L’interesse dello scrittore australiano Gerald Murnane per le corse di cavalli si è acceso leggendo lo Sporting Globe nel 1946, l’anno delle 15 vittorie consecutive di Bernborough. Questo cavallo eccezionale diventa quasi il modello sul quale Murnane decide di organizzare (o non organizzare) la sua vita: tre mesi in un seminario cattolico, un lavoro impiegatizio alla Royal mint, la zecca reale, due anni alla facoltà di scienze dell’educazione e dieci anni di insegnamento a scuola, sempre cercando di scrivere (un romanzo, racconti e poesie). Vent’anni dopo lavora come docente universitario e nel suo ufficio ha un tabellone su cui ha attaccato tre immagini: Emily Brontë, Marcel Proust e il suo cavallo preferito. Le corse per Gerald Murnane sono un universo a sé. Se si potesse dedicare esclusivamente ai cavalli potrebbe fare a meno di avere una fidanzata o una moglie, nonostante sia stato felicemente sposato con Catherine per 45 anni. A parte sporadiche confessioni personali Qualcosa per il dolore offre osservazioni molto nitide su una gran quantità di personaggi.
Bernard Whimpress, The Newtown Reviewof Books
Il sogno è un’impresa che lo scrittore messicano Álvaro Enrigue affronta con l’ispirazione di uno sciamano e con il coraggio del creatore ribelle che anziché inchinarsi all’evidenza dei fatti storici decide di reinventarli. Perciò non è uno di quei romanzi storici la cui ossessione per la verità porta solo a una sequela di sbadigli. Passiamo dagli intrighi di palazzo all’incantamento che la vista dei cavalli provocò in Montezuma, dall’arte della politica personificata da Tlilpotoncatzin alla nudità violata della schiava Malinalli, dalla pestilenza portata in Messico dagli europei al fetore degli emissari unti dal dio Huitzilopochtli, da Gesù a Quetzalcóatl. E tutto ci sembra così familiare e allo stesso tempo irreale perché tutto – i sotterranei, le fontane, le camere e le piazze – esiste solo grazie al potere rianimatore della scrittura. Benvenuti nella Tenochtitlán alternativa di Álvaro Enrigue, non quella che ci descrivono le cronache antiche ma quella che è possibile desiderare e immaginare. Non si parla solo di quella metropoli incantata ma naturalmente anche di Montezuma e di Hernán Cortés (e di quella che viene chiamata la Conquista). I due sono ugualmente ambiziosi, sanguinari, tenaci e deboli quando la loro ragione vacilla. Quanta umanità riescono a mostrare ai nostri occhi? E soprattutto non sarebbero così se non fossero stati immaginati e portati al limite delle loro enormi imprese da un grande scrittore.
Roberto Pliego, Milenio
Edwin Vincent de Valu, redattore disamorato della casa editrice Panderic, un giorno trova un manoscritto sorprendente nel mucchio della robaccia che arriva di solito: un manuale di autoaiuto che funziona davvero. Scritto in modo atroce, coperto di adesivi di margherite e lungo più di mille pagine, a pochi mesi dalla pubblicazione Quello che ho imparato sulla montagna del misterioso Rajee Tupak Soiree sostituisce qualunque altro libro nei negozi e il mondo si ferma. Crollano le aziende del tabacco, i cartelli della droga, le catene di fast food, i fabbricanti di armi, le case di moda, le cliniche di disintossicazione e anche la borsa stessa; insomma viene giù tutto quello che lucra su nevrosi e avidità. La Panderic, più ricca di un paese di medie dimensioni, decide di registrare la parola “felicità” ma Edwin fa parte di quel 3 per cento di popolazione che ne è immune e decide di riportare tutto al suo posto. Quando Ferguson è bravo riesce a essere molto divertente, ma a volte perde il ritmo. Nella seconda parte del romanzo ci sono talmente tanti discorsi sulla bellezza della vita vera (con le sue tristezze, i suoi errori, i suoi imprevisti) che verrebbe voglia di mettersi a mangiare unicamente germogli alfalfa e soia solo per fargli dispetto. Per me però le parti più disturbanti di Felicità® sono nel primo capitolo, in cui Edwin de Valu rovista nella pila dei manoscritti: molte delle proposte assurde che descrive sono simili a cose che io avevo spedito alle case editrici.
Alexander Masters, The Guardian
La giornalista Rachel Aviv nell’introduzioine di Stranieri a noi stessi ripercorre la sua esperienza di bambina anoressica. Aviv collabora con il New Yorker e si occupa di casi difficili che hanno a che fare con salute mentale e giustizia. Ha molto senso dunque che Stranieri a noi stessi sia diviso in cinque storie di persone (Aviv è la sesta), quasi sempre statunitensi, che hanno combattuto con il disagio mentale e con i modi usati per raccontarlo. La sua forza è il reportage narrativo e le storie personali s’intrecciano con parti più teoriche: quelli di Aviv possono essere definiti dei casi clinici. Il titolo del libro è tratto dal diario di una donna di nome Hava che l’autrice aveva conosciuto da ragazzina ai tempi del suo primo ricovero per anoressia. A prima vista i cinque personaggi al centro del racconto sembrano avere poco in comune, ma la cosa che li unisce è un impulso a cercare di comprendersi attraverso la scrittura, anche se il loro scrivere va avanti all’infinito. La voce giornalistica di Rachel Aviv è esperta e affidabile e lei si muove con passo leggero. Ma ci mostra anche che la scrittura può essere un atto ossessivo. Soprattutto quando si cerca di usarla per curarsi.
Jane Hu, Vulture
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