Maglietta bianca e lilla, pantaloni corti e scarpe che stridono a ogni movimento, Hiroki, “due anni e nove mesi”, è quasi pronto. Sulla porta di casa la madre gli mette al collo una borraccia e un portamonete, e in mano una bandiera gialla fatta in casa. “Sei sicuro di farcela?”, gli chiede in ginocchio. La risposta di Hiroki è immediata: “Sì!”. Ma fare cosa? La spesa. Per l’esattezza camminare per un chilometro fino al supermercato, comprare del curry, dei fiori e delle frittelle di pesce, e poi tornare a casa. Tutto da solo. Il bambino volta le spalle alla madre, fa un cenno con la mano e comincia il suo viaggio. Un viaggio decisamente insolito, perché Hiroki è seguito da un’intera troupe di cameraman che filmeranno ogni suo passo per il programma tv Hajimete no otsukai, la mia prima spesa. Da trent’anni questo programma di tre ore in cui si segue un bambino o una bambina che va a fare la spesa in completa autonomia viene trasmesso due volte all’anno con grande successo: a ogni edizione il 20 per cento dei telespettatori giapponesi segue tutte le puntate. Un successo che non ha lasciato indifferente l’occidente, dato che nel 2022 il programma è arrivato su Netflix, suddiviso in episodi di sette minuti l’uno con il titolo Una giornata da grande. E come in Giappone, anche in Europa il programma è molto seguito. Ma torniamo a Hiroki.
Dopo 23 minuti di cammino lungo una strada a quattro corsie attraversata agitando la sua bandierina, il bambino arriva al supermercato. Distratto in un primo momento dai gachapon, i distributori di giocattoli chiusi in una pallina di plastica che si ottengono introducendo una moneta, il bambino si precipita tra gli scaffali e mette nel suo cestino i prodotti chiesti dalla madre. Poi si dirige verso la cassa. Tende la banconota, mette via con attenzione il resto nel portamonete, prende la spesa e rifà la strada per tornare a casa. In tutto è stato fuori più di un’ora.
Sui forum e sui social media gli spettatori occidentali commentano ogni puntata: si commuovono, si divertono, tremano di paura davanti a ogni grande strada attraversata, ma soprattutto si stupiscono di questa indipendenza e se ne preoccupano. Per un francese può sembrare da incoscienti lasciare un bambino che ha meno di cinque anni andare da solo a fare la spesa in una città tra ogni genere di pericolo: strade, automobili, estranei. Ma in Giappone non è così. Anche se alcuni bambini sono più riluttanti di altri (come si può vedere nel programma quando qualcuno esce di casa in lacrime dietro gli incoraggiamenti talvolta insistenti e colpevolizzanti dei genitori), non è raro vedere dei bambini andare a scuola con i mezzi pubblici da soli o in piccoli gruppi.
Questa autonomia è possibile grazie a diversi fattori. Il primo è l’organizzazione socio-spaziale delle città giapponesi: al di fuori delle grandi vie di comunicazione, le strade di quartiere, dette seikatsudōro, sono di solito strette e con un limite di velocità di venti o trenta chilometri all’ora. Inoltre pali elettrici e altri ostacoli che si trovano ai lati delle strade obbligano gli automobilisti a essere prudenti e a stare lontani dal ciglio della strada.
La parola agli sconosciuti
Si potrebbe pensare che l’autonomia dei bambini e delle bambine sia un’abitudine limitata alle piccole città, perché questo sistema si scontra con le dimensioni delle megalopoli. Ma non è così, come spiega Owen Waygood, docente al Politecnico di Montréal e autore di una tesi sulla mobilità indipendente dei bambini all’università di Kyoto: “L’autonomia è molto superiore nelle grandi città, perché queste limitano ancora di più la circolazione dei veicoli, e dispongono di migliori trasporti pubblici per le destinazioni frequentate dai bambini come i campi sportivi, le strutture ricreative, le biblioteche e le scuole. Inoltre, nelle grandi città ci sono più destinazioni raggiungibili a piedi o in bicicletta. Un altro punto non trascurabile è la presenza di più persone intorno ai bambini, cosa che aumenta la sicurezza degli spazi pubblici”.

Questa indipendenza è possibile anche grazie al rapporto che hanno i giapponesi con la comunità. “In Giappone i legami tra gli abitanti sono molto forti, perché sanno che devono essere loro a garantire la sicurezza e il benessere della loro città e dei loro figli”, spiega Satoshi Nakao, docente al dipartimento di gestione urbana dell’università di Kyoto. “Per esempio quasi tutte le città giapponesi hanno dei jichikai, dei comitati di quartiere. Questo permette, attraverso varie attività, di conoscere i bambini della zona, che quindi possono spostarsi da soli in città indisturbati”. Oltre a questo profondo rapporto di vicinato, le relazioni con gli estranei sono molto più facili che in altri paesi. Mentre ai bambini francesi si dice di non rivolgere la parola agli sconosciuti, in Giappone è diverso. “Salutare qualcuno significa osservarlo”, continua Satoshi Nakao. “Il discorso è simile per gli adulti e i bambini. E poi qui salutare gli estranei è considerato come un modo per prevenire la criminalità”.
Ma questa autonomia, oltre a essere possibile grazie all’organizzazione socio-spaziale e al forte sentimento comunitario, deriva anche dal rapporto che la cultura giapponese ha con l’infanzia. “Ci si aspetta che i bambini e le bambine siano capaci di muoversi da soli”, dice Waygood. “Questa aspettativa culturale la si ritrova nella pianificazione urbana giapponese, in cui i bambini sono considerati come dei cittadini che hanno il diritto di spostarsi in assoluta sicurezza e in modo autonomo. Questo atteggiamento contrasta, per esempio, con quello nordamericano, che considera i bambini persone vulnerabili e che in qualunque settore tende più a proteggerli che a rafforzarne l’autonomia”. E le cifre sono eloquenti: in Giappone solo il 15 per cento dei tragitti settimanali si fa insieme a un genitore, mentre negli Stati Uniti si arriva al 65 per cento.
“In Giappone si insegna ai bambini fin dalla più tenera età a svolgere dei compiti, come per esempio le faccende domestiche. I bambini e le bambine sono anche lasciati da soli a casa e si incoraggia la loro autonomia di spostamento”, spiega Yuki Matsumoto, professore di psicologia presso la scuola di scienze umane dell’università Tokushima Bunri. “Succede anche fuori della sfera familiare. La scuola contribuisce a sviluppare il loro spirito d’indipendenza: gli studenti mettono a posto l’aula, puliscono i tavoli dopo i pasti. È una sorta di allenamento prima di poter applicare, una volta diventati adulti, quello che hanno imparato”.
Un posto in società
Tutto questo invita a riflettere sul modo in cui la società giapponese ha considerato i “bambini” nel corso dei secoli. Durante l’era Edo (1603-1868) i bambini erano in pratica dei “mini-adulti”, che partecipavano fin da piccoli alle attività della famiglia. L’era Meji (1868-1912) gli attribuì uno statuto particolare. Il Giappone era ormai diventato uno stato nazione moderno, dotato di un governo e di un’amministrazione centralizzata. Le diverse forme coniugali e familiari lasciarono il posto alla famiglia patrilineare.
Solo il 15 per cento dei tragitti settimanali si fa insieme a un genitore
“I bambini avevano ormai un posto nella società in quanto tali, e non più come mini-adulti. Si riconosceva l’esistenza di una fase di sviluppo specifica dell’infanzia”, spiega Aline Henninger, ricercatrice in studi giapponesi all’università di Orléans e specialista di antropologia dell’infanzia.
Nel frattempo l’istruzione diventò obbligatoria, cambiando radicalmente le dinamiche precedenti. “I bambini non potevano più lavorare per la famiglia. Molti genitori lo consideravano uno spreco di manodopera, e questo creò delle resistenze, che però scomparvero durante l’era Taishō”, spiega la ricercatrice. In effetti in quel periodo (1912-1926) i mestieri legati all’infanzia si specializzarono e la figura del precettore lasciò il posto all’insegnante; furono inoltre pubblicati dei libri illustrati per bambini, dei giocattoli e una letteratura specifica.
I tassi di scolarizzazione aumentarono, in particolare nella scuola secondaria, definendo i nuovi contorni dell’infanzia. “Il tempo dedicato alla scuola fu definito un tempo ‘infantile’, durante il quale ai bambini s’insegnavano delle cose ma gli era anche permesso giocare”.

Un altro periodo cambiò ulteriormente la situazione: il dopoguerra. Dopo il 1945 la famiglia si rinchiuse in se stessa, incentrata solo sui genitori e sui figli. Mentre la società si specializzava progressivamente nel terziario, la scuola diventava mista e obbligatoria fino a 16 anni e la scolarizzazione faceva ormai parte integrante dell’inserimento sociale e professionale. L’istruzione diventò quindi una priorità per i genitori e per lo stato, sostenuta a partire dagli anni sessanta da un periodo di crescita economica che continuò fino ai primi anni novanta. “L’istruzione diventò un mezzo per sperare in un futuro migliore per i figli”, osserva Aline Henninger.
Si configurò quindi una società competitiva basata sui diplomi come strumento di ascesa sociale, dove all’orario scolastico si aggiunsero i corsi serali puntando a un livello sempre più alto. La scuola, che inizialmente aveva liberato i bambini da obblighi faticosi, sembrava avergli teso un’altra trappola obbligandoli a raggiungere determinati risultati.
“In Giappone l’infanzia rimane strettamente legata alla scuola, e di fatto la pressione per diventare autonomi, shakaijin, cioè ‘membri della società’, è considerata molto importante”, continua l’antropologa, osservando che una dinamica simile è strettamente legata al contesto politico neoliberista che promuove i percorsi individuali e valorizza la formazione come una porta sul mondo del lavoro piuttosto che come una sorta di solidarietà di stato, intergenerazionale o tra amici. “Le scuole giapponesi, in particolare dopo la primaria, si concentrano sui voti invece che sull’apprendimento. Gli studenti sono incoraggiati a studiare per molte ore per poter entrare in un buon liceo o in una buona università, e per trovare poi un buon lavoro”, spiega il professore di psicologia Yuki Matsumoto. “Se ai ragazzi piace studiare, possono essere soddisfatti, ma non è così per tutti. Di conseguenza il sistema scolastico può diventare un fattore di futoko”. Futoko è un fenomeno che in Giappone continua ad aumentare: il rifiuto di andare a scuola per più di trenta giorni per motivi non legati alla salute o a ragioni economiche. Uno studio del ministero dell’istruzione giapponese ha osservato che nel 2023 il fenomeno riguardava 346.482 bambini, cioè il 15,9 per cento in più rispetto al 2022.
Anche se dagli anni ottanta esistono delle scuole che offrono maggiore libertà agli alunni, queste non sono una valida soluzione alternativa. “Le scuole libere o paritarie sono solo l’1 per cento delle scuole primarie”, spiega Aline Henninger. “A pagamento e non diffusi su tutto il territorio, questi istituti sono difficilmente accessibili. Per molte famiglie la scuola pubblica rimane l’unica soluzione”. Di conseguenza le assenze si allungano, e nel 2021 il 55 per cento superava i novanta giorni, con il rischio di provocare un abbandono scolastico definitivo e per i più fragili una vera e propria reclusione sociale.
Satoshi Nakao constata che la pressione sui giovani giapponesi continua ad aumentare, mentre il paese è alle prese con una crisi economica senza fine, e la relativa autonomia offerta ai ragazzi sembra ridursi di anno in anno. “L’economia giapponese si contrae, gli stipendi si riducono e le giovani generazioni sono costrette a lavorare molto, talvolta con più contratti di lavoro. Inoltre per questi ragazzi, al contrario della generazione precedente, è meno facile entrare a far parte di una comunità di quartiere”.
I legami interpersonali si sfilacciano e queste società su scala ridotta non svolgono più come prima il loro ruolo di sostegno ai genitori. “La percentuale di alunni della scuola primaria che fa la spesa si è ridotto, così come si è ridotto il numero delle loro relazioni sociali”, continua il ricercatore. I bambini e le bambine sono sempre più dipendenti dai genitori, che a loro volta non hanno più il tempo di occuparsene. “Il loro mondo finisce quindi per limitarsi alla casa e alla scuola”. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati