Undici anni fa, Jorge Mario Bergoglio usciva dalla loggia della basilica di San Pietro e si presentava al mondo. Abbiamo presto capito che il suo sarebbe stato un pontificato molto, molto diverso. E lo è stato. Eppure oggi è giusto criticare Francesco per i suoi recenti commenti a proposito della guerra in Ucraina.
In un’intervista rilasciata all’inizio di marzo, il papa ha dichiarato: “Credo che il più forte sia chi vede la situazione, chi pensa al popolo e ha il coraggio della bandiera bianca e di negoziare”. L’ufficio stampa del Vaticano ha diffuso una nota di chiarimento sottolineando che il papa aveva proposto l’immagine della bandiera bianca solo perché era stata usata dall’intervistatore. E che “il papa usa il termine bandiera bianca per indicare la tregua raggiunta con il coraggio del negoziato”. Ma la metafora della bandiera bianca è solo una parte del problema.
Ci sono altri tre dubbi sull’approccio del papa alla situazione in Ucraina. Il primo è radicale: vogliamo un papa che affronti questioni morali, non uno che sostenga la guerra o si schieri a favore di una parte. Il papa deve parlare di pace e verità etiche. Questi due compiti, però, contrastano con la necessità dell’Ucraina (pienamente giustificata) di difendersi da un’aggressione ingiusta. Il secondo problema è che gli appelli del papa per la pace spesso non tengono conto del modo in cui saranno recepiti. Il teologo Tobias Winright ha scritto su La Croix International: “Come possono sentirsi un soldato ucraino o un civile che hanno imbracciato le armi per difendere i loro concittadini quando un papa o altri condannano l’uso della forza?”. Sicuramente intaccare il morale delle truppe non era nelle intenzioni del papa, ma è una conseguenza reale. Allo stesso tempo, non c’è il minimo dubbio sul fatto che Vladimir Putin e i suoi amici sfrutteranno a fini propagandistici le parole sulla “bandiera bianca”.
Il terzo problema è il più complesso: il papa ha valutato male il peso del negoziato. Magari per certi paesi una trattativa con Putin potrebbe risultare produttiva, ma l’Ucraina non è tra questi. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj lo ha capito fin dall’inizio: di Putin non ci si può fidare. Francesco non è il primo ad aver ingenuamente pensato che il negoziato sia sempre una soluzione. Dopo il massacro della prima guerra mondiale, il premier britannico Neville Chamberlain pensava davvero di aver ottenuto “la pace per il nostro tempo” quando tornò da Monaco avendo sacrificato la Cecoslovacchia in cambio della promessa di Hitler di rinunciare a ulteriori rivendicazioni. Zelenskyj comprende quello che Chamberlain non capiva allora e che il papa non capisce oggi.
Decidere quando entrare in guerra o quando avviare un negoziato per porre fine a una guerra, così come stabilire quando i termini di un accordo sono accettabili, ha bisogno di valutazioni molto complesse. Per esempio, bisogna considerare se quei termini saranno rispettati e soppesare il costo umano e morale di una continuazione della guerra contro il costo umano e morale di una capitolazione o di un compromesso. Queste valutazioni spettano agli statisti e non ai religiosi.
Il papa, inoltre, dovrebbe tenere presente la vigorosa dichiarazione del sinodo dei vescovi della chiesa cattolica ucraina, diffusa a febbraio, che comincia con le parole del profeta Geremia: “Liberate l’oppresso dalle mani dell’oppressore”. Quegli uomini sono i pastori della chiesa in Ucraina, il cui gregge è minacciato quotidianamente da una guerra terribile. La loro testimonianza cristiana non deve essere ignorata né contrastata da una inaccurata scelta di parole durante un’intervista. Quindi, in questo anniversario della sua elezione, auguro a Francesco molti altri anni di vita e di governo. Ad multos annos. E forse molte meno interviste. ◆ as
Questo articolo è uscito sul National Catholic Reporter, una rivista progressista statunitense fondata nel 1964 che si occupa della chiesa cattolica.
Michael Sean Winters è un giornalista e saggista statunitense.