È il 1948. Il proibizionismo non c’è più, e l’alcol è di nuovo un prodotto di consumo. È evidente dal meeting annuale dell’azienda di distillazione Seagram, una follia itinerante che tocca undici città progettata per aumentare le vendite. Non si è badato a spese: c’è uno spettacolo teatrale di due ore, con attori professionisti, sulla vita di un venditore di whisky. Ci sono bellissime mostre nell’atrio e si beve gratis. Il vero punto forte è la presentazione, anche se definire così il Vitarama della Seagram è riduttivo. È un’esperienza: centinaia d’immagini del processo di distillazione, con colonna sonora, proiettate su cinque schermi di tredici metri per cinque. “È composta da immagini, ma non è statica”, commenta ammirato uno dei presenti. “L’effetto complessivo è di un’estrema magnificenza”.
Ispirato a una mostra della Eastman Kodak all’esposizione universale del 1939, il Vitarama è la prima presentazione audiovisiva mai usata a scopo pubblicitario. E non sarà l’ultima. Alla fine degli anni quaranta l’uso di strumenti multimediali era una novità. Ma all’inizio degli anni sessanta quasi tutte le aziende con budget pubblicitari sostanziosi usavano apparecchiature multimediali – proiettori da 16 millimetri, proiettori per diapositive, pellicole e lucidi – nei corsi di formazione, per promuovere le vendite, per le pubbliche relazioni e anche nella comunicazione interna. Molte avevano i loro specialisti multimediali, che erano sia intrattenitori sia tecnici, perché anche se le presentazioni hanno la fama di essere noiose, quando sono fatte bene sono uno spettacolo. Il mondo degli affari lo sa. Dai tempi del Vitarama le aziende hanno sfruttato il potere suggestivo delle immagini per vendere le loro idee al mondo.
È il 1987. Il rumore del proiettore è assordante. Ma non importa, perché lo champagne scorre a fiumi e la musica è a tutto volume. Ci sono 2.500 vip che assistono a un’operetta sui viaggi di lusso. Sul palco ci sono un coro enorme, l’intera filarmonica di Stoccolma e cinquanta ballerini e mimi che svolazzano intorno a un paio di Saab 9000Cd. Dietro di loro le immagini mozzafiato di dettagli cromati, sedili in pelle e strade vuote danzano su uno schermo alto otto metri. Le foto sono tutte analogiche: quasi settemila diapositive, disposte con cura nelle griglie di ottanta proiettori Kodak. Le presentazioni non saranno mai più grandiose di così.
Sceneggiatura e colonna sonora
Prima di PowerPoint, e molto prima dei proiettori digitali, regnavano le diapositive da 35 millimetri. Erano più grandi, più chiare e meno costose da produrre rispetto alle pellicole da 16 millimetri, e più colorate e ad alta risoluzione rispetto alle videocassette. Erano l’unico mezzo per le presentazioni a effetto offerte da amministratori delegati e dirigenti alle riunioni di azionisti, dipendenti e venditori. Conosciute nel settore come presentazioni “multi-immagine”, richiedevano un piccolo esercito di produttori, fotografi e personale di produzione.
Innanzitutto, l’intero progetto doveva essere scritto: servivano una sceneggiatura e la colonna sonora. Le immagini erano selezionate da una raccolta, si organizzavano servizi fotografici, si producevano animazioni ed effetti speciali. Un tecnico in guanti bianchi sviluppava, montava e spolverava ogni diapositiva prima di collocarla nel supporto girevole. Migliaia di comandi erano inseriti nei computer che le controllavano, e poi testati e ritestati. Perché i computer si bloccano, le lampadine dei proiettori si bruciano, i supporti girevoli s’inceppano.
“Quando pensi a tutte le macchine, a tutti i collegamenti, a tutti i diversi pezzi, è un miracolo che queste cose funzionassero”, dice Douglas Mesney, un fotografo commerciale la cui azienda, la Incredible Slidemakers, ha prodotto il lancio della Saab con ottanta proiettori. Ora che ha 77 anni ed è in pensione ha deciso di archiviare l’ormai dimenticato business delle diapositive. All’inizio degli anni settanta aveva deciso di dedicarsi alla produzione di presentazioni multi-immagine dopo aver visto un impressionante allestimento a sei schermi al New York boat show del 1972. Aveva scattato servizi per Penthouse e alcune riviste automobilistiche, e ogni tanto si portava dietro uno o due proiettori Kodak per vendere i suoi servizi alle agenzie pubblicitarie. “All’improvviso vedi sei proiettori, capisci quello che possono fare, e dici: santo cielo!”, ricorda.
Sei proiettori erano solo l’inizio. All’apice della carriera di Mesney, le sue presentazioni richiedevano fino a cento proiettori montati insieme in modo vertiginoso. Con più dispositivi puntati verso lo stesso schermo era possibile creare panorami senza soluzione di continuità e animazioni complesse, il tutto sincronizzato e trasferito su nastro. Anche se il rischio di una catastrofe era sempre alto, le sue presentazioni abbagliavano il pubblico e facevano sembrare giganti i dirigenti aziendali. Tra i clienti di Mesney c’erano l’Ikea, la Saab, la Kodak e la Shell. Aveva budget di centinaia di migliaia di dollari.
Nel settore multimediale, comunque, non erano nulla: le più grandi aziende di allestimenti audiovisivi, come la Carabiner International, chiedevano fino a un milione di dollari per organizzare le riunioni aziendali con spettacoli di luci laser, numeri di danza e talenti come Hall & Oates, gli Allman Brothers e perfino i Muppets. “Per me è stato come seguire un gruppo rock, ma non sono mai salita sul loro autobus”, spiega Susan Buckland, una programmatrice di proiezioni di diapositive che ha trascorso la maggior parte della sua carriera dietro uno schermo della Carabiner.
Dalla sua costituzione nel 1976 alla metà degli anni ottanta, l’Association for multi-image, un’associazione di categoria dei produttori di diapositive, è cresciuta fino ad avere cinquemila iscritti. Al suo apice il settore occupava ventimila persone e lavorava per diversi festival e quattro riviste aziendali. Nel 1980 una di queste pubblicò un ritratto di Mesney. Quando gli chiesero quale sarebbe stato, secondo lui, il futuro delle diapositive, rispose: “Potremmo guadagnare una fortuna o chiudere i battenti nel giro di un anno”. Non aveva torto.
All’epoca si contendevano il mercato circa trenta produttori di dispositivi elettronici per la programmazione di diapositive. Per soddisfare la domanda, la tecnologia si era evoluta rapidamente, passando da strumenti di dissolvenza manuale e sistemi di controllo elementari, programmati su nastri di carta perforati e poi su audiocassette, a computer dedicati al controllo delle diapositive, come l’Avl Eagle I, che poteva gestire trenta proiettori contemporaneamente. Dotato di un software per l’elaborazione dei testi e la contabilità, era un vero e proprio computer aziendale, tanto che la Eagle, l’azienda che lo produceva, quando si staccò dalla casa madre, l’Audio Visual Labs, nei primi anni ottanta, diventò una delle startup informatiche più promettenti della Silicon valley. Fu quotata in borsa nell’estate del 1983, rendendo multimilionario da un giorno all’altro il suo presidente, Dennis R. Barnhart.
Poche ore dopo l’arrivo in borsa, Barnhart lanciò la sua nuovissima Ferrari rosso ciliegia attraverso un guardrail vicino alla sede dell’azienda a Los Gatos, in California, precipitò in un burrone e morì. L’industria delle diapositive avrebbe presto fatto la stessa fine.
A Mesney piace dire che se non hai mai visto una presentazione, non la vedrai mai più. Le macchine per proiettarle sono state tutte demolite. Le diapositive raramente sono state conservate. Di tanto in tanto si ritrovano in un archivio alcune scatole con un vecchio “modulo” multi-immagine, che a volte non è neanche danneggiato. Ma fatta eccezione per alcuni collezionisti e programmatori in pensione, oggi pochi sanno come restaurare e inscenare presentazioni multi-immagine.
Lo statistico Edward Tufte sosteneva che il disastro dello shuttle Columbia del 2003 fosse dovuto a una slide di PowerPoint sbagliata
Agli ex professionisti del settore questo dispiace molto. “Siamo tutti devastati dal fatto che nessuno dei moduli sia sopravvissuto”, dice Buckland. “Fondamentalmente non ho un passato, perché non posso raccontarlo”. Tutto quel settore, che costituiva un’inaspettata intersezione tra arte analogica e alta tecnologia, è nato e morto in poco più di vent’anni.
Le presentazioni, come il porno, hanno sempre spinto in avanti la tecnologia. Ai tempi delle multi-immagini, produttori come Mesney hanno portato la diapositiva al massimo delle sue possibilità, usando ogni strumento disponibile per creare presentazioni sempre più grandiose. Mesney afferma di aver stabilito il record di velocità con una presentazione di tre minuti e 2.400 immagini. Anche alla massima velocità, però, le diapositive sono statiche, mentre i computer che le controllavano non lo erano, e non sarebbe passato molto tempo prima che si evolvessero al di là del mezzo.
“A quei tempi i computer erano abbastanza veloci da dire alle diapositive cosa fare, ma non abbastanza da creare le immagini stesse”, spiega Steven Michelsen, un ex programmatore di diapositive che restaura ed esegue vecchie presentazioni multi-immagine nel suo garage del Delaware. “Ci sarebbero voluti altri dieci o quindici anni prima che si riuscisse a gestire una presentazione direttamente dal computer e avere immagini degne di essere guardate”, aggiunge.
L’ultimo proiettore di diapositive è stato realizzato nel 2004. È stato firmato all’interno dagli operai della fabbrica e dai dirigenti della Kodak prima che l’unità fosse consegnata allo Smithsonian institute. Ci sono stati brindisi e discorsi, ma ormai si trattava di necrologi, perché PowerPoint si era già mangiato il mondo.
Un cavo video
L’hotel Regina, a Parigi, è una meraviglia in stile liberty affacciata sul giardino delle Tuileries e sul Louvre. Ma in questo giorno del 1992 le sue sale riunioni sono state allestite con tecnologie video avanzate. Il proiettore a colori in fondo alla stanza, delle dimensioni di un piccolo frigorifero, costa più di centomila dollari e dopo un’ora si riscalda. Una squadra di tecnici ha passato la maggior parte delle ultime 48 ore a risolvere problemi per assicurarsi che nulla vada storto quando entrerà nella sala Robert Gaskins, l’ideatore del nuovo software chiamato PowerPoint 3.0.
Dopo aver raggiunto il leggio con il suo computer portatile, Gaskins prende un cavo video, lo collega e mostra per la prima volta qualcosa che da allora sarà usato miliardi di volte: una presentazione video a colori, eseguita direttamente da un portatile. Il pubblico, in gran parte dipendenti della Microsoft provenienti da tutta Europa, impazzisce. “Avevano capito subito come sarebbe stato il futuro delle loro presentazioni”, scriverà in seguito Gaskins. “Ci fu un applauso assordante”.
Oggi è difficile immaginare un applauso assordante per una presentazione PowerPoint, quasi quanto immaginare qualcuno, tranne Gaskins, in piedi davanti a quel leggio che inaugura l’epoca di PowerPoint. Le presentazioni ce le aveva nel sangue. Suo padre dirigeva un’azienda di audiovisivi e le vacanze della famiglia di solito includevano una visita alla fabbrica Eastman Kodak. Durante i suoi studi universitari a Berkeley aveva trafficato con la traduzione automatica e codificato haiku generati al computer. Poi era andato a cercare fortuna nella Silicon valley, prima di completare il suo triplo dottorato di ricerca in inglese, linguistica e informatica. Ma aveva portato con sé un profondo amore per le discipline umanistiche.
Il suo team era composto da poliglotti che la pensavano come lui, tra cui un numero sproporzionatamente alto di donne in ruoli tecnici. Gaskins aveva deciso che i suoi uffici – all’epoca l’unica divisione della Microsoft nella Silicon valley – ospitassero una collezione d’arte degna di un museo. Gli ideatori di PowerPoint trascorrevano le loro giornate tra le opere di Frank Stella, Richard Diebenkorn e Robert Motherwell.
All’apice della carriera di Mesney, le sue presentazioni richiedevano fino a cento proiettori montati insieme in modo vertiginoso
La proposta di Gaskins per la prima versione di PowerPoint risale al 1984, quando era vicepresidente per lo sviluppo del prodotto alla startup Forethought. Era un manifesto sotto forma di elenco puntato. Raccontava l’ormai sonnolento e in gran parte sconosciuto settore delle presentazioni aziendali, un mercato da 3,5 miliardi di dollari, e il suo enorme bisogno di slide (diapositive, il termine indica anche le schermate di una presentazione in PowerPoint) chiare ed efficaci. Elencava le nuove tendenze tecnologiche: stampanti laser, grafica a colori, software wysiwyg (what you see is what you get, quello che vedi è quello che ottieni, possibilità di comporre pagine di stampa o web senza conoscere il linguaggio di programmazione), tutte soluzioni che prospettavano un mercato emergente delle presentazioni preparate al computer.
Era un documento lungimirante. Gaskins aveva scritto in corsivo solo un punto: “Vantaggi per l’utente, permette all’autore del contenuto di controllare la presentazione”. Era la sua intuizione più importante. Le prime due versioni di PowerPoint furono create per permettere ai dirigenti di produrre i propri lucidi e diapositive da 35 millimetri, invece di lasciare il lavoro alle loro segretarie o a un ufficio specializzato. “Negli anni cinquanta, sessanta e all’inizio degli anni settanta, il flusso di informazioni era limitato”, spiega Sandy Beetner, ex amministratrice delegata della Genigraphics, un’azienda a lungo leader del settore della grafica di presentazione professionale. I suoi clienti erano soprattutto multinazionali e agenzie governative con le risorse per produrre diapositive con grafici a colori e immagini tridimensionali. Tutti gli altri si limitavano a usare lucidi e parole. “Prima di PowerPoint”, dice Beetner, “le persone comunicavano in bianco e nero. In quel modo si perdevano troppe cose”.
Beetner dirigeva gli uffici della rete nazionale della Genigraphics, situati nelle principali città statunitensi e attivi 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, grazie ad artisti grafici capaci di produrre e stampare diapositive. L’azienda era così vitale per la cultura delle presentazioni che Gaskins negoziò un accordo per rendere la Genigraphics il servizio ufficiale di produzione di diapositive da 35 millimetri per PowerPoint 2.0. Il comando del menu “Invia alla Genigraphics” restò integrato nel software fino al 2003. Questo, per inciso, succedeva più o meno nello stesso periodo in cui la Kodak smetteva di produrre i proiettori Carousel.
Gaskins lasciò la Microsoft nel 1993 e si trasferì a Londra. Sarebbe tornato negli Stati Uniti dieci anni dopo, quando PowerPoint era diventato il simbolo delle stupefacenti indegnità della vita d’ufficio: un articolo uscito sul New Yorker nel 2001 lo definiva “un software che imponi agli altri”. Lo statistico Edward Tufte sosteneva che il disastro dello shuttle Columbia del 2003 fosse dovuto a una slide di PowerPoint sbagliata. Il software di Gaskins, sosteneva Tufte, produce incessantemente presentazioni sequenziali, gerarchiche, piene di slogan, iperdettagliate, piene di “spazzatura” e prive di reale significato. Non c’è da stupirsi se le case di software lo adoravano.
Tentativi scadenti
Gaskins è d’accordo, non da ultimo perché la madre di Tufte, la studiosa del rinascimento Virginia Tufte, gli ha fatto da mentore quando era uno studente universitario del dipartimento di inglese all’università della California del Sud. In una riflessione scritta per i vent’anni dal lancio di PowerPoint, Gaskins ha riconosciuto che “sempre più spesso i discorsi aziendali e accademici sembrano tentativi scadenti di presentazioni pubblicitarie”, un fenomeno per il quale ha incolpato sia “la crescente mancanza di gusto” sia lo stesso PowerPoint, uno strumento così potente da far sparire tutti i sistemi preesistenti. Non tutto è una presentazione pubblicitaria, né dovrebbe esserlo.
Ma PowerPoint ha reso più semplice aggiungere effetti multimediali alle presentazioni informali, permettendo agli utenti comuni di prendere decisioni stilistiche un tempo riservate ai professionisti. Per parafrasare uno dei primi annunci pubblicitari di PowerPoint: ora la persona che fa la presentazione l’ha anche creata. Che questa persona non sia sempre particolarmente all’altezza di farlo non sembra avere alcuna importanza.
Quello che conta è che le presentazioni non sono più riservate alle riunioni di fine anno e alle grandi idee degne dell’impegno e dei soldi necessari per preparare le diapositive a colori. “Il cambiamento delle informazioni e del pubblico provocato da PowerPoint è stato incredibile”, afferma Beetner, la cui azienda è sopravvissuta producendo modelli di PowerPoint e ClipArt. “Ha aperto le porte a tutti in modo straordinario e abbastanza rapido. Non c’è uno studente al mondo, a nessun livello, che non abbia visto una presentazione PowerPoint”. In effetti si usa questo software anche nei sermoni religiosi, ai funerali e ai matrimoni. Nel 2010 la Microsoft annunciò che PowerPoint era stato installato su più di un miliardo di computer in tutto il mondo.
A questi livelli il suo impatto sul modo in cui il mondo comunica è stato incommensurabile. Ma c’è qualcosa che può essere misurato: la Microsoft è cresciuta di dieci volte negli anni in cui Gaskins ha diretto la sua Graphics business unit, e da allora è cresciuta di quindici volte. Le aziende tecnologiche sono esplose. E così anche le loro grandi presentazioni, che non si tengono più a porte chiuse. Sono eventi a cui oggi assistono – volentieri e con entusiasmo – consumatori di tutto il mondo. Nessuno deve più preoccuparsi che i contenitori di diapositive si inceppino, ma le cose vanno ancora in tilt, dalle versioni dimostrative di una tecnologia piene di errori alla teatralità fuori luogo.
Quando tutto funziona, una buona presentazione può convincere i mercati e creare una buona reputazione. Naturalmente questa particolare evoluzione non è stata un’opera esclusiva della Microsoft. Perché forse la presentazione aziendale più memorabile di tutti i tempi – l’annuncio dell’iPhone fatto da Steve Jobs al Macworld del 2007 – non fu realizzata con PowerPoint, ma con Keynote. ◆ bt
Claire L. Evans è una scrittrice e musicista statunitense che si occupa di ecologia, tecnologia e cultura. Questo articolo sarà pubblicato anche su technologyreview.it, il sito dell’Mit Technology Review Italia.
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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 65. Compra questo numero | Abbonati