltre la cima, la palla rotolerà giù dall’altro lato, inarrestabile e sempre più veloce. La cima della collina è il punto di non ritorno. La maggior parte dei sistemi terrestri funziona così: se ricevono un input esterno si modificano leggermente e poi tornano alla condizione originaria, proprio come la palla che torna verso chi l’ha lanciata. Ma se l’input ha un’intensità forte e costante o se è ripetuto continuamente, il sistema supera il punto di non ritorno e va per la sua strada. Questo processo è irreversibile.
Calotte e piattaforme
Per capire perché lo scioglimento delle calotte polari segni un punto di non ritorno serve un piccolo corso accelerato in glaciologia. Bisogna distinguere tra le piattaforme di ghiaccio galleggianti e le calotte di ghiaccio. Le calotte di ghiaccio sono ghiacciai continentali che ricoprono superfici molto estese, come appunto l’Antartide, dove il ghiaccio arriva a uno spessore di 4.900 metri. È il cosiddetto ghiaccio eterno, anche se questo termine va usato con prudenza.
La calotta di ghiaccio non è statica, ma si comporta come il miele: tende cioè ad appianarsi, scorrendo verso i bordi. E siccome dalla parte dell’entroterra il ghiacciaio Thwaites ha uno spessore maggiore, il suo peso da lì preme in avanti. Grandi quantità di ghiaccio si spostano lentamente verso il mare, formando una sorta di lastra che galleggia nell’oceano: una piattaforma di ghiaccio galleggiante, appunto.
Le dimensioni delle piattaforme di ghiaccio galleggianti sono difficili da concepire. Nel nostro immaginario l’iceberg è il colosso che ha affondato il Titanic, ma in realtà quello era solo un microscopico frammento che si era staccato da una piattaforma e continuava a navigare sull’oceano. La piattaforma galleggiante al largo della costa antartica ha uno spessore che arriva a mille metri e svolge una funzione fondamentale: fa da freno, impedendo che il ghiacciaio continentale alle sue spalle – cioè l’intera calotta di ghiaccio – raggiunga il mare.
Ed eccoci al punto di non ritorno. Per millenni in Antartide le nevicate hanno prodotto abbastanza ghiaccio da compensare quello che andava perso, tanto che dall’ultima glaciazione le dimensioni della calotta sono rimaste più o meno costanti. Negli ultimi tempi, però, a causa del riscaldamento globale la piattaforma di ghiaccio davanti al Thwaites si dissolve sempre più rapidamente. Nel giro di cinque o dieci anni potrebbe frantumarsi. Senza più freni, il ghiacciaio Thwaites scivolerà inesorabilmente dalla terraferma al mare, proprio come la palla sulla collina. In questo momento la comunità scientifica si chiede se il punto di non ritorno sia già stato superato. Sulle conseguenze, invece, sono tutti d’accordo: il livello del mare salirà.
A differenza di quelli montani, i ghiacciai antartici si sciolgono a partire dal basso
È per questo che nel 2019 Wåhlin è andata nell’oceano Antartico. Il suo campo di ricerca è racchiuso in questa domanda: a che velocità si sta sciogliendo il ghiacciaio Thwaites? “Chiedetelo a cinque ricercatori diversi”, dice Wåhlin con un sorriso, “e avrete cinque risposte diverse, perché la verità è che ancora non sappiamo dirlo con certezza”.
Dopo il corso accelerato sui tipi di ghiaccio, passiamo a una lezione sullo scioglimento dei ghiacciai. I ghiacciai alpini si sciolgono a partire dall’alto, come il gelato al sole. I ghiacciai della gelida Antartide occidentale, invece, si sciolgono dal basso: l’acqua calda che scorre sotto di loro – e calda significa appena sopra il punto di congelamento – ne scioglie un po’ la base, facendoli scivolare verso il mare.
L’acqua che scorre sotto il Thwaites ha effetti tanto devastanti per due motivi: il primo è che ampie porzioni del ghiaccio dell’Antartide occidentale si trovano sotto il livello del mare, ragion per cui, a voler essere precisi, non si tratta di una semplice calotta di ghiaccio, ma di una calotta di ghiaccio marina. Se dovesse sciogliersi del tutto, in questa zona a parte qualche isola non rimarrebbe neanche un lembo di terraferma.
Il secondo motivo è che la terraferma dell’Antartide occidentale ha pendenza retrograda. Questo significa che la base su cui poggia il ghiacciaio pende verso l’interno del continente (normalmente è il contrario), come se il ghiacciaio giacesse in una gigantesca scodella sottomarina. Più ci si allontana dalla costa, più aumenta lo spessore del ghiaccio, che nel punto di massima profondità arriva a circa 1.500 metri sotto il livello del mare.
È proprio la combinazione tra questi due fattori a minacciare il Thwaites. Ecco cosa succede: dalle profondità oceaniche l’acqua “calda” penetra nell’Antartide occidentale, scorrendo sotto la calotta. Il ghiaccio si scioglie, perde aderenza e scivola in mare. A causa della pendenza retrograda l’acqua si insinua sempre più in profondità, mentre dall’entroterra il ghiaccio preme, e il Thwaites scivola sempre di più.
Visto che lo spessore del ghiacciaio aumenta man mano che si va verso l’interno, la parte frontale del ghiacciaio – quella che è a contatto con l’acqua e si sgretola – diventa sempre più estesa. Immaginiamo di tagliare un pezzo di formaggio brie partendo dalla punta: le prime fette sono piccole, ma a ogni fetta la sezione diventa più larga.
Per capire quanta acqua “calda” stia già scorrendo sotto il Thwaites, Anna Wåhlin ha portato con sé un robot sottomarino di nome Rán, del valore di quattro milioni di dollari, che si è immerso sotto la piattaforma galleggiante per realizzare un’immagine tridimensionale del lato inferiore del ghiacciaio. Molto sotto il ghiacciaio, Rán ha trovato le tracce di una collina sottomarina, che stabilizza la parte anteriore.
C’è stato un momento, però, in cui la collina non ha svolto questa funzione, e il ghiacciaio ha cominciato a ritirarsi sempre più rapidamente. Secondo Wåhlin e i suoi colleghi, a un certo punto nel corso degli ultimi duecento anni dev’essere successo qualcosa di simile: nel giro di meno di sei mesi la parte anteriore del ghiacciaio dev’essersi scollata dalla collina sottomarina per poi ritirarsi a una velocità di 2,1 chilometri all’anno, circa il doppio di quella attuale.
“I nostri risultati indicano che potrebbe succedere di nuovo”, dice Wåhlin. Poi fa una pausa. È una ricercatrice prudente, poco portata all’allarmismo. “Significa che il Thwaites si disintegrerebbe molto più rapidamente di quanto non faccia oggi”. Questo processo può essere fermato? “No, non possiamo fermarlo. Finirà solo quando tutto il ghiaccio si sarà sciolto. L’unica cosa che possiamo fare è continuare a studiare, per prepararci a quello che ci aspetta”.
In Antartide i decolli e gli atterraggi vanno fatti a vista, senza controllo aereo
Più importante di Marte
È solo dal 2014 che sappiamo con certezza che John Mercer e Terry Hughes avevano ragione. In quell’anno due gruppi di ricerca hanno dimostrato, indipendentemente l’uno dall’altro, che il ghiacciaio Thwaites sta effettivamente collassando. Da allora non ci si chiede più se l’Antartide occidentale si scioglierà, ma quando succederà.
How much? How fast? Gli scienziati con cui parliamo del ghiacciaio Thwaites prima o poi ripetono queste domande: quanto? E quanto velocemente? Sono proprio gli interrogativi che si pone la spedizione di ricerca più grande e costosa mai effettuata in Antartide. Duecento persone, sessanta milioni di dollari, nove progetti diversi: è l’International Thwaites glacier collaboration (Itgc).
Wåhlin è una parte piccola ma importante di questo progetto, come anche Ted Scambos. Scambos ha quasi sessant’anni, occhi svegli e capelli grigi ed è uno dei cervelli che animano il progetto di ricerca sul Thwaites. Il suo contributo è stato decisivo per ottenere generosi finanziamenti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.
Ma si può davvero parlare di generosità? “Nei prossimi decenni spenderemo centinaia di miliardi per proteggere le nostre città dall’acqua che sale”, dice Scambos, “mentre per studiare l’Antartide siamo disposti a spendere appena qualche milione”. Lo scienziato scuote la testa: “Mettiamola così: il sogno di Elon Musk di andare su Marte mi piace, ma l’idea che possano viverci miliardi di persone è semplicemente assurda. Allora perché spendiamo risorse per quel piano e non per esplorare l’Antartide, anche se sappiamo che il futuro del mondo dipende dall’Antartide e non da Marte?”.
In trent’anni di carriera Scambos è stato in Antartide ventidue volte, e nel gennaio del 2020 è stato per la prima volta sul Thwaites. Vista dal satellite l’Antartide può sembrare piccola, ma è solo perché è difficile farsi un’idea delle sue dimensioni senza punti di riferimento. Sulle carte geografiche l’Antartide è solo una striscia bianca sul bordo inferiore. Invece è enorme, quasi il doppio dell’Australia.
Prima di Truffer nessuno aveva mai messo piede sul ghiacciaio
Scambos ha un modo semplice per visualizzare le tre regioni del continente antartico: basta chiudere a pugno la mano sinistra, allungare il pollice come per fare l’autostop e girare la mano in modo da vederne il palmo. Il pollice è la Penisola antartica, molto montuosa e lunga circa 1.200 chilometri. La sua punta si estende oltre il circolo polare antartico e lambisce l’estremità meridionale del Sudamerica. È il punto dell’Antartide più lontano dal polo sud. Le dita piegate sono l’Antartide orientale, che da sola è più grande dell’Australia e costituisce la maggior parte della terraferma antartica. Qui il ghiaccio poggia per lo più su una base rocciosa e montuosa. La parte visibile del palmo è l’Antartide occidentale, separata da quella orientale dai Monti transantartici, che arrivano a cinquemila metri d’altezza e sono quasi interamente coperti di ghiaccio.
Più piccola di quella orientale, l’Antartide occidentale è comunque grande sei volte la Germania. Alla sua estremità occidentale sorge il Thwaites, il ghiacciaio più vasto del mondo, un mostro di ghiaccio delle dimensioni della Gran Bretagna. Raggiungerlo è difficile: perfino Fredrik Thwaites (1883–1961), il geologo glaciale statunitense che gli diede il nome, non ci era mai stato. Da quando un essere umano ha messo piede per la prima volta sul Thwaites sono passati solo 65 anni.
Freddi interessi
Di chi è l’Antartide? La risposta breve è: di nessuno. La risposta lunga è un po’ più complicata. Sette paesi rivendicano il possesso di porzioni dell’Antartide. Argentina e Cile accampano diritti su alcuni territori della zona occidentale, sostenendo che appartengono alla loro piattaforma continentale. Francia, Regno Unito e Norvegia invece pretendono giganteschi territori in tutte le zone dell’Antartide, perché sono stati dei loro cittadini a scoprirli nell’ottocento.
Nuova Zelanda e Australia chiedono la loro parte citando le basi di ricerca e le spedizioni effettuate, mentre Stati Uniti e Russia non avanzano rivendicazioni ma rifiutano di riconoscere quelle degli altri. Neanche Belgio, Giappone e Sudafrica rivendicano territori, ma fanno ricerca in Antartide da moltissimo tempo e vogliono avere voce in capitolo.
Per evitare conflitti, nel 1959 tutti questi paesi hanno concluso il Trattato Antartico, attualmente ratificato da 55 stati. È un accordo visionario con cui l’Antartide è sottratta allo sfruttamento economico e destinata a fini esclusivamente scientifici. Sono vietati i test nucleari, lo smaltimento di materiali radioattivi e le attività militari.
Nel 1991 al trattato è stata aggiunta una clausola sulla protezione ambientale, e da allora l’Antartide è una riserva naturale votata alla pace e alla ricerca.
Considerato che è l’unico continente al mondo disabitato – a parte qualche centinaio di scienziati che restano lì durante l’inverno e un piccolo insediamento cileno – è stupefacente che in Antartide ci siano venti aeroporti internazionali e più di ottanta basi di ricerca. Sull’isola di re Giorgio, nell’estremo nord della penisola antartica, le basi sono una a fianco all’altra: quella sudcoreana confina con quella argentina, quella ungherese è accanto a quella russa e quella polacca è vicina a quella dell’Ecuador.
Ma non tutti sono qui per combattere il cambiamento climatico. Sappiamo che nei monti Transantartici ci sono giacimenti di carbone, e nelle montagne del Principe Carlo, in Antartide orientale, abbondano i minerali ferrosi. Inoltre si ipotizza che siano presenti anche nichel, rame e platino, ma soprattutto petrolio e gas naturale.
Tredici ore di volo
Lo svizzero Martin Truffer, 53 anni, fa ricerca nell’Artico e in Groenlandia ed è stato in Antartide già dieci volte. Vive con la sua famiglia a Fairbanks, in Alaska. “A ogni tappa il viaggio diventa più complicato”, racconta parlando delle spedizioni in Antartide. Il primo tratto del percorso verso il ghiacciaio Thwaites comincia a Christchurch, in Nuova Zelanda, a bordo di un C17 dell’aviazione statunitense, uno degli aerei cargo più imponenti del mondo. Più o meno in cinque ore si arriva alla stazione McMurdo, nell’estremo ovest dell’Antartide occidentale. È la base logistica più grande del continente: è come un parcheggio statunitense circondato da grandi magazzini, trasportato sulla Luna. Chi fa ricerca in Antartide in genere porta con sé un’intera equipe, il cosiddetto team operativo: un cuoco, un radioperatore, un medico e un tecnico, indispensabile se si guasta il riscaldamento elettrico o si spezzano le cinghie che fissano le casse alle slitte.
A McMurdo Truffer e la sua squadra devono fare due cose. Primo: frequentare un corso di sopravvivenza in Antartide imposto dagli statunitensi. Come si monta una tenda durante una tempesta di neve? (Difficile). Come si salva una persona caduta in un crepaccio? (Difficilissimo). Come si ritrova la base se ci si perde alla guida della motoslitta? (Impossibile). Secondo: aspettare. In Antartide i decolli e gli atterraggi vanno fatti a vista, senza strumenti di navigazione e sistemi di controllo aereo, per cui sono necessarie condizioni meteo favorevoli.
Nel 2019 Truffer e i suoi hanno dovuto attendere quattro settimane prima di poter partire. Quando la tempesta si è placata sono saliti su un Hercules C130, un aereo piuttosto vecchio che con degli sci al posto dei carrelli è in grado di atterrare quasi ovunque in Antartide. Poi hanno fatto rotta verso est. “Si vede solo bianco ovunque”, ricorda Truffer. Ted Scambos la mette così: “In Antartide tutto è più grande di quel che sembra. Dall’alto il manto di ghiaccio è liscio e immacolato, bellissimo, perfettamente bianco, interrotto solo dai piccoli mulinelli che salgono dalle dune di neve. Man mano che ci si avvicina al bordo di questo manto di ghiaccio le sensazioni si fanno più intense: si scorgono crepe sulla superficie, che a volte è regolare come una tavola, a volte un insieme caotico di picchi e creste, che rivelano il cuore azzurro e cristallino del ghiaccio sottostante”. Fessure che dall’alto sembravano semplici linee da vicino diventano crepacci che potrebbero inghiottire interi grattacieli. Sotto il ghiaccio, dice Scambos, si nasconde una forza invincibile, capace di sollevare senza sforzo migliaia di tonnellate: “La sensazione è che il paesaggio sia in costante movimento”.
Il viaggio sul C130 dura sei ore e si conclude all’ultima tappa intermedia: uno spartano accampamento a duemila metri sopra il livello del mare, sullo spartiacque tra il mare di Ross e il mare di Weddell. È l’estremo avamposto della civiltà prima della solitudine totale sul Thwaites.
L’ultimo tratto, di due ore, si percorre a bordo di un Twin Otter, un piccolo velivolo a elica adatto a piste d’atterraggio cortissime. Dopo circa tredici ore nette di volo dalla partenza in Nuova Zelanda si arriva così sul ghiacciaio Thwaites. In mezzo al nulla. Per scoprire quanto velocemente si sta sciogliendo non basta mandare in questo luogo remotissimo qualche scienziato: servono tonnellate di strumenti, decine di migliaia di litri di carburante, ma anche tende, attrezzatura da campeggio, vettovaglie. Scambos spiega che durante una spedizione in Antartide bisogna mangiare tre o quattro volte più del normale e si perde comunque peso, perché il corpo brucia moltissima energia per mantenere il calore.
Quando gli chiediamo quale sia la sfida più grande, un tecnico che da trent’anni accompagna le spedizioni ci risponde: “In Antartide non ci sono ferramenta, non si può comprare nulla”. Perciò prima di partire è fondamentale chiedersi: c’è qualcosa che potrebbe succedere a cui non ho ancora pensato? In Antartide diventano complicate le cose più semplici, come bere. Per ottenere un litro d’acqua bisogna raccogliere e sciogliere sette litri di neve. O vestirsi. A meno 40 gradi bisogna indossare, dall’interno all’esterno, biancheria normale, biancheria termica, pantaloni di pile, giacca di pile e sopra tutto una tuta imbottita chiamata Tempex. Poi sono molto importanti copricollo, passamontagna, cappello, guanti sottili da mettere sotto e guanti molto spessi da mettere sopra. Ai piedi vanno indossate calze di lana e grossi stivali dalle suole spesse, magari riscaldate. Infilarsi tutti questi indumenti è di per sé una sfida: se ci metti troppo cominci a sudare prima di aver finito, e quando esci il sudore ti si gela sul viso. Non sempre l’aereo riesce a trasportare tutto il materiale, quindi spesso è preceduto da cingolati che trainano slitte del peso di diverse tonnellate, cariche di container abitativi molto spartani. Questi convogli procedono a una velocità massima di dieci chilometri orari attraverso una delle zone più inospitali del mondo. Per una spedizione di medie dimensioni servono ben sei tonnellate di pezzi di ricambio.
Una delle cose peggiori che ti possono capitare durante una traversata è imbatterti in un crepaccio. Bisogna usare il radar (che però spesso si rompe) e consultare le immagini satellitari (che però si rivelano sempre un po’ diverse da quello che hai effettivamente di fronte).
Ma la cosa peggiore in assoluto è il maltempo. Se capiti in mezzo a un drift, una tempesta di neve, non vedi più niente di niente: allunghi la mano e scompare. Si dice che un membro di una spedizione britannica si sia allontanato di tre o quattro metri dal veicolo per fare pipì e non sia più tornato indietro. Insomma, si capisce perché gli statunitensi della stazione McMurdo insistano così tanto perché anche i viaggiatori più esperti seguano ogni volta il corso di sopravvivenza senza saltare nemmeno una lezione.
Il percorso verso la piattaforma del Thwaites è troppo pericoloso per i cingolati. Le due tonnellate di materiale necessario alla spedizione di Truffer vengono paracadutate da un aereo a elica molto robusto risalente alla seconda guerra mondiale. Poi, il 13 dicembre 2019, atterrano anche Truffer e i suoi. Prima di loro qui non ha mai messo piede nessuno. Innanzitutto piantano le tende, sciolgono la neve, montano i generatori e posano i cavi. Poi comincia il lavoro vero e proprio. Il tempo a disposizione non è molto: tra cinque settimane il buio e il freddo renderanno impossibile lavorare e soprattutto decollare. L’idea è forare il ghiaccio per quattrocento metri con una trivella ad acqua calda, così da raggiungere l’estremità inferiore della piattaforma e misurare la temperatura dell’acqua marina. In questo modo gli scienziati sperano di scoprire perché l’acqua attacca il ghiaccio in maniera tanto aggressiva. Il successo della missione è essenziale per valutare l’entità della minaccia e prevedere quando la piattaforma si sgretolerà.
Truffer lavora molto, ma come in ogni spedizione antartica a un certo punto arriva il momento in cui ci si ferma e ci si abbandona alla suggestione del deserto di ghiaccio. “Sediamo tutti insieme, con il generatore spento”, racconta un ingegnere. “Nessuno dice una parola, e se non tira vento non si sente assolutamente nulla. È spaventoso. Se qualcuno si muove il rumore è tale che tutti sobbalzano”. Secondo un tecnico invece passare lunghi periodi in spazi ristretti spinge a chiudersi in sé stessi: “C’è chi si mette a bere e chi smette di parlare. Molti si innamorano. Ma non ne facciamo mai parola: What happens in Antarctica, stays in Antarctica”. “Il momento più intenso in realtà è il ritorno”, racconta una ricercatrice. Per settimane vedi solo bianco, non senti niente a parte il rumore del vento, sei circondata da pochissime persone. Una volta tornata casa ti manca quella pace”.
Entro il 2100 l’innalzamento del livello dei mari sarà già arrivato a 1,1 metri
La scoperta dell’acqua calda
C’è una cosa che finora non abbiamo spiegato: perché l’acqua che attacca il ghiacciaio Thwaites si sta riscaldando? Semplificando, è un fenomeno legato al riscaldamento globale. Ma in questa faccenda di semplice non c’è nulla. A fare luce sui misteri del riscaldamento dei mari è Julia Wellner, oceanografa dell’università di Houston. “Ho passato tutta la mia vita professionale a chiedermi perché l’acqua intorno al ghiacciaio Thwaites si stia scaldando”, racconta Wellner, una veterana dell’Antartide: c’è stata tredici volte, di cui quattro su questo fragile ghiacciaio. “Non possiamo semplicemente dire che la causa dello scioglimento dei ghiacci è il riscaldamento globale”, osserva poi.
Possiamo metterla così: il ritiro del Thwaites sembra collegato a un più ampio ritiro dei ghiacciai della regione, riconducibile a un surriscaldamento locale dell’acqua di mare. Questo surriscaldamento è dovuto a grandi cambiamenti nello schema dei venti e delle tempeste nell’emisfero sud, che a loro volta dipendono dal cambiamento climatico causato dall’essere umano. Quando la luce del Sole incontra la superficie terrestre, gli oceani assorbono buona parte della sua energia sotto forma di calore. L’acqua ha una capacità termica molto maggiore rispetto all’aria, quindi gli oceani possono assorbire grandi quantità di calore senza che la temperatura aumenti di molto. Finora più del 90 per cento del calore in eccesso prodotto dal cambiamento climatico dovuto all’attività umana è stato assorbito dagli oceani, che hanno agito come una sorta di cuscinetto contro il riscaldamento globale. Ma anche l’acqua si riscalda e quindi si espande, contribuendo all’innalzamento del livello del mare. Inoltre, il riscaldamento delle acque oceaniche alimenta le tempeste e modifica le correnti, che dipendono in gran parte dalle differenze di temperatura.
Tutto questo adesso sta avendo effetto sull’oceano Antartico che circonda l’Antartide. Per capire il fenomeno bisogna concentrarsi su due eventi che risalgono a milioni di anni fa, e che sono di particolare importanza per la storia di questa regione. L’Antartide non è sempre stata un continente glaciale: si ipotizza che, quando faceva parte del supercontinente Gondwana insieme alle attuali Sudamerica, Africa, India e Australia, fosse coperta da fiumi, laghi e boschi. Circa 180 milioni di anni fa le cose hanno cominciato a cambiare, a causa di eruzioni vulcaniche, fratture della crosta terrestre e derive continentali. Il primo processo rilevante di separazione dell’Antartide risale a circa 35 milioni di anni fa, quando tra la penisola Antartica e il Sudamerica si aprì il canale di Drake, un passaggio che oggi è largo ottocento chilometri e collega l’oceano Pacifico all’oceano Atlantico. Un secondo passaggio si è formato a est qualche milione di anni più tardi, quando le ultime aree continentali oggi appartenenti all’Australia si staccarono dall’Antartide.
Questo canale ha aperto la strada alle fredde acque di profondità dell’oceano Antartico, consentendogli di passare senza ostacoli e formare la cosiddetta corrente circumpolare antartica (Acc per gli esperti), un flusso circolare freddo che scorrendo intorno all’Antartide la isolava climaticamente dal resto mondo.
È stato questo isolamento a provocarne la glaciazione, cominciata nei punti più elevati per poi estendersi a quote sempre più basse. I ghiacciai montani sono diventati calotte di ghiaccio, che poi hanno dato vita alla grande calotta di ghiaccio polare. Da allora neanche i periodi di caldo prolungato hanno influenzato l’Antartide, che è rimasta interamente ghiacciata per più di undici milioni di anni, perfino nelle fasi in cui la temperatura media globale superava di oltre cinque gradi quella attuale.
Questo perché fino a qualche tempo fa la corrente circumpolare antartica impediva all’acqua calda proveniente da nord di raggiungere le coste del continente. Ma ora la corrente circumpolare è cambiata, diventando più rapida e meno fredda, e questo perché, molto probabilmente, da nord penetra sempre più acqua calda. Per gran parte dell’Antartide questo non rappresenta ancora un grande problema: da una parte la piattaforma continentale (cioè il fondale basso vicino alla costa) blocca l’acqua calda, dall’altra la calotta di ghiaccio si trova sopra il livello del mare. Ma in corrispondenza del ghiacciaio Thwaites l’acqua più calda e veloce ha trovato un varco. Julia Wellner s’illumina: è sempre contenta quando la ricerca trova delle risposte, anche se annunciano sventure.
La morte del ghiacciaio Thwaites cambierà per sempre la vita umana sul pianeta. Quando il ghiacciaio si frantumerà finendo in mare sarà già di per sé una catastrofe: il livello del mare si alzerà di sessanta centimetri. Sembrano un nonnulla, ma mettiamoli in prospettiva: nel corso del settecento il livello del mare si è alzato di due centimetri, nell’ottocento di sei e nel novecento, cioè da quando gli esseri umani bruciano grandi quantità di combustibili fossili, di 19. Entro la fine di questo secolo si prevede un innalzamento di un metro. Secondo Anders Levermann, che insegna fisica all’università di Potsdam, in Germania, e studia il cambiamento climatico e le sue conseguenze, questo è niente in confronto a quello che ci aspetta.
New York addio
Se il Thwaites aprirà la strada al ghiaccio dell’Antartide occidentale, il livello del mare si alzerà di più di tre metri. A medio termine questo provocherà alluvioni, inondazioni e migrazioni di massa. Nel mondo quasi una persona su due vive a meno di 150 chilometri dal mare, mentre il 10 per cento della popolazione vive a meno di dieci metri sopra il livello medio del mare. Significa che New York, Londra, Tokyo e Istanbul saranno tutte sommerse. E Venezia lo sarà ancora prima.
Finora a provocare l’innalzamento del livello del mare sono stati lo scioglimento del ghiaccio della Groenlandia e dei ghiacciai di montagna, oltre all’espansione dell’acqua dovuta al calore. In futuro la causa principale sarà l’Antartide. Il 90 per cento del ghiaccio del pianeta si trova lì.
È difficile immaginare gli scenari che si apriranno. Nel breve termine, forse prima della fine del secolo, il ghiacciaio Thwaites collasserà, facendo salire il livello del mare di 0,6 metri. Nel medio termine (secondo alcune ricerche tra cinquecento anni, secondo altre tra mille) sarà la volta dell’Antartide occidentale (3,5 metri). E a lungo termine toccherà a quella orientale (circa 55 metri, forse tra diecimila anni). Se si sciogliesse tutta l’Antartide, il livello del mare salirebbe di più di sessanta metri. “Noi ricordiamo i greci antichi per aver inventato la democrazia, e tra duemila anni noi saremo ricordati per aver avviato l’innalzamento del livello del mare”, dice Levermann con voce tranquilla, come se volesse rassicurare un bambino che ha paura di addormentarsi.
Ma come può affermarlo con tanta sicurezza, visto che non sappiamo nemmeno dire quando si scioglierà esattamente il ghiacciaio Thwaites? “Me lo chiedono in continuazione: ‘Come fate a dire cosa accadrà tra duemila anni se neanche sapete cosa succederà tra ottanta?’. A me piace metterla così: se poggio un cubetto di ghiaccio sul tavolo possiamo discutere di quanto ci metterà a sciogliersi, ma non certo del fatto che prima o poi si scioglierà”.
Mille anni sono tanti. E alla maggior parte di noi, siamo onesti, di come sarà il mondo tra mille anni non importa niente. Ma per Levermann il punto è un altro. Proprio in questo momento sta succedendo qualcosa che trasformerà irreversibilmente la Terra. Noi non ce ne accorgiamo, perché gli effetti di questa trasformazione si vedranno solo in seguito. I modelli climatici si basano su calcoli complessi. Oggi si ritiene che a ogni grado di riscaldamento corrisponda a lungo termine un innalzamento del livello del mare di 2,5 metri. È un processo: l’aria si riscalda rapidamente, l’acqua invece ci mette di più. E prima che l’acqua dell’oceano Antartico arrivi a sciogliere il ghiaccio antartico passerà ancora più tempo. Ma sta succedendo.
Il rapporto sul clima del 2014 pronosticava un innalzamento del livello del mare compreso tra cinquanta centimetri e un metro entro il 2100. Ma dai calcoli su cui si basava mancava un elemento, che nel rapporto più recente determina una minacciosa curva esponenziale: il ghiacciaio Thwaites. Se l’Antartide occidentale comincia a sciogliersi, bisogna aspettarsi che entro il 2100 l’innalzamento del livello dei mari sarà già arrivato a 1,1 metri. E cosa succederà nel 2300? Helene Hewitt, una delle principali autrici del più recente report sul clima, sostiene che nel peggiore dei casi entro allora il livello dei mari potrebbe salire di 16 metri.
Non possiamo dire con certezza quando succederà, ma è inevitabile. È importante renderci conto di una cosa: quando parliamo di innalzamento del livello dei mari ci riferiamo alla media globale. Nella realtà, però, i mari non si innalzano in maniera uniforme: non è come riempire una vasca da bagno. Ci sono grandi differenze regionali, e anche gli effetti sulle varie parti del mondo sono diversi. I paesi poveri sono più colpiti, perché non hanno mezzi per difendere efficacemente le proprie coste. In Bangladesh circa venti milioni di persone vivono in aree che si trovano a meno di un metro sopra il livello del mare. Ma anche se il mare non raggiunge le loro case non è detto che siano al sicuro, perché aumentano anche gli eventi climatici estremi: tempeste, tornado e inondazioni. Perciò in tutto il mondo ci si chiede come bisognerà costruire le città del futuro perché restino abitabili.
Sentenze e speranze
Fanno 20 gradi sotto zero. Indossiamo pantaloni termici e giacche imbottite mentre osserviamo il glaciologo Olaf Eisen che apre un’enorme cassa termica e ne estrae un pinguino reale congelato. “Lo abbiamo trovato durante l’ultima spedizione”, esclama soddisfatto. Siamo nel laboratorio glaciologico dell’istituto Alfred Wegener di Bremerhaven, in Germania, un’istituzione unica in tutta Europa per quanto riguarda lo studio del ghiaccio. Il ghiaccio conserva informazioni su epoche molto lontane da quella in cui l’essere umano ha cominciato a influenzare il clima. Per questo si usano metodi costosi per fare buchi profondi chilometri nella calotta di ghiaccio antartica, prelevare campioni – le cosiddette carote di ghiaccio – e portarli nel laboratorio di Bremerhaven perché siano analizzati e conservati. A volte esce fuori anche un pinguino reale.
“Qui si riconoscono le tracce di un’eruzione vulcanica”, dice Eisen indicando uno strato nero nella carota di ghiaccio, per il resto cristallina. Stringiamo in mano un blocco vecchio 15mila anni. Eisen, cinquant’anni, è stato il primo scienziato con cui abbiamo parlato del ghiacciaio Thwaites: ci ha accompagnato nei lunghi mesi della nostra ricerca con pazienza e spiegazioni chiare, di solito via Zoom. Alla fine, però, abbiamo voluto incontrarlo di persona.
Dopo aver visitato il laboratorio, ci sediamo in un ristorante e chiediamo a Eisen come si possa comunicare l’urgenza della crisi climatica. “L’allarmismo può essere giustificato, ma le storie sulla fine del mondo non portano mai a niente”, risponde. “Per dirla in modo brutale, solo la sofferenza produce effetti. Siccità in Francia, Sydney sommersa, alluvioni in Germania, valanghe sullo Spitzbergen”.
Quant’è grave l’innalzamento del livello dei mari? “Uhm”, fa Eisen prendendo un sorso di birra. “La rivista scientifica Nature ha pubblicato un articolo che chiedeva se possiamo ritenerci nel bel mezzo di un’emergenza planetaria, e in caso affermativo se è possibile darne una dimostrazione matematica”. Il punto di partenza è la formula che usano le compagnie di assicurazione: il rischio è uguale al danno moltiplicato per la probabilità che l’evento si verifichi. E il pericolo è uguale al rischio moltiplicato per il tempo di reazione diviso per il tempo che resta per intervenire. Lo guardiamo senza capire. “Se il nostro tempo di reazione supera il tempo che ci rimane per evitare la catastrofe, la situazione è fuori controllo”. Eisen prende un altro sorso di birra. “Per quanto riguarda l’innalzamento del livello dei mari non ci sono dubbi: la situazione è fuori controllo”.
Eisen ci racconta di una conferenza che ha tenuto recentemente. Verso la fine dal pubblico gli hanno chiesto: “Ma non sarebbe possibile rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera?”. Eisen è rimasto senza parole. “Le persone credono ancora che ci siano soluzioni tecnologiche. Ma noi non disponiamo di strumenti applicabili su larga scala per togliere quella roba dall’atmosfera”. Lo scienziato si scalda un po’: “Se pensiamo agli sforzi che ci sono voluti negli ultimi centocinquant’anni per tirar fuori l’energia dal sottosuolo, è chiaro che per rimettercela ci vorrebbero altri centocinquant’anni. Ma non abbiamo tutto questo tempo”.
Ci siamo occupati per mesi del ritiro del ghiacciaio Thwaites, e dopo ogni intervista, dopo ogni nuova cifra, dopo ogni scoperta abbiamo sentito le nostre speranze andare in frantumi. Perché da tutti i calcoli e da tutti i modelli in sostanza emerge che quello che deve succedere succederà, indipendentemente da quello che possiamo fare. E quello che ci aspetta sarà sicuramente peggio di quello che immaginiamo. Ma abbiamo anche capito che è proprio questo modo di pensare a paralizzare la nostra capacità di agire, facendoci scivolare in uno stato d’animo apocalittico che si può sintetizzare così: se smettiamo di sperare, quello che temiamo succederà sicuramente.
Ma una speranza c’è. Perché più riusciamo a comprendere il ghiacciaio Thwaites, più precisamente possiamo prevedere l’andamento del livello dei mari e meglio possiamo proteggerci. Lo scioglimento del ghiacciaio Thwaites non è la fine dell’umanità, ma un grido d’allarme che ci esorta a cambiare la nostra vita. Ora.
Qualche giorno più tardi, Eisen ci manda per email una slide che mostra sempre alle sue conferenze. Riporta una citazione di Anthony Leiserowitz, ricercatore all’università di Yale, negli Stati Uniti, che ha cercato di riassumere il cambiamento climatico in cinque frasi: It’s real. It’s us. Experts agree. It’s bad. There’s hope. È reale. È colpa nostra. Gli esperti sono d’accordo. È grave. C’è speranza. E la speranza, spiega Eisen, sta nella possibilità di reagire adesso per evitare conseguenze ancora peggiori. ◆sk
Christof Gertsch è un reporter del quotidiano svizzero Tages Anzeiger e del suo supplemento, Das Magazin
Mikael Krogerus è un reporter freelance finlandese. Collabora con diversi giornali svizzeri e tedeschi
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Questo articolo è uscito sul numero 1493 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati