L’anno scorso ho coniato il termine enshittification, merdificazione, per descrivere il declino delle piattaforme digitali. Questa parolina oscena ha avuto molto successo: evidentemente riflette lo spirito del tempo. L’American dialect society l’ha scelta come parola dell’anno del 2023 (per questo, temo, sulla mia tomba ci sarà inevitabilmente l’emoji della cacca).
Ma cos’è la merdificazione, e perché se n’è parlato tanto? È una mia teoria che spiega in che modo internet è stata colonizzata dalle piattaforme digitali; perché si stanno tutte degradando rapidamente e completamente; perché è un fatto rilevante e cosa possiamo fare per rimediare. Siamo nel pieno di una grande merdificazione, in cui i servizi su cui facciamo più affidamento si stanno trasformando in mucchi di merda. È frustrante, demoralizzante, perfino terrificante.
Credo che il concetto di merdificazione spieghi molto bene il fenomeno, portandoci lontano dalla sfera misteriosa delle “grandi forze della storia” e accompagnandoci nel mondo materiale, fatto di specifiche decisioni prese da persone in carne e ossa. Decisioni che possiamo ribaltare e persone di cui possiamo sapere i nomi e quanto sono pericolose.
La merdificazione dà un nome al problema e propone una soluzione. Non è solo un modo per dire che “le cose stanno peggiorando”, anche se, ovviamente, si può usarla in questo senso. Per essere più precisi, però, vediamo di che si tratta. È un processo in tre stadi: all’inizio, le piattaforme tecnologiche sono al servizio degli utenti; poi cominciano a maltrattare gli utenti per soddisfare le esigenze dei clienti aziendali; quindi maltrattano i clienti aziendali per tenersi tutto il guadagno. A quel punto c’è un quarto stadio: muoiono.
Università e licei
Prendiamo Facebook, per esempio. Ha origine da un sito nato per valutare il grado di scopabilità di chi studiava ad Harvard, e da allora è solo peggiorato. Quando è stato lanciato, era accessibile solo a chi era iscritto a un’università o a un liceo statunitense. Nel 2006 fu aperto al grande pubblico. Di fatto è stato come se i suoi creatori avessero detto: sì, lo sappiamo che state usando tutti MySpace (uno dei primi social network), ma il proprietario di MySpace è un miliardario che vi spia ogni minuto che manda il padreterno. Iscrivetevi a Facebook e noi non vi spieremo mai. Venite e diteci chi vi sta a cuore a questo mondo. Questo era il primo stadio. Facebook aveva delle risorse da spendere – la liquidità dei suoi investitori – e le ha spese per i suoi utenti finali, che, di conseguenza, si sono incatenati a Facebook. Come la maggior parte delle imprese tecnologiche, Facebook ha beneficiato dell’effetto rete, che si verifica quando un prodotto o un servizio migliorano con l’aumentare degli utenti. Vi siete iscritti a Facebook perché c’erano i vostri amici, poi altri l’hanno fatto perché c’eravate voi.
Facebook ha beneficiato anche di un alto costo di trasferimento, che consiste in tutto ciò a cui bisogna rinunciare se si abbandona un prodotto o un servizio. Nel caso di Facebook erano tutti gli amici che seguivate e che vi seguivano. In teoria, avreste potuto semplicemente andare tutti da un’altra parte; in pratica, eravate bloccati dal problema di agire collettivamente.
È difficile convincere tante persone a fare la stessa cosa nello stesso momento. Gli utenti di Facebook si tenevano in ostaggio a vicenda, incatenandosi l’un l’altro alla piattaforma. Facebook ha sfruttato questa situazione, riprendendosi quello che aveva dato agli utenti e ridistribuendolo a due gruppi di clienti aziendali: gli inserzionisti pubblicitari e gli editori. Agli inserzionisti ha detto: vi ricordate quando abbiamo raccontato a quei fessi che non li avremmo spiati? Ecco, invece li spiamo. E vi venderemo l’accesso ai loro dati, permettendovi di individuare il giusto target dei vostri annunci pubblicitari in modo granulare. Pubblicare i vostri annunci ci costa quattro soldi, e non baderemo a spese per fare in modo che quando pagate, qualcuno li veda.
Agli editori, invece, Facebook ha detto: vi ricordate quando abbiamo raccontato a quei fessi che gli avremmo mostrato solo le cose che volevano vedere? Come no. Caricate un breve estratto dal vostro sito, aggiungete un link e noi lo spareremo nelle pupille di gente che non l’ha mai chiesto. Vi offriamo gratis un imbuto di traffico che vi porterà milioni di utenti che potrete monetizzare a vostro piacimento.
E così, anche gli inserzionisti e gli editori si sono incatenati alla piattaforma.
Utenti, inserzionisti, editori: tutti incatenati. I tempi, quindi, erano maturi per il terzo stadio della merdificazione: togliere a tutti e dare agli azionisti di
Facebook. Per gli utenti significava veder ridotta a dosi omeopatiche la quantità di contenuti provenienti dagli account seguiti e veder riempito il vuoto così creato con annunci pubblicitari e contenuti a pagamento degli editori. Per gli inserzionisti significava prezzi più cari e meno controlli antifrode, cioè pagare molto di più per annunci che avevano molte meno probabilità di essere visti. Per gli editori significava che gli algoritmi riducevano la diffusione dei loro post, a meno che non contenessero estratti sempre più grandi di testo. Come se non bastasse, Facebook ha cominciato a penalizzare gli editori che inserivano negli estratti i link ai loro siti, costringendoli di fatto a pubblicare post di testo integrale senza link. In pratica, gli editori sono diventati fornitori di contenuti per Facebook, completamente dipendenti dalla piattaforma sia per la diffusione sia per la monetizzazione. Quando questi gruppi hanno provato ad alzare la voce, Facebook si è limitato a ripetere la lezione che ogni dirigente delle grandi aziende tecnologiche ha imparato al master in gestione d’impresa di Darth Vader: “Ho cambiato il nostro accordo. Pregate che non lo cambi ancora”.
Ora Facebook sta entrando nella fase più pericolosa della merdificazione. Vuole riprendersi tutto il surplus disponibile e lasciare agli utenti finali solo il minimo indispensabile per tenerli legati a vicenda (e per tenere i clienti aziendali legati agli utenti) senza lasciare niente sul tavolo, in modo che ogni centesimo di ricavo torni nelle tasche dei suoi azionisti. Ne abbiamo avuto una prova all’inizio di febbraio, quando l’azienda ha annunciato un dividendo trimestrale di 0,5 dollari per azione e un piano di riacquisto di azioni proprie per cinquanta miliardi di dollari. Il titolo si è impennato.
Ma è un equilibrio molto fragile, perché la linea tra “odio questo servizio, ma non mi decido a mollarlo” e “dio santo, perché ho aspettato tanto a mollarlo?” è sottilissima. Un’altra strage in diretta streaming e gli utenti scapperanno. A quel punto Facebook si accorgerà che l’effetto rete è una lama a doppio taglio. Se nessuno se ne va perché tutti gli altri hanno deciso di restare, quando tutti cominceranno ad andarsene non ci sarà più motivo di restare. Siamo allo stadio terminale della merdificazione.
Questa fase di solito è accompagnata dal panico, quello che gli addetti ai lavori chiamano eufemisticamente pivot, svolta. La svolta che hanno in mente è questo: in futuro tutti gli utenti di internet si trasformeranno in personaggi dei cartoni animati a bassa definizione, asessuati, senza gambe e sorvegliatissimi in un mondo virtuale chiamato “metaverso”.
Questa è la sequenza della merdificazione. Ma non spiega una cosa: perché oggi sta succedendo a tutto? Se non rispondiamo a questa domanda, non possiamo neanche pensare di trovare un rimedio. Cos’è in questo preciso momento che ci sta portando alla grande merdificazione? È la fine della politica dei tassi d’interesse a zero? È il cambio al vertice dei colossi della tecnologia? È Mercurio retrogrado?
Le giuste forze
Niente di tutto questo. La politica del denaro gratis della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) ha sicuramente permesso alle aziende tecnologiche di avere un bel po’ di risorse da distribuire. Facebook, però, ha cominciato a merdificarsi molto prima della fine della politica dei tassi a zero. E lo stesso vale per Amazon, la Microsoft e Google.
È vero, alcuni colossi tecnologici hanno nuovi capi. Ma la merdificazione di Google è perfino peggiorata quando i fondatori sono tornati per gestire il panico da intelligenza artificiale (ia). Pardon, la svolta dell’intelligenza artificiale.
Quando tante entità indipendenti improvvisamente cambiano tutte allo stesso modo è segno che anche il contesto è mutato. È quello che è successo nel settore tecnologico. Le aziende hanno imperativi contrastanti: da una parte, vogliono fare soldi; dall’altra, per fare soldi bisogna assumere e motivare personale competente e vendere prodotti che i clienti abbiano voglia di comprare; ma più l’azienda dà ai dipendenti e ai clienti, meno può dare ai suoi azionisti. L’equilibrio ideale, quello in cui le aziende producono cose che ci piacciono in modo onesto e a un giusto prezzo, si ottiene quando guadagnare giocando sporco – aumentare i prezzi, abbassare la qualità e danneggiare i lavoratori – costa più di quanto fa guadagnare.
Ci sono quattro forze che disciplinano le imprese e possono frenare i loro impulsi merdificanti. La concorrenza: le aziende hanno paura che porterete i vostri soldi a qualcun altro, perciò ci pensano prima di abbassare la qualità o di aumentare i prezzi. La regolamentazione: le aziende temono che il regolatore le multerà per delle cifre più alte di quelle che si aspettano di guadagnare imbrogliando, perciò imbrogliano meno.
Queste due forze sono presenti in tutti i settori; le altre due, invece, sono più specifiche dell’industria tecnologica. La prima è il fai da te: i computer sono estremamente flessibili, come i prodotti e i servizi tecnologici che ne ricaviamo. Questo significa che gli utenti possono trovare dei programmi capaci di disattivare tutte le funzioni che tolgono valore a loro e lo danno agli azionisti.
Un’altra strage in diretta streaming e gli utenti scapperanno
Mettiamo che durante un consiglio d’amministrazione qualcuno dica: “Ho calcolato che se facciamo diventare i nostri annunci pubblicitari più invasivi del 20 per cento avremo il 2 per cento di ricavi netti in più”. Qualcun altro potrebbe prendere la parola e rispondere: “Sì, ma se lo facciamo, il 20 per cento dei nostri utenti installerà il blocco della pubblicità e i nostri ricavi da quegli utenti scenderanno a zero, per sempre”. In altre parole, le aziende digitali sono condizionate dal timore che una loro mossa merdificante possa spingere gli utenti ad andare su Google e digitare: “Come faccio e demerdificare questa cosa?”.
Infine, ci sono i lavoratori. Nel settore tecnologico il tasso di sindacalizzazione è basso, ma questo non significa che i lavoratori non abbiano potere negoziale. La storica “penuria di talenti” del settore tecnologico ha dato molta forza ai lavoratori. Se un dipendente non era d’accordo con il suo capo dava le dimissioni, attraversava la strada e trovava subito un altro lavoro, spesso migliore. Lo sapevano loro e lo sapevano i capi. Paradossalmente, questo li ha resi ancora più sfruttabili. Tutti i lavoratori tecnologici, infatti, si consideravano futuri fondatori di aziende, imprenditori temporaneamente a stipendio, figure eroiche potenziali. Ecco perché motti come Don’t be evil (non essere cattivo) di Google e Make the world more open and connected (rendi il mondo più aperto e connesso) di Facebook erano importanti: instillavano nei lavoratori il senso di una missione. La studiosa statunitense Fobazi Ettarh lo chiama vocational awe, “stupore vocazionale”; per Elon Musk significa essere “irriducibili”.
I lavoratori del settore tecnologico avevano un grande potere negoziale, ma non l’hanno mai fatto pesare quando i capi gli hanno chiesto di sacrificare la salute, la famiglia e il sonno per rispettare scadenze arbitrarie. Le aziende tecnologiche hanno trasformato gli uffici in “campus” stravaganti con palestre, caffetterie gourmet, lavanderie, sale massaggi e servizi di congelamento degli ovuli, quindi i lavoratori si sentivano coccolati. In realtà, stavano lavorando come muli. Per i capi, però, motivare i lavoratori facendo appello all’idea di avere una missione ha uno svantaggio: i lavoratori si sentiranno coinvolti e quindi, quando qualcuno gli chiederà di merdificare i prodotti per cui si sono rovinati la salute, proveranno un senso di profonda riprovazione morale e minacceranno di andarsene. I lavoratori in effetti sono stati l’ultimo baluardo contro la merdificazione. Prima non c’erano leader migliori. I dirigenti non erano migliori. Erano solo frenati. I loro peggiori impulsi erano inibiti dalla concorrenza, dalla regolamentazione, dal fai da te e dal potere dei lavoratori. Ma allora, cos’è successo?
Il potere imprenditoriale
Uno per uno, tutti questi vincoli sono stati erosi e l’impulso merdificante, ormai incontrollato, ci ha proiettati nell’era del merdocene. La prima a cadere è stata la concorrenza. Dalla fine dell’ottocento fino agli anni di Ronald Reagan, l’obiettivo delle norme sulla concorrenza è stato favorire la competizione tra le aziende. Le leggi antitrust statunitensi trattavano il potere imprenditoriale come un pericolo e cercavano di limitarlo. Le leggi antitrust europee, importate dagli architetti del piano Marshall, erano modellate su quelle statunitensi. Poi però, a partire dagli anni ottanta, con l’avvento del neoliberismo, in tutto il mondo le autorità di vigilanza sulla concorrenza hanno adottato la cosiddetta dottrina del “benessere dei consumatori”, secondo la quale, in sostanza, i monopoli erano sinonimo di qualità. Se tutti andavano nello stesso negozio e compravano lo stesso prodotto significava che era il miglior negozio e vendeva il miglior prodotto, non che qualcuno stava barando.
E così, in tutto il mondo, i governi hanno smesso di applicare le leggi sulla concorrenza. Quando le aziende le hanno calpestate, si sono semplicemente girati dall’altra parte. Le aziende ne hanno approfittato, fondendosi con le loro principali concorrenti e cominciando ad assorbire gli operatori più piccoli prima che diventassero troppo grandi e minacciosi. Quest’orgia di fusioni e acquisizioni ha prodotto una serie di incroci industriali incestuosi, che vanno dagli occhiali da sole al trasporto marittimo, dalle bottiglie di vetro alla gestione dei pagamenti, dalla vitamina c alla birra. Gran parte dell’economia mondiale è dominata da quattro, cinque aziende globali. Se quelle più piccole rifiutano di vendersi a questi cartelli, i colossi hanno carta bianca per calpestare la concorrenza attraverso “prezzi predatori” che impediscono ai rivali di farsi strada nel mercato. Quando il sito di prodotti per l’infanzia Diapers.com ha rifiutato l’offerta di acquisizione di Amazon, il colosso fondato da Jeff Bezos ha bruciato cento milioni di dollari vendendo per mesi pannolini sottocosto. Diapers.com è fallito e Amazon ha comprato l’azienda per pochi spiccioli.
E così è saltato il primo vincolo, e a quel punto anche il secondo – la regolamentazione – aveva i giorni contati. Quando un settore è formato da centinaia di piccole e medie imprese, è una folla indistinta, una marmaglia. Centinaia di aziende non riusciranno mai a mettersi d’accordo su cosa dire al parlamento o a una commissione. A stento riuscirebbero a mettersi d’accordo su come organizzare una riunione per discuterne.
Quando però un settore si restringe a una manciata di aziende dominanti, smette di essere una marmaglia e diventa un cartello. Cinque, quattro, tre, due o una sola impresa possono convergere facilmente su un unico messaggio da recapitare ai regolatori e, senza una “inutile concorrenza” a minacciare i loro profitti, hanno soldi da distribuire a destra e a manca.
Ecco perché la concorrenza è importante: non solo perché spinge le imprese a lavorare di più e a condividere il valore con clienti e dipendenti; ma perché gli impedisce di diventare troppo grandi per fallire o finire dietro le sbarre.
Il 50 per cento degli utenti che navigano sul web usa il blocco della pubblicità
Certo, ci sono un sacco di cose che non vogliamo veder migliorare grazie alla concorrenza, per esempio l’invasione della privacy. L’approvazione del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Rgpd), la storica legge sulla privacy dell’Unione europea, è stata un evento di estinzione di massa per molti piccoli operatori di pubblicità online europei. Ed è stato un bene: erano perfino più invadenti e spregiudicati dei colossi tecnologici statunitensi. Non c’è bisogno di aumentare l’efficienza di chi viola i diritti delle persone.
Google e Facebook, però, sono uscite indenni dalla legge europea sulla privacy. E non perché non la infrangono. È che hanno una sede di facciata in Irlanda, uno dei più noti paradisi della criminalità imprenditoriale dell’Unione europea, che contende ad altri paradisi simili (Malta, Lussemburgo, Cipro, a volte i Paesi Bassi) la palma del paese più ospitale. La commissione irlandese per la protezione dei dati si pronuncia su pochissimi casi, e più dei due terzi delle sue decisioni sono ribaltate dall’Unione europea, anche se l’Irlanda è la sede delle aziende che invadono di più la privacy sul continente.
Google e Facebook, quindi, possono permettersi di agire come se godessero dell’immunità rispetto alla legge sulla privacy, perché violano la legge attraverso un’app.
Le autorità irlandesi
È qui che sarebbe d’aiuto il terzo vincolo: il fai da te. Se non volete che la vostra privacy sia violata, non dovete aspettare che si pronuncino le autorità irlandesi, basta installare il blocco della pubblicità. Più della metà degli utenti su internet lo fa. Ma il web è una piattaforma aperta, sviluppata quando nel settore tecnologico c’erano centinaia di aziende in lotta tra loro, incapaci di influenzare le autorità. Oggi è divorata dalle app, che sono il paradiso della merdificazione. La cosiddetta “cattura normativa” non è solo la capacità di calpestare le regole, ma soprattutto di usare le regole contro gli avversari.
I colossi tecnologici attuali sono diventati grandi sfruttando le tecniche del fai da te. Quando Facebook ha detto agli utenti di MySpace di fuggire dal panottico australiano dello spregevole Murdoch, non si è limitato a dire agli abbonati “in culo ai vostri amici, venite su Facebook ad ammirare la nostra bella politica sulla privacy e iscrivetevi”. Gli ha messo a disposizione un bot: bastava inserire il nome utente e la password di MySpace, e il bot si collegava a MySpace spacciandosi per l’utente, rastrellando tutto quello che c’era nella posta in entrata e copiandolo su Facebook.
Negli anni novanta, quando la Microsoft cercò di togliere ossigeno al mercato della Apple rifiutando di creare una versione funzionante di Microsoft Office per Mac, gli uffici buttarono via i loro eleganti Mac sostituendoli con pc con schede grafiche aggiornate e versioni per Windows di Photoshop e Illustrator. Allora Steve Jobs non pregò Bill Gates di aggiornare Mac Office, ma disse ai suoi tecnici di reingegnerizzare Microsoft Office e di realizzare un pacchetto di programmi compatibile, iWork, le cui applicazioni – Pages, Numbers e Keynote – leggevano e modificavano i file creati con Word, Excel e PowerPoint.
Quando Google è entrata sul mercato, ha inviato a ogni server web sulla Terra il suo crawler, che si presentava come un utente: “Ehi! Ciao! Avete delle pagine web? Grazie! Ne avete altre? Ne avete altre ancora?”. Ogni pirata, però, vuole essere un ammiraglio. Quando queste cose le facevano Facebook, la Apple e Google, si chiamavano progresso. Se le fai contro di loro, sono pirateria. Provate a creare un client alternativo per Facebook e vi diranno che avete violato leggi statunitensi come il Digital millennium copyright act (Dmca) o leggi dell’Unione europea come l’articolo 6 della direttiva europea sul diritto d’autore. Provate a sviluppare un programma per Android in grado di far funzionare le app dell’iPhone e di riprodurre i dati dei media store della Apple e vi bombarderanno fino a ridurvi a un cumulo di macerie. Provate a raschiare i dati di Google e vi arriverà addosso un ordigno nucleare.
La capacità dei colossi tecnologici di usare le regole contro i rivali è sconvolgente. Prendiamo la legge che ho citato prima, la sezione 1201 del Dmca. Bill Clinton l’ha approvata nel 1998 e l’Unione europea l’ha importata nel 2001 con l’articolo 6 della direttiva sul diritto d’autore. Entrambe le leggi stabiliscono il divieto generale di rimuovere qualsiasi tipo di codifica che restringa l’accesso a opere protette dal diritto d’autore, per esempio per copiare un dvd o per sbloccare un telefono. Rischiate cinque anni di prigione e una multa di 500mila dollari per la prima infrazione. La portata della norma è stata così ampliata che può essere applicata per mandare in galera perfino chi dà libero accesso alle proprie creazioni. Un esempio: nel 2008 Amazon comprò la Audible, una piattaforma di audiolibri. Oggi la Audible è una monopolista con più del 90 per cento del mercato e impone a tutti gli autori che usano la sua piattaforma di vendere le loro opere attraverso la “gestione dei diritti digitali” di Amazon, che è vincolata alle app di Amazon. Mettiamo che io abbia scritto un libro: lo leggo al microfono, do migliaia di dollari a un regista e a un ingegnere per trasformarlo in un audiolibro e poi lo metto in vendita sulla piattaforma della monopolista Audible. Se più tardi decido di andarmene da Amazon e di portare i miei lettori su una piattaforma concorrente, peggio per me: se metto a disposizione dei miei lettori uno strumento per rimuovere la crittografia di Amazon dal mio audiolibro, in modo che possano riprodurlo su un’altra app, commetto un reato punibile con cinque anni di reclusione e una multa di mezzo milione di dollari. È una sanzione più severa di quella in cui incorrerei piratando l’audiolibro da un sito di Torrent o rubando il cd dell’audiolibro a una stazione di servizio o sequestrando il camion che ha consegnato il cd.
Torniamo al blocco della pubblicità. Il 50 per cento degli utenti che navigano sul web usa il blocco della pubblicità. Tra gli utenti delle app, però, la percentuale è zero, perché per aggiungere il blocco a un’app bisogna prima rimuovere la crittografia, ed è un reato.
Perciò quando qualcuno in consiglio d’amministrazione si alza e dice: “Facciamo diventare i nostri annunci pubblicitari più molesti del 20 per cento e aumentiamo i ricavi del 2 per cento”, nessuno obietterà che così facendo si spingeranno gli utenti ad andare su Google a cercare: “Come si bloccano gli annunci pubblicitari?”. Perché la risposta è: non si può fare. Semmai, è più probabile che qualcuno dica: “Facciamo diventare i nostri annunci più molesti del 100 per cento e aumentiamo i ricavi del 10 per cento” (è per questo che oggi tutte le aziende vi fanno installare l’app invece di farvi andare sul loro sito).
L’ultima volta che il congresso ha varato una legge sulla privacy è stato nel 1988
Nulla vieta agli autisti di Uber sfruttati dagli algoritmi d’installare un’app alternativa, condivisa con tutti i conducenti, che rifiuta le corse al di sotto di una certa soglia di prezzo. Nulla lo vieta tranne la minaccia che il povero sviluppatore dell’app alternativa finisca sul lastrico o vada in galera per violazione del Dmca 1201, del Computer fraud and abuse act, del marchio, del diritto d’autore, del brevetto, del contratto, della riservatezza commerciale, della clausola di non divulgazione e di non concorrenza o, in altre parole, dei “diritti Ip”, che non è solo l’acronimo di “proprietà intellettuale”. È un eufemismo per “legge che permette di andare oltre i confini dell’azienda e di controllare la condotta dei miei critici, dei miei concorrenti e dei miei clienti”. Allo stesso modo, app è un eufemismo per “pagina web che sfrutta la legge sulla proprietà intellettuale per rendere illegale qualsiasi modifica del software che tuteli il diritto del lavoro, del consumatore e della riservatezza dei suoi utenti”.
Il senso d’indignazione
E il quarto vincolo, i lavoratori? Per decenni il potere negoziale e il fatto che i dipendenti del settore tecnologico sentivano di avere una missione hanno messo un freno alla merdificazione. Anche dopo che il settore si è ridotto a una manciata di giganti. Anche dopo la cattura normativa. Anche dopo la fine del fai da te. Le aziende erano ancora imbrigliate dall’indignazione dei loro dipendenti di fronte alla merdificazione.
Ricordate quando il sogno dei lavoratori tecnologici era stare per qualche anno in una grande azienda del settore per poi mettersi in proprio e fondarne una nuova che avrebbe spazzato via la vecchia? Quel sogno si è ridotto a lavorare per qualche anno per un colosso, dare le dimissioni, mettere su una finta startup e farsi “comprare-assumere” dal vecchio datore di lavoro. Praticamente un modo più complicato per ottenere un bonus e una promozione. Poi il sogno si è ridimensionato ancora: lavorare per un colosso tecnologico per tutta la vita in cambio di forniture di litri di kombucha e massaggi gratis il mercoledì.
Ora il sogno è finito. Quel che resta è: lavorare per un colosso tecnologico finché non ti licenzia, com’è successo l’anno scorso a dodicimila dipendenti di Google, mandati a casa otto mesi dopo un’operazione di riacquisto di azioni proprie che sarebbe bastata a pagare i loro stipendi per 27 anni. I lavoratori non sono più un freno ai peggiori impulsi dei loro capi. La reazione a “mi rifiuto di peggiorare questo prodotto” è: “Restituisci il badge e stai attento a non farti sbattere la porta sul culo quando esci”.
Capisco che tutto questo è un po’ deprimente. Ok, molto deprimente. Ma abbiamo isolato il virus. Abbiamo capito qual è il suo meccanismo di fondo. Possiamo cominciare a lavorare a una cura. Ci sono quattro vincoli che frenano la merdificazione: concorrenza, regolamentazione, fai da te e lavoro. Per invertire il corso della merdificazione e impedire che si ripresenti, dobbiamo ripristinarli e rafforzarli tutti e quattro. Sulla concorrenza, in realtà siamo già messi abbastanza bene. L’Unione europea, il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Giappone e la Cina stanno facendo per la concorrenza più di quanto hanno fatto in due generazioni: stanno bloccando le fusioni, stanno sciogliendo quelle esistenti, stanno intervenendo contro i prezzi predatori e altre tattiche losche.
Badate bene, negli Stati Uniti e in Europa abbiamo già leggi che fanno tutte queste cose: abbiamo solo smesso di applicarle. È da due anni che combatto questa battaglia con l’organizzazione non profit Electronic frontier foundation e non ho mai visto un momento così favorevole per una politica tecnologica sana e informata.
Certo, i merdificatori non stanno a guardare. Pensate a quello che sta succedendo a Lina Khan, la presidente della Federal trade commission, l’antitrust degli Stati Uniti, che in tre anni ha fatto più di tutti i suoi predecessori negli ultimi quaranta. La pagina degli editoriali del Wall Street Journal ha pubblicato più di ottanta articoli per screditare Khan e farla passare per un’ideologa incapace e inconcludente. Come no, è per questo che hanno fatto ottanta editoriali contro di lei, perché è inconcludente. Negli anni ottanta, Reagan e Thatcher hanno messo la normativa antitrust in coma. Ora però l’antitrust si è svegliata, è tornata ed è incazzata nera.
E la regolamentazione? Come si fa a impedire alle aziende tecnologiche di ricorrere al trucco di usare un’app per aggirare la normativa? Be’, nell’Unione europea stiamo cominciando a capire come. Di recente è entrato in vigore il corpo centrale della normativa sui mercati digitali e della normativa sui servizi digitali, che permette ai consumatori truffati dalle aziende tecnologiche di rivolgersi direttamente ai tribunali europei, scavalcando gli inutili “cani da guardia” di paesi come l’Irlanda. Negli Stati Uniti sembra che finalmente si farà una legge sulla riservatezza digitale. Forse non avete idea di quant’è arretrata la normativa statunitense sulla privacy. L’ultima volta che il congresso ha varato una legge sulla privacy generale è stato nel 1988. Il Video privacy protection act stabilisce che se un videonoleggio divulga la lista dei film che avete noleggiato commette un reato. La legge è stata approvata dopo che un giornale di Washington aveva pubblicato la lista dei video noleggiati da un giudice di destra candidato alla corte suprema. Non erano neanche così imbarazzanti.
Certo, quel giudice, Robert Bork, non fu più eletto alla corte suprema, ma solo perché era uno che parlava troppo, e a sproposito, oltre a essere stato il viceministro della giustizia di Richard Nixon. I deputati del congresso, però, erano terrorizzati che la prossima volta sarebbe toccato a loro, andarono nel panico e approvarono la legge. È stata l’ultima volta che gli statunitensi hanno avuto una legge federale sulla privacy. E il bello è che c’è un sacco di gente arrabbiata per questo ritardo. Magari perché ha paura che Facebook convinca il nonno a convertirsi a QAnon. O che gli adolescenti diventino anoressici per colpa di Instagram. O che i ragazzini della generazione Z comincino a citare Osama bin Laden perché TikTok gli ha fatto il lavaggio del cervello.
O magari che la polizia identifichi i partecipanti a una manifestazione di Black lives matter o alle sommosse del 6 gennaio, scaricando i dati di localizzazione da Google. O che i procuratori generali degli stati repubblicani rintraccino le adolescenti che abortiscono fuori dei confini dello stato. O che i neri siano discriminati dalle piattaforme di prestiti o di assunzioni online. O che qualcuno pubblichi un porno deepfake su di voi fatto con l’intelligenza artificiale. Una legge che autorizza un privato a denunciare un’azienda che viola la sua privacy sarebbe utile a correggere queste storture. Fortunatamente c’è una grande coalizione a favore di una legge simile.
E il fai da te? Qui, ahimè, siamo molto più lontani. La direttiva sui mercati digitali dell’Unione europea costringerà le aziende tecnologiche ad aprire i loro orticelli recintati all’interoperabilità. Potremo usare WhatsApp per mandare messaggi a qualcuno su iMessage, oppure abbandonare Facebook, spostarci su Mastodon e continuare a mandare messaggi a chi resta.
Se però volete capire come funziona uno di questi prodotti e modificarlo a vostro vantaggio, e non loro, l’Unione europea non vi tutela in alcun modo. Qui c’è sicuramente spazio per un miglioramento. La mia speranza è che entri in gioco la legge di Stein: se qualcosa non può andare avanti in eterno, si fermerà.
Infine, il lavoro. In Europa il tasso di sindacalizzazione è molto più alto che negli Stati Uniti. Non c’è niente di più divertente che leggere della recente raffica di attacchi dei sindacati scandinavi alla Tesla. Ma anche negli Stati Uniti c’è stata una grande avanzata dei sindacati del settore tecnologico. I lavoratori hanno capito che non sono potenziali capitani d’industria. A Seattle hanno scioperato per solidarietà con i magazzinieri di Amazon, perché si sono accorti che sono tutti sulla stessa barca. Stiamo assistendo a un’azione ambiziosa a livello globale sulla concorrenza, la regolamentazione e il lavoro, ma con il fai da te un po’ più indietro. Siamo giusto in tempo, perché la brutta notizia è che la merdificazione si sta allargando a tutti i settori. Basta che ci sia un computer in rete, e le aziende possono fare la mossa di Darth Vader, cambiando le regole da un momento all’altro e violando i vostri diritti per poi dire: “È tutto a posto, l’abbiamo fatto con un’app”. Dalla Mercedes, che sostanzialmente vi affitta il pedale dell’acceleratore mese per mese, alle lavastoviglie collegate in rete, che vi costringono a usare il sapone per i piatti che dicono loro, la merdificazione si sta insinuando come una metastasi in ogni angolo della nostra vita.
Ma c’è un lato positivo: se tutti siamo minacciati dalla merdificazione, tutti abbiamo da guadagnare dalla demerdificazione. Come per la legge sulla privacy negli Stati Uniti, la potenziale coalizione anti-merdificazione è gigantesca. È inarrestabile. Quelli più cinici tra di voi dubiteranno che questo possa fare la differenza. In fondo, dire “merdificazione” non è lo stesso che dire “capitalismo”? Be’, no. Non voglio fare l’avvocato difensore del capitalismo: non credo che i mercati siano gli allocatori più efficienti delle risorse né gli arbitri della politica. Eppure, vent’anni fa il capitalismo ha trovato uno spazio per una cosa incontrollabile e informe come internet, uno spazio dove le persone che la pensavano in modo diverso potevano trovarsi, aiutarsi reciprocamente e organizzarsi. Il capitalismo attuale ha prodotto solo un gigantesco centro commerciale fantasma aperto in tutto il mondo e pieno di bot molesti, gadget di merda prodotti da aziende dai nomi pieni di consonanti e criptovalute truffaldine.
Movimenti di massa
Internet non è più importante della crisi climatica, della giustizia di genere, della giustizia razziale, del genocidio o della disuguaglianza. Internet, però, è il terreno su cui si combattono queste battaglie. Senza un web libero, giusto e aperto, la battaglia è persa in partenza. Possiamo invertire il processo di merdificazione, possiamo fermare la merdificazione strisciante di ogni dispositivo digitale, possiamo costruire un sistema nervoso digitale migliore, in grado di coordinare i movimenti di massa di cui abbiamo bisogno per combattere il fascismo, per fermare il genocidio, per salvare il pianeta e la nostra specie.
Martin Luther King ha detto: “Magari è vero che la legge non può costringere un uomo ad amarmi, ma può impedirgli di linciarmi, e io penso che sia abbastanza importante”. E magari è vero che la legge non può costringere le multinazionali a considerarmi un essere umano che ha diritto alla dignità e a un trattamento equo, e non un portafoglio ambulante, una riserva di batteri intestinali per quell’organismo coloniale imperituro che risponde al nome di società a responsabilità limitata. Ma posso costringerle a temermi abbastanza da trattarmi in modo equo e a riconoscere la mia dignità. Anche se pensano che non me la merito. ◆ fas
Cory Doctorow è un giornalista e scrittore canadese. Si occupa di diritti digitali e sicurezza informatica. È consulente dell’Electronic frontier foundation, un’organizzazione non profit che difende i diritti digitali e la libertà d’espressione su internet. Questo articolo è l’adattamento di un discorso tenuto a gennaio per la Marshall McLuhan lecture all’ambasciata del Canada di Berlino, in Germania.
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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati