Bix Bouton è un “semidio tecnologico” dalla faccia di pietra, fondatore della mega-entità di social network Mandala. Di giorno si dedica al suo impero. Di notte si traveste e s’intrufola in un gruppo di discussione di laureati della Columbia university. Bix è infatti a corto d’idee. Ma i dibattiti notturni sconfiggeranno il suo grande vuoto. Sulla loro scia, creerà un gadget domestico che consente di copiare la mente (una sorta di unità di backup corticale) e uno spiritus mundi in abbonamento. Gli utenti che accettano di caricare il proprio cervello avranno accesso ai contenuti anonimizzati di ogni altro utente, vivo o morto; un grande “vortice” di memoria e pensiero. Vi chiedete l’identità di una bella sconosciuta, la macabra verità su un omicidio o il destino di un amico perduto da tempo? Basta eseguire un riscontro facciale sulla CollectiveConsciousness™. Su questo sfondo di crescente trasparenza – che Egan chiama “l’era dell’auto-sorveglianza” – La casa di marzapane racconta storie di ricerca. Un eroinomane in fase di recupero considera la possibilità di redenzione di Dungeons and dragons. Un programmatore innamorato colleziona ninnoli nella speranza che gli trasmettano affetto. Un’ex spia si preoccupa che i suoi pensieri non siano più suoi. Ecco, ancora, il romanzo come rete: ogni racconto – ogni nodo – può essere ricondotto all’appartamento di New York dove Bix sta aspettando l’illuminazione. Egan prende il titolo da Hansel e Gretel e dalla trappola della strega cattiva. È una metafora per la scarica di dopamina dei social network e per i compromessi che facciamo per partecipare alla vita online. Tanti Hansel e Gretel che vagano da soli nel deserto con la loro fame disperata. È desiderio insaziabile che il romanzo mette in luce in modo così tenero.
Beejay Silcox, The Guardian
Il romanzo di Fonseca, intelligente, evocativo e atmosferico quando vuole, preciso e analitico in molti altri tratti, ha l’energia ossessiva di un postmodernista nordamericano, e allo stesso tempo un carattere proprio. Il libro ci porta in diversi scenari e temporalità attraverso due linee narrative che potremmo anche chiamare “indagini”. Da un lato, il rapporto tra un museologo e una stilista, accomunati dalla fascinazione per l’idea che tanto la natura quanto la cultura non siano altro che la ripetizione infinita di un modello archetipico. Dall’altro, il processo a un’ex modella scomparsa che ricompare come artista specializzata nel diffondere notizie false. Con questi ingredienti, e con la figura del subcomandante Marcos sullo sfondo a tenere il romanzo ben saldo alla sua dimensione storica, Fonseca costruisce un testo fortemente politico, un’analisi di un mondo di simulazioni, situato tra il deserto e l’astrazione, il nuovo e il vecchio, la teoria e il diritto, ma in cui anche i mostri possono essere una farsa. E ogni farsa, ci dice, ha delle conseguenze. È il racconto di un mondo di identità confuse in cui imboscarsi in una prigione autoinflitta si rivela l’unica forma possibile di lucidità.
Nadal Suau, El Cultural
Confinata in un letto d’ospedale, con il suo corpo di ottantaseienne che si sta spegnendo e la mente che va in frantumi, Francie chiede a un’infermiera di portarle un romanzo contemporaneo. L’infermiera torna con Il teatro di Sabbath, l’opera sessualmente esplicita di Philip Roth su un viscido anziano suicida. È solo una delle tante umiliazioni subite dalla povera Francie nel romanzo dell’australiano Richard Flanagan. Sopravvissuta al cancro e all’idrocefalo, Francie è di nuovo in ospedale quando si apre il romanzo. Le sue condizioni peggiorano dopo una caduta e un’emorragia cerebrale. Mentre il declino di Francie accelera, i suoi tre figli diventano sempre più determinati a tenerla in vita, con la complicità di un sistema sanitario che, secondo Flanagan, è più interessato al proprio bene che a quello dei pazienti. Ma questa non è la storia di Francie. È la storia di Anna, la primogenita, la narcisista della famiglia. Anna inizialmente desidera che Francie muoia per porre fine al suo dolore. Ma poi interviene il suo ego, e decide che la madre deve vivere. Da lì, le giustificazioni di Anna per il tormento di Francie si accumulano come tante fatture mediche.
Jake Cline, The Washington Post
Il romanzo di Anne Berest si legge come una saga appassionata in forma di thriller tragico. Tutto comincia con la scoperta, il 6 gennaio 2003, di una cartolina anonima nella cassetta delle lettere di famiglia. Sul retro sono riportati i nomi di quattro antenati della protagonista, uccisi ad Auschwitz. Quasi vent’anni dopo, la nostra eroina decide di risolvere il mistero. Comincia interrogando la madre, che le racconta in dettaglio le tribolazioni della famiglia Rabinovitch. Tutto è rapido in La cartolina. I capitoli sono brevi, lo stile è semplice, crudo, quasi spoglio. Il potere evocativo di Anne Berest non è meno sorprendente. Il lettore quasi dimentica che la scrittrice sta raccontando la sua stessa storia. Molto rapidamente, la saga diventa autofiction. Infatti, per portare a termine la sua indagine e dissipare le ombre che circondano il destino della sopravvissuta, sua nonna Myriam, deve esplorare la sua stessa psiche – mettendo in discussione la sua identità, il suo complesso rapporto con l’ebraismo. Solo nelle ultime pagine la scrittrice-detective rivela l’autore della cartolina. A quel punto, il lettore avrà compiuto un viaggio letterario, storico e umano profondamente toccante.
Philippe Chevilley, Les Echos
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