Caro stronzo – un titolo fatto per colpire – è un buon esempio di cosa sia un ossimoro, figura retorica che unisce due parole dal significato apparentemente contraddittorio. E Virginie Despentes ha un gusto per le contraddizioni tanto quanto per le parolacce: non le interessa la purezza del linguaggio né la purezza degli esseri umani. Questo è il suo romanzo post-MeToo. Il caro stronzo del titolo è Oscar Jayack, uno scrittore sulla cinquantina. Dopo aver pubblicato su un social network un messaggio dispregiativo su un’attrice, Rebecca Latté, lei gli scrive per insultarlo a sua volta. Lui si scusa e le rivela che si erano conosciuti, quando Rebecca frequentava la sorella maggiore di Oscar. Anno dopo anno, comincia una corrispondenza tra l’autore di (relativo) successo, che è stato “metooizzato” da una donna che pensava di corteggiare dieci anni prima quando la pedinava, e la cinquantenne, che è sempre meno ricercata dall’industria cinematografica (“Vuoi sapere cosa significa essere cancellati? Parla con un’attrice della mia età”). Una terza voce si fa sentire, , quella dell’accusatrice di Oscar, Zoé Katana, che cura un blog femminista molto seguito. L’espediente è inevitabilmente un po’ artificioso e a volte fa virare il romanzo verso il saggio. Ma se c’è una sincerità che tocca il cuore, è quella con cui Des-pentes si cala alternativamente in queste tre voci per far sentire la loro vulnerabilità, la loro rabbia, anche la loro malafede. Caro stronzo è un inno all’amicizia, il legame che può rendere le persone meno “stronze”, rendere la vita più sopportabile e perfino salvarla.
Raphaëlle Leyris, Le Monde
In uno dei filoni narrativi di Il paese dei fiori oscuri, nel 1989 un gruppo di studenti va nel villaggio immaginario di Dunkelblum, nel Burgenland austriaco, per ristrutturare il cimitero ebraico. Una notte il cimitero viene profanato, le tombe imbrattate con slogan antisemiti. Il sindaco Koreny è sicuro: “Una bravata da giovani sbronzi, la gente qui non è così!”. Ma invece è proprio così. Perché Dunkelblum è il nome in codice della città di Rechnitz, non lontano dal confine con l’Ungheria. Qui, fino a poco prima della fine della seconda guerra mondiale, si trovava un castello di proprietà della contessa Margit Batthyány-Thyssen, erede della fortuna del gruppo Thyssen. Prima della domenica delle palme del 1945, gli uomini delle Ss e i loro collaboratori celebrarono una festa come ospiti della contessa. Parte di questa festa fu il massacro di circa duecento forzati ebrei. Dopo l’omicidio di massa, i responsabili continuarono a festeggiare. Un’indagine sul crimine fu fatta naufragare. L’attenzione di Menasse si concentra sulla rete sociale le cui maglie nascondono ciò che accadde la notte del 24 marzo 1945. Vuole dimostrare che il presente, almeno quello austriaco, è tuttora determinato da un modo di affrontare il passato che fa dei crimini il risultato di una bravata.
Hanna Engelmeier, Süddeutsche Zeitung
Il romanzo di Lisa Balavoine è la storia di un ragazzo solitario innamorato di una ragazza solare. Un ragazzo diverso, resistente alle ingiunzioni di genere, non disposto a recitare il ruolo che ci si aspetta da lui, quello del maschio combattente, del dominatore: “Perché diciamo che il sesso maschile è il primo sesso?”. Quando il romanzo si apre, lui giace inerte nel biancore sterilizzato di una stanza d’ospedale. Accanto a lui, su una sedia, la ragazza solare aspetta che si svegli. Lei è libera, ha corso dei rischi. E contro ogni aspettativa, anche lui ha corso dei rischi per aiutarla. Il romanzo rivela la loro storia dal punto di vista del ragazzo, la cui voce è infinitamente toccante. Lisa Balavoine ha scelto i versi liberi per farla ascoltare, per darle il suo ritmo, la sua musica, la sua fragilità e la sua potenza. Cos’è la virilità? Come essere un uomo in un mondo che fatica ad accettare la libertà delle donne? I capitoli si susseguono come tanti frammenti poetici dalle sonorità sottili, per comporre il ritratto caleidoscopico di un ragazzo che saprà, alla fine, scegliere le sue battaglie.
Michel Abescat, Télérama
Il libro è un poema della sconfitta, un thriller psicologico su una famiglia terribilmente disfunzionale. Un tema eterno, ma trattato in un modo che non ha precedenti nella letteratura romena di oggi. L’adolescente Aleksy è invitato dalla madre a trascorrere un’estate insieme in Francia. Aleksy aveva una sorella minore, Mika, gentile e pura, “il nostro caro ragno che ci aveva intrappolati tutti nella sua tela incantata”, la sorella che era “l’unica ragione per cui per qualche anno ci siamo sentiti una famiglia”. Ma Mika è morta e la narrazione non offre nessun commento, se non che “sarebbe stato meglio se mio padre fosse morto al suo posto”. Il padre di Aleksy è un personaggio di rara volgarità. L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi è il racconto della vacanza del figlio con la madre che sta vivendo i suoi ultimi mesi di vita, in preda a un cancro aggressivo. Imparano a parlarsi, a lenire le crisi dell’altro, a mangiare e bere insieme, a funzionare nel modo più normale possibile. Questo figlio solitario nascerà con lei una seconda volta mentre le loro identità si riconfigurano. La narrazione è volutamente sospesa nell’ambiguità. Questo romanzo autobiografico è un tentativo di esorcizzare alcuni demoni personali.
Iulia Alexa, Revista Cultura
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