Mentre lavorava da American Apparel, Chelsea Hodson ricevette in regalo un bikini nero a patto d’indossarlo in negozio. All’inizio era titubante, ma dopo un’ora si sentì in sintonia con “il battito del capitalismo”, a suo agio nell’essere vista come un oggetto dai clienti. Se essere donna negli Stati Uniti significava svolgere un ruolo a beneficio degli altri, voleva almeno farlo con complicità. Questo breve aneddoto è contenuto in uno dei saggi lirici del suo libro d’esordio, Stanotte sono un’altra, dove disegna, per esempio, connessioni tra la sua carriera nella vendita al dettaglio, un video di YouTube di un uomo che parla con una spogliarellista del videogioco Grand theft auto, le performance di Marina Abramović, un libro di caccia degli anni trenta e un profilo che ha creato su un sito usato da lavoratrici del sesso. Molti dei saggi sono incentrati sui sentimenti di Chelsea Hodson sulla mercificazione del suo corpo e sulla sua trasformazione in oggetto. Le sue intuizioni sono sorprendenti, perché resiste all’impulso di moralizzare. La maggior parte di questi pezzi si muove tra scene della vita lavorativa di Hodson, momenti altamente drammatici delle sue imprese romantiche e citazioni di altri scrittori, tra cui Roland Barthes e Mary Ruefle. Hodson prova i ruoli come abiti, li abbandona e va avanti. Il suo stile rispecchia la vita online: veloce ed eterea. I saggi più forti della raccolta legano gli interessi teorici della scrittrice alle esperienze del suo passato, spesso della sua infanzia o degli anni trascorsi a lavorare a Tucson. In queste pagine sentiamo tutto l’incantamento di vivere in un corpo. Meno toccanti sono i saggi che rimangono nel regno del cerebrale. Ma le sue lucide intuizioni, e lo stile affascinante, segnano una raccolta memorabile.
Maddie Crum, The Washington Post
Leggere un romanzo familiare offre un metodo collaudato per fare i conti con la famiglia in cui siamo nati, un mezzo per misurare la nostra traiettoria accanto ai dilemmi di altri che navigano nei drammi familiari. Il romanzo di Joyce Maynard, ambientato negli anni settanta e ottanta, oscilla tra passato e presente. La sua vicenda si svolge sullo sfondo di quella parte di storia che ha colpito più immediatamente le vite private: il risveglio dell’identità, l’aids, la violenza contro le donne, il tradimento coniugale, l’era spaziale, l’alba di quella dei computer. L’albero della nostra vita racconta la storia di Eleanor, una scrittrice di libri per bambini, madre di tre figli, ex moglie di Cam. Il romanzo si apre con il ritorno della protagonista alla fattoria in cui un tempo viveva come madre e moglie, prima che la vita distruggesse la famiglia. L’occasione del ritorno è il matrimonio di Al, il primogenito di Eleanor, che è un uomo transgender. Il passato occupa la maggior parte dello spazio del romanzo, in cui Eleanor cresce, si sposa, divorzia e trova la sua strada passando per una serie di avvenimenti a dir poco tragici. Il ritmo è rapido e le vicende di questa famiglia fluttuante e sbruffona spingono avanti la storia. Dolore, rassegnazione e una forte determinazione sono catturati nel tono serio e nitido della voce di Eleanor.
Martha McPhee, The New York Times
Come sente la violenza sessuale una ragazza abusata sistematicamente da uno zio fino all’età di sedici anni, nella casa di famiglia dove i suoi stessi genitori l’hanno mandata in vacanza ogni estate? E come può raccontare questa violenza in prima persona, trasformandola in materiale letterario? Belén López Peiró ha passato l’infanzia e l’adolescenza tra Buenos Aires e Santa Lucía, la città natale di sua madre: finita la scuola, preparava lo zaino e andava a casa degli zii e dei cugini. Lì lo zio poliziotto abusava di lei, sempre di notte, senza guardarla negli occhi, fino a farle credere che il suo stesso corpo non fosse il suo. L’autrice, che è anche scrittrice e giornalista, costruisce una storia polifonica in cui i diversi punti di vista – quelli dei suoi parenti e dei medici, così come il suo – fanno da contrappunto, a turno, al resoconto del processo che affrontò quando fu in grado di difendersi. Siamo noi lettori, a questo punto, che non possiamo sfuggire: siamo obbligati a entrare nella sua pelle e a sentire. Un libro dal forte impatto.
Verónica Abdala, Clarín
Con Piccole donne rosse, Marta Sanz chiude il suo ciclo di romanzi con il detective Arturo Zarco. È un romanzo su una fossa comune ai tempi della guerra civile spagnola. C’è una donna, Paula Quiñones, già incontrata in altri romanzi di questa serie, che cerca di localizzare queste tombe; c’è un hotel inquietante; c’è una famiglia sospettata di atrocità. C’è un informatore, c’è un crimine avvenuto qualche tempo prima. C’è il detective Arturo Zarco, l’ex marito di Paula, che è citato in questo romanzo ma non vi compare. Come fa Marta Sanz a trasformare tutto questo materiale umano e storico in un romanzo di alto livello estetico? Costruisce voci, quelle delle persone coinvolte nell’indagine di Paula; costruisce spazi concreti e mentali; decostruisce i discorsi che intersecano quelle voci, esponendo le zone oscure del romanzo. E, soprattutto, espone con drammatica lucidità la meccanica e la scrittura stessa del romanzo. Il suo fare diventa autocosciente. Tutto porta allo smarrimento, alle biforcazioni. Come se ci dicesse che questo è l’unico modo per essere trasparenti nel raccontare una storia così terribilmente opaca.
J. Ernesto Ayala-Dip, El País
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