Per Saul Adler, protagonista del romanzo di Deborah Levy, la confusione tra passato e presente è vera in senso letterale e urgente. Nel 1988, a 28 anni, è investito da un’auto sul famoso passaggio pedonale di Abbey Road a Londra. O forse no? Subito dopo l’incidente Saul, uno studente di storia comunista dell’Europa orientale, rompe con la sua ragazza fotografa, Jennifer, si trasferisce a Berlino est, s’innamora del suo ospite, Walter, che è un informatore della Stasi, va a letto con la sorella di Walter e finisce forse per tradirli entrambi, accidentalmente, con le autorità. Ma il racconto di Saul diventa sempre più inaffidabile, sussurra a Walter confidenze intime su eventi che devono ancora accadere, tra cui la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania. Immagini, volti e incidenti ricorrono sia a Londra sia a Berlino, inquietantemente fuori contesto. A metà del romanzo, Saul è investito da un’auto sull’incrocio di Abbey Road nel 2016, a 56 anni. Questa volta, il danno è grave: si sveglia in ospedale, entrando e uscendo da sogni indotti dalla morfina. Jennifer, diventata nel frattempo un’artista famosa, è al suo fianco; così come suo padre, le cui ceneri Saul ha seppellito nella Rdt nel 1988; e Wolfgang, l’uomo che lo ha investito. Come suggerisce ironicamente il titolo, questo è un libro sul vedere e sull’essere visti, su chi guarda e su come il nostro sguardo sia sempre selettivo. Levy inverte l’idea tradizionale dello sguardo maschile e della musa dell’artista, ispirandosi a Medusa, la figura mitologica il cui sguardo, quando rivolto agli uomini, è sia potente sia pericoloso.
Stephanie Merritt,The Guardian
_Viaggio nella terra dei morti _è una strana e inquietante novella. Una donna di nome Natsuko torna in un albergo che frequentava da bambina con la madre e il fratello. Ora è con il marito disabile, che soffre di crisi epilettiche. Visitano una stazione termale e il salone dell’hotel, mangiano al ristorante, vanno al mare e fanno un pediluvio. Nel presente succede poco, ma il passato ritorna a Natsuko sotto forma di flashback. Questi ricordi formano la maggior parte del racconto, rendendo il presente meno reale e stabile. Natsuko sembra non avere il controllo della sua mente. Il passato – a cui si riferisce come a “quella vita”, in cui si verificano eventi spiacevoli e traumatici, tra cui molestie sessuali, abusi dalla famiglia e perdite – è descritto spesso come una massa d’acqua, e per tutto il tempo c’è la sensazione che lei stia annegando. Anche le parole della madre di Natsuko le “tornano indietro”, costringendola ad affrontarne l’infelicità, il sessismo e i pregiudizi nei confronti del genero. I “morti” del titolo sono i ricordi che perseguitano Natsuko. La scrittura di Kashimada è eccezionale. Questa novella oscura e soffocante fa parte di una tendenza in Giappone di autrici che riscrivono storie tradizionali attraverso una lente femminista.
Claire Kohda Hazelton, The Spectator
Il male è ovunque. Ci sono germi pericolosi che possono mandarti all’altro mondo dopo poco tempo. Ci sono i dolci tedeschi che fanno male alla salute. E poi ci sono gli ebrei, che sono comunque troppi e fuori luogo. La nonna Margarita Ivanovna è una misantropa. Supponete sempre il peggio, così non sarete colti di sorpresa. Con questa miscela di situazioni che Alina Bronsky crea all’inizio del suo nuovo libro, il lettore s’immagina un romanzo divertente e pieno di battute originali. Sfortunatamente, Bronsky non mantiene l’umorismo terso con cui comincia e che balena di tanto in tanto in seguito. Il dormitorio tedesco in cui l’autrice ci catapulta nel suo nuovo romanzo è un ex albergo dall’intonaco scrostato, in cui vivono i rifugiati arrivati dalla Russia. La nonna vigila costantemente sul nipote Max, la cui madre è morta. Non gli è permesso consumare nulla di dolce, ma è costretto a nutrirsi di verdure in purea e porridge. Poiché i germi mortali sono in agguato, non gli è nemmeno permesso di andare in bagno a scuola. Per il resto, il nipote è brutto, malaticcio e comunque non molto buono: un sermone permanente che lei continua a sbattergli in faccia. Il ragazzo fa buon viso a cattivo gioco e interpreta doverosamente la sua parte nel patchwork russo. Ruba i soldi dalla borsa della nonna, ma per il resto rimane il bravo ragazzo che le tinge perfino i capelli con la pazienza di un angelo. Solo più tardi, quando è già in contatto con suo padre che vive in Germania, riesce a emanciparsi dalla matriarca. Lei lo lascia andare, il “traditore”. Più slapstick che umorismo, episodi slegati piuttosto che una trama coerente: il nuovo romanzo di Alina Bronsky appare un po’ troppo costruito. Franziska Wolffheim, Der Spiegel
Vivendo in una roulotte fatiscente nella ruvida cittadina di Darby, nel Montana, la protagonista di questo romanzo d’esordio e suo padre sono tra i migliori cacciatori della regione, e anche i più avari. Dopo l’abbandono della madre, Ruthie lotta per trovare il suo posto in un mondo violento, escogitando “una propria moralità basata sul comportamento degli animali che vedeva”. L’illegalità in cui vive Ruthie la rende un’acuta osservatrice delle sue contraddizioni e di quelle della sua comunità, e Loskutoff usa gli elementi tipici del western – vivide rappresentazioni di paesaggi montani e scene di caccia – per offrire una sottile rappresentazione della povertà e della lotta di classe.
The New Yorker
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