Pancia d’asino è il primo romanzo di Andrea Abreu, nata nel 1995 a Tenerife, che è stata cameriera e commessa di una nota marca di lingerie prima di studiare giornalismo. Per capire bene i personaggi del romanzo è importante familiarizzare con i luoghi in cui si muovono: il loro quartiere, le case rurali, il Passo dell’Asino, il centro culturale, la continua minaccia di terremoti e la lava, che ha una presenza eclatante nelle ultime pagine del libro. Ed è in questi spazi che si muovono i personaggi singolari, sia adulti sia bambini. La protagonista, figlia di una donna delle pulizie, e Isora, una bambina di dieci anni come lei, come molti ragazzini della loro età sono ossessionate dagli escrementi e dai genitali, cosa che Abreu spinge all’estremo e che inevitabilmente respingerà molti lettori, ma che tuttavia è una gran parte del fascino del romanzo. Ragazzine senza i pregiudizi degli adulti che vivono il mistero del sesso come qualcosa di magico. E noi lettori viviamo i giochi dei due personaggi e il loro linguaggio misterioso e rigoglioso come si vive la realtà più potente e affascinante. J.A. Masoliver Ródenas, La Vanguardia
Il grande errore di Jonathan Lee è così totalmente immerso nella storia letteraria statunitense che è una sorpresa scoprire che il suo autore è un quarantenne del Surrey. Il romanzo ripercorre la vita di un grande americano, Andrew Haswell Green, attraverso la lente della sua morte. Green può essere considerato uno dei padri della moderna New York. Cresciuto in una fattoria dov’era giudicato troppo effeminato e troppo miope per maneggiare un’ascia, si fece un nome prima come avvocato battagliero, poi come architetto dell’unificazione di Manhattan con Brooklyn e il Queens. Una mossa chiamata dai suoi detrattori il “grande errore del 1898”. Green era un uomo tanto cauto nella vita privata quanto esuberante nell’attività pubblica. Fondò la Public library di New York, il Metropolitan museum of art e, soprattutto, quel polmone nel cuore della città che è il Central park. Lee apre il suo romanzo con la morte di Green, ucciso a ottantatré anni sui gradini della sua casa di Park avenue da un uomo chiamato Cornelius Williams. La narrazione si snoda tra questo sanguinoso momento presente e il passato di Green, cercando di scoprire la ragione dietro un omicidio apparentemente senza motivo. Lee si diverte molto con le convenzioni del romanzo poliziesco. Il grande errore è un libro di straordinaria intelligenza e stile, scritto in un linguaggio allo stesso tempo bello e giocosamente aforistico. È un romanzo il cui protagonista – onesto, dignitoso, ferito – vivrà a lungo nella mente del lettore. Alex Preston,
The Guardian
Come descrivere Un lungo matrimonio, il romanzo d’esordio di Tish Delaney? È un racconto di formazione? Una storia d’amore ambientata sullo sfondo del conflitto nordirlandese? La storia di quel conflitto raccontata metaforicamente? Il modo più interessante di leggerlo è probabilmente l’ultimo. Il romanzo parla di Mary Rattigan, ragazza cattolica nell’Irlanda del Nord degli anni settanta. Ha una madre prepotente, un padre smidollato e sei fratelli. A scuola mostra del potenziale e sogna di trovare un modo per emigrare in Inghilterra o negli Stati Uniti e costruirsi una vita migliore. La sua storia prende una strada drasticamente diversa quando rimane incinta ed è costretta a un matrimonio riparatore con un uomo più anziano che non è il padre di suo figlio. La conclusione a cui arriva Mary – “Se avessimo provato a parlarci avrei saputo che lui era l’unica persona che poteva capire” – si può leggere come l’inizio di un processo di pace. È una svolta interessante dal punto di vista metaforico, ma strano nel contesto della vita di Mary. In fondo, questa è la storia di una donna che è abusata fisicamente e torturata psicologicamente dalla madre, poi costretta a una specie di prigionia matrimoniale, e che finisce per innamorarsi del suo carceriere. In un altro contesto si potrebbe parlare di sindrome di Stoccolma. Ci sono molte cose da ammirare in questo romanzo d’esordio, ma alcune scelte narrative suonano sbagliate.
Niamh Donnelly, The Irish Times
“Mi chiamo Fatima Daas. Sono francese. Sono algerina”. “Mi chiamo Fatima. Ho il nome di un personaggio simbolico dell’islam”. “Mi chiamo Fatima. Cerco la stabilità”. Si potrebbe continuare all’infinito modificando l’incipit di questo bel romanzo d’esordio per dar forma a una liturgia pienamente contemporanea. Come se fossero i frammenti di un’immagine che la voce narrante cerca di raccogliere e rimettere insieme. Fatima è la mazoziya – la più piccola, con due sorelle maggiori – in una famiglia musulmana. Una ragazzina, poi adolescente e giovane donna oppressa dagli obblighi familiari, scolastici, sociali e religiosi, lacerata da inclinazioni contraddittorie che questo racconto tutt’altro che sereno del suo apprendistato mira non tanto a conciliare quanto a mettere a nudo. Credente e lesbica: questa è la grande dissonanza con cui Fatima cerca di imparare a convivere. Di questo strazio, di questo senso di colpa che la fa soffocare, il lirismo sballottante e caotico del libro porta l’impronta struggente. Solo nelle pagine in cui descrive la sua pratica religiosa alla moschea, il rito e le preghiere, il suo respiro si calma. “Prima, le verità sembravano pericolose da raccontare”. Questo non le ha impedito di osare.
Nathalie Crom, Télérama
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