L’anno scorso una delle ipotesi più comuni sulle cause della depressione è stata messa in discussione. “Uno studio sugli antidepressivi getta seri dubbi sui farmaci usati da otto milioni di persone”, ha scritto il quotidiano britannico The Times a luglio del 2022. Titoli altrettanto allarmanti sono apparsi su diversi giornali. I metodi per curare la depressione, uno dei disturbi più gravi nelle società di tutto il mondo, sono da tempo messi in discussione. Ma ora una ricerca dimostra che alla base del funzionamento del Prozac e di altri antidepressivi comuni c’è un’ipotesi ormai superata sulle cause di questo problema.
Finora si pensava che la maggior parte degli antidepressivi funzionasse ripristinando i livelli del neurotrasmettitore serotonina, compensando lo “squilibrio chimico” alla base della depressione. Ma dal nuovo studio è emerso che, a differenza di quanto ci è stato detto per decenni, in realtà la depressione non è causata da un basso livello di serotonina. È stato un duro colpo per le tante persone che sentono di dipendere dagli antidepressivi. E ha sollevato anche una domanda importante: se non è il basso livello di serotonina, allora cosa provoca la depressione? Questo non è l’unico mistero che la circonda. Non sappiamo neanche come funzionano le terapie della parola e quelle elettroconvulsivanti, né comprendiamo l’influenza della genetica e dello stress sulla salute mentale.
Nell’agosto del 2022 negli Stati Uniti è stato approvato l’Auvelity, un altro antidepressivo che si lega al recettore del glutammato
Eppure, nonostante queste incertezze, ci sono alcuni progressi sorprendenti. Di recente, sono diventati disponibili due nuovi trattamenti, e ce ne sono altri in cantiere che offrono risultati promettenti. “La ricerca scientifica è più avanzata di quanto sostiene quello studio”, dice Carmine Pariante del King’s College di Londra. “La situazione non è così scoraggiante come sembra”.
Le due caratteristiche principali della depressione sono l’umore cupo e l’incapacità di trarre piacere dalle normali attività. È spesso accompagnata da una serie di sintomi fisici, come la perdita di appetito, l’affaticamento e l’insonnia. “È la sensazione di essere stanchi e avviliti, di non voler essere dove ci si trova”, dice Rachel Roodhardt, una scrittrice di libri per l’infanzia di Folkestone, nel Regno Unito, che prende antidepressivi da vent’anni. L’idea che tutto questo sia causato da uno squilibrio chimico nel cervello fu formulata nel 1960, dopo la scoperta che in alcune persone una cura per la pressione bassa innescava sbalzi di umore. Il farmaco usato riduceva la serotonina e altre due sostanze chimiche del cervello, la noradrenalina e la dopamina. Furono quindi sviluppati antidepressivi che alzavano i livelli di una, due o tutte e tre le sostanze. Uno dei primi fu il Prozac, che blocca la rimozione della serotonina dalle sinapsi, i collegamenti tra le cellule cerebrali, e per questo fu definito un inibitore della ricaptazione selettiva della serotonina, o Ssri.
Il grande successo commerciale del Prozac negli anni novanta consolidò la fama della serotonina come “sostanza chimica del benessere”. In seguito l’ipotesi fu rafforzata da prove genetiche, secondo le quali le persone depresse hanno più probabilità di avere la variante di un gene che produce una versione più efficiente di un enzima in grado di rimuovere la serotonina dalle sinapsi, lo stesso enzima bloccato dagli Ssri. Purtroppo, non tutti i fatti confermano questa teoria. Man mano che la capacità di sequenziamento genetico aumentava e si conducevano studi più ampi e rigorosi, è emerso che la nostra innata propensione alla depressione non è governata da un gene, ma da più di cento. E la cosa imbarazzante è che il responsabile dell’enzima che rimuove la serotonina non è neanche uno di questi. Oggi, secondo buona parte degli scienziati, quest’enzima non ha niente a che fare con il rischio di depressione.
Un altro colpo alla tesi della serotonina è arrivato da nuove analisi degli studi clinici sugli antidepressivi. Già dalla fine degli anni novanta era stato dimostrato che la differenza tra gli effetti dei farmaci e l’effetto placebo è minima. Per questo, dopo la pubblicazione dello studio dell’anno scorso, la sua autrice principale, Joanna Moncrieff, dell’University college di Londra, ha dichiarato che gli antidepressivi potrebbero essere solo una sorta di placebo. Il tema principale dell’articolo di Moncrieff e dei suoi colleghi, tuttavia, è la mancanza di prove a sostegno dell’ipotesi dello squilibrio chimico. È difficile misurare la serotonina presente nel cervello, ma possiamo misurarne i livelli nel liquido cerebrospinale di una sostanza chimica in cui si scompone. Come ha riportato l’équipe londinese, la maggior parte degli studi non vede livelli più bassi di questo composto nelle persone depresse. I risultati non sono stati una sorpresa per gli psichiatri. Già da qualche anno, il sito web del Royal college of psychiatrists del Regno Unito sostiene che la teoria dello squilibrio chimico è semplicistica.
Alcune delle persone che assumono antidepressivi hanno trovato la notizia inquietante. “Ho avuto la sensazione che tutto ciò che mi era stato detto nel corso degli anni fosse sbagliato”, dice Roodhardt. Ora ha deciso di ridurre la dose di farmaco che assume con l’aiuto del suo medico curante, anche grazie all’analisi di Moncrieff. Polly Arrowsmith, una piccola imprenditrice di Londra, invece, non si preoccupa. “Gli antidepressivi mi fanno sentire meglio e più felice e mantengono stabile il mio umore. Penso che li userò per tutta la vita”, dice.
Non si dovrebbe concludere che gli antidepressivi non funzionano, dice Pariante. Il consenso generale tra i medici è che, anche se non sono una panacea, possono offrire un aiuto reale. In media i loro effetti sono solo un po’ superiori a quelli osservati con le compresse placebo, ma non possiamo ignorare il fatto che alcune persone migliorano notevolmente, mentre altre non ottengono benefici, dice Pariante. E chi non trae vantaggio dal primo farmaco che prova può avere risultati migliori con il secondo o il terzo. “Le prove dell’efficacia degli antidepressivi sono schiaccianti”, afferma.
Inoltre, abbiamo ancora motivi per pensare che la serotonina sia in qualche modo coinvolta nella depressione. Per esempio, se si abbassa artificialmente il livello di serotonina nelle persone che sono state depresse, si può innescare temporaneamente un abbassamento dell’umore. Non c’è dubbio che gli Ssri aumentano rapidamente i livelli di serotonina all’interno delle sinapsi. Forse questo provoca ulteriori cambiamenti nel cervello che contribuiscono ad alleviare la depressione, anche se a far scattare i sintomi non è stato il basso livello di quel neurotrasmettitore, dice Pariante. “Ciò non toglie che gli antidepressivi possano comunque modificare il funzionamento del cervello alzando i livelli di serotonina”.
A questo punto sorge una domanda: se la sua causa non è lo squilibrio chimico, cos’altro induce la depressione? Un’ipotesi è che sia provocata da un’infiammazione, un’attivazione del sistema immunitario. Di solito ci accorgiamo di un’infiammazione quando ci feriamo: le cellule danneggiate rilasciano sostanze chimiche che innescano una serie a catena di attività del sistema immunitario nel sito della lesione per uccidere eventuali microbi invasori. Il gonfiore e il dolore ci spingono a far riposare la parte lesa. Un’infiammazione può anche essere “sistemica”, quando ci sono livelli elevati di sostanze chimiche infiammatorie circolanti nel sangue. Gli animali a cui sono stati iniettati alcuni di questi composti si comportano come se fossero “ammalati”, cioè restano rannicchiati in un angolo della loro gabbia. È come se l’infiammazione sistemica provocasse il bisogno di riposare e proteggere tutto il corpo.
Nel caso della depressione, l’idea è che ci potrebbero essere livelli leggermente più alti di attività delle cellule immunitarie nel sangue e che le sostanze chimiche infiammatorie raggiungerebbero il cervello. Senza dubbio, alcune persone che soffrono di depressione hanno livelli più elevati di particolari sostanze chimiche immunitarie, come una proteina chiamata C-reattiva, o Crp. È curioso il fatto che alcuni Ssri e altri farmaci antidepressivi sembrano sedare l’infiammazione.
Un circolo vizioso
Comunque, è troppo presto per riporre tutte le nostre speranze sulla tesi dell’infiammazione. Solo una persona depressa su tre ha livelli di Crp più alti, dice Edward Bullmore, dell’università di Cambridge, che ha scritto un libro sull’argomento intitolato La mente in fiamme (Bollati Boringhieri 2019). Ma queste persone potrebbero beneficiare dell’effetto di farmaci antinfiammatori già in uso per altre malattie. Finora, gli studi su questi prodotti per la depressione hanno dato risultati contrastanti, ma nessuno ha ancora effettuato il test chiave reclutando solo persone con alti livelli di Crp. “Serve un esperimento per verificare se iniettando un farmaco antinfiammatorio in persone che soffrono sia di depressione sia di infiammazione, quel farmaco funziona da antidepressivo”, dice Bullmore.
Gli effetti dei farmaci sono solo un po’ superiori a quelli dei placebo, ma non si può ignorare il fatto che per qualcuno funzionano
Un tipo di ricerca ancora più fruttuoso è quello sulla chetamina, un anestetico a volte usato anche a scopo ricreativo. Come gli Ssri, influisce sui segnali di un neurotrasmettitore, ma diverso da quello della serotonina, chiamato glutammato. “Il glutammato è il sistema di segnalazione più comune del cervello”, afferma John Krystal, dell’università di Yale. La sua idea di testare la chetamina come antidepressivo si basa su alcuni studi in base ai quali negli animali altri farmaci che si legano ai normali recettori per il glutammato sembrano ridurre la depressione. Gli studi condotti su soggetti umani hanno dimostrato che un’infusione di chetamina riduce rapidamente i sintomi della depressione, e che la maggior parte dei pazienti deve ripetere il trattamento ogni una o due settimane.
La chetamina di solito è somministrata via flebo ed è disponibile solo in alcuni centri specializzati disposti a prescriverla per un uso diverso da quello descritto nella sua licenza. Ma una maggiore captazione può essere ottenuta anche usando una forma di chetamina chiamata eschetamina, che viene spruzzata nel naso. Negli Stati Uniti quest’uso è stato autorizzato nel 2019, ma nel Regno Unito non è riconosciuto dal servizio sanitario nazionale. Nell’agosto del 2022 negli Stati Uniti è stato approvato l’Auvelity, un altro antidepressivo che si lega al recettore del glutammato, questa volta in forma di compresse.
È troppo presto per dire per quante persone funzionerà questo nuovo tipo di antidepressivo. Alcuni psichiatri temono che possa creare dipendenza, come nel caso della chetamina a scopo ricreativo. Ma il fatto che questi farmaci funzionino ci dice qualcosa di utile? Purtroppo, come per gli Ssri, il meccanismo della chetamina non è chiaro. I suoi rapidi effetti, che si verificano nelle prime ore dopo l’assunzione, sembrano derivare dal suo legame con il recettore del glutammato. Ma gli studi sugli animali fanno pensare che abbia anche effetti più duraturi sulla chimica del cervello, tra cui l’aumento del rilascio del fattore neurotrofico cerebrale, o Bdnf, che aiuta le cellule del cervello a sviluppare nuovi rami e a creare nuove sinapsi in risposta all’apprendimento, un processo noto come neuroplasticità.
La mancanza di neuroplasticità è stata proposta come un’altra possibile spiegazione della depressione. L’idea è che lo stress prolungato provochi una riduzione dei livelli di Bdnf, che a sua volta riduce la plasticità del cervello. Si innesca così un circolo vizioso in cui la compromissione dell’apprendimento implica che le persone restano bloccate in modelli di comportamento nocivi, come rimuginare su ricordi traumatizzanti o tristi. A sostegno di questa ipotesi ci sono alcuni studi sugli animali, da cui è emerso che nella corteccia cerebrale dei roditori in un ambiente stressante si riscontrano meno rami neuronali e sinapsi, una carenza che può essere invertita con l’assunzione della chetamina. Ulteriori studi sugli animali suggeriscono che anche gli Ssri favoriscono la neuroplasticità, come fa la terapia elettroconvulsivante, in cui è applicata una corrente elettrica al cervello, un trattamento però riservato alle persone con le forme più gravi di depressione. Anche se la maggior parte di questi risultati proviene dalle ricerche sugli animali, alcuni studi hanno dimostrato che gli Ssri migliorano la capacità di apprendimento delle persone nelle attività di laboratorio. Non spiegano ancora, tuttavia, perché alcune persone trovano giovamento con gli Ssri e altre no.
La terapia psichedelica
Anche alcune terapie della parola potrebbero confermare la tesi della neuroplasticità. La terapia cognitivo-comportamentale, per esempio, incoraggia esplicitamente le persone ad apprendere nuovi modelli di comportamento in risposta a situazioni stressanti e a disimparare quelli dannosi. Questo spiegherebbe perché i farmaci e le terapie della parola spesso funzionano meglio in combinazione tra loro: gli antidepressivi rendono il cervello più malleabile, mentre la persona impara modelli di comportamento più utili. In alcuni piccoli studi sugli esseri umani ancora in fase iniziale, certe droghe psichedeliche, come la psilocibina, hanno dato segno di agire positivamente contro la depressione, e sembrano favorire la neuroplasticità, almeno negli animali.
Inoltre, stimolano direttamente un sottotipo di recettore della serotonina, oltre a causare un aumento dei livelli di dopamina. Quindi questi farmaci sembrano avere molteplici effetti, ma non è chiaro quale incida di più. Questo non riguarda tutti. “Dal punto di vista clinico, non m’interessa sapere come funzionano le cose, ma se funzionano”, dice James Rucker, del King’s college di Londra, che sta collaborando ai test su un forma sintetica di psilocibina.
Quindi, la neuroplasticità è alla base della nuova grande teoria della depressione? Pariante pensa di no. Vede piuttosto la depressione come uno stato complesso che nasce dallo squilibrio di più sostanze chimiche cerebrali e circuiti neurali, con aspetti diversi che predominano in persone diverse. Questo spiegherebbe perché i vari trattamenti funzionano con alcune persone, ma non con altre. “Si può intervenire in diverse fasi”, dice. Ma questo significa che abbiamo bisogno di un maggior numero di studi – o di “biomarcatori” – per individuare quali farmaci o terapie sono più appropriati per i singoli individui. Già gli esami del sangue per stabilire se c’è un’infiammazione sono stati considerati un modo per guidare gli psichiatri nella scelta degli antidepressivi e della loro eventuale combinazione con farmaci antinfiammatori. Altri biomarcatori possono emergere da elettroencefalogrammi o scansioni cerebrali, e perfino dai dati degli smartphone sul comportamento.
Il National institute of mental health statunitense, che è uno dei maggiori finanziatori della ricerca sulla salute mentale del mondo, sta progettando studi che mettano a confronto tra loro questi diversi biomarcatori. “Stiamo chiedendo ai ricercatori di prendere ipotesi confermate a livello accademico e di metterle alla prova”, afferma il direttore dell’istituto, Joshua Gordon. “Penso che potremmo usare meglio i trattamenti che abbiamo, se ne comprendessimo il meccanismo”.
Forse questo non è di grande conforto per chi sta lottando con la depressione. Per ora i medici tendono a prescrivere una serie di farmaci procedendo per tentativi ed errori, e possono volerci anche due mesi per verificare se un trattamento funziona o meno. Ma in futuro, i biomarcatori potrebbero essere usati per diagnosticare sottotipi di depressione più sensibili a determinati trattamenti. E se alcuni dei promettenti farmaci sperimentali raggiungeranno la fase clinica, i medici avranno l’imbarazzo della scelta.
“Forse non esiste un ‘meccanismo biologico’ unico della depressione”, dice Pariante. Il lato positivo è che questo ci offre molte più alternative. “È complicato”, afferma, “ma tutta la medicina è complicata”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati