David Mamet torna alla Chicago del proibizionismo, la stessa ambientazione degli Intoccabili di Brian De Palma di cui aveva scritto la sceneggiatura. Chi ha familiarità con i thriller che Mamet ha scritto e diretto per Hollywood noterà la presenza di altri suoi marchi di fabbrica: la trama labirintica e i serrati dialoghi filosofici. Ma una volta che ci si abitua ai suoi ritmi Chicago è un vero spasso. Mike è innamorato di Annie, una cattolica irlandese di “sconvolgente bellezza verginale”, e quando un assassino le spara mentre sono a letto nell’appartamento di Mike, lui cade in un pozzo di dolore, whisky e oppio. Il senso di colpa di Mike guida la sua sete di vendetta, che lo porta a trattare sia con il gruppo criminale di Al Capone sia con gli irlandesi, e mentre si avvicina al suo bersaglio, la trama diventa sempre più difficile da sbrogliare. Il dialogo è uno dei piatti forti del romanzo, dove consultare un poliziotto può diventare uno scambio metafisico: “La domanda”, dice Mike, “è questa: cos’è il male?”. “Be’”, risponde Doyle, “questo è stabilito dal tizio che ha la pistola”. Ma Chicago presenta anche alcuni meravigliosi personaggi femminili, come Peekaboo, la maitresse afroamericana di un bordello che racconta orribili episodi di violenza razziale. Alasdair Lees, Independent
L’ultimo libro di Colson Whitehead trova il suo centro di gravità a Harlem, New York, trasportando i lettori all’epoca del movimento per i diritti civili tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, un momento in cui le rivolte del quartiere stavano cambiando il paesaggio urbano e quello politico. Da questa premessa Whitehead crea un brillante poliziesco che è anche una meditazione sulla geografia della popolazione nera. Il romanzo si sviluppa in tre parti, ognuna delle quali corrisponde a una calda estate newyorchese (1959, 1961 e 1964) e alle imprese sempre più pericolose di Raymond Carney, il figlio di un noto criminale di Harlem. È il desiderio di Carney di lottare per ottenere una casa sul fiume, nonché l’attrazione del sottomondo criminale, a spingere avanti il libro. Il cast del romanzo include truffatori e rapinatori, così come figure altrettanto corrotte dell’élite nera di Harlem. C’è anche il cugino Freddie, che arruola Carney in un piano per derubare il famoso hotel Theresa. E c’è la moglie di Carney, Elizabeth, agente di viaggio della Black Star, un’agenzia che organizza tour e vacanze per gli afroamericani. Se Carney è specializzato nel padroneggiare la topografia locale di Harlem, Elizabeth si dedica ad ampliare le rotte che i neri possono percorrere. Ma la vera protagonista, accanto a Carney, è una Harlem meticolosamente descritta. Autumn Womack, Financial Times
Il romanzo di Elif Shafak traccia la commovente storia di Kostas e Defne Kazantzakis, giovani amanti in una Cipro postcoloniale dolorosamente divisa – lui è greco e cristiano, lei turca e musulmana – e il prezzo emotivo che continuano a pagare dopo il trasferimento nel Regno Unito. Il romanzo si muove avanti e indietro nel tempo e nello spazio ed è diviso in tre linee narrative. Nella Londra del 2010 incontriamo Ada, 16 anni, figlia di Kostas e della recentemente scomparsa Defne. I genitori l’hanno protetta dal loro passato e Ada non conosce la sua famiglia cipriota. Ma l’arrivo della zia Meryem svela la verità. Nel 1974 a Cipro, Defne e Kostas erano amanti clandestini. S’incontravano in segreto alla taverna Fico felice. Gli eventi catastrofici che seguono sono osservati dal pappagallo Chico e dall’albero di fico che cresce al centro dell’edificio. È questo albero a guidare la terza narrazione, un alberello strappato dal botanico Kostas e ripiantato nel loro nuovo giardino inglese, che cresce accanto ad Ada. Il fico è poi testimone del lutto di padre e figlia e si fa portavoce della storia cipriota, illuminando la negligenza e l’ipocrisia umana. L’isola degli alberi scomparsi pone importanti domande sulla perdita della patria. Il dolore delle persone costrette all’emigrazione influisce sui loro figli? Ada non ha una cultura cipriota, ma questa assenza le causa dolore; Shafak suggerisce che il trauma generazionale è inevitabile. Un bellissimo romanzo imperfetto, ma reso feroce da un’intransigente empatia. Leone Ross, The Guardian
Il piccolo mondo di Lubumbashi, nel Katanga, è fuori controllo: l’Unione mineraria, che di solito orchestra tutti gli aspetti della vita locale, non funziona più come dovrebbe. Sanza, un ragazzo che si è unito da poco alle bocche di troppo da sfamare nelle strade, è assunto dal signor Guillaume come informatore per la polizia segreta. La scrittura di Fiston Mwanza Mujila è un fiume che porta insieme ritmi ternari biblici, melodie jazz, grandi risate e combinazioni di parole che suonano strane. Qua e là sfiora il fantastico, ma soprattutto il teatro che rimane la grande tentazione del romanziere. Ciò che tiene insieme il suo testo straordinariamente barocco è un mistero. Forse è il senso di apocalisse che pervade sia i personaggi sia il momento storico (intorno al 1997, quando lo Zaire diventò la Repubblica Democratica del Congo). Forse è la “danza del bifolco”, i cui gesti disarticolati rimangono immutati attraverso la spaventosa impermanenza del mondo. In ogni caso, nel riuscire a tenere in piedi questo sconcertante romanzo da un capo all’altro, Fiston Mwanza Mujila conferma il suo talento. Zoé Courtois, Le Monde
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