I drusi di Belgrado, vincitore dell’International prize for arabic fiction nel 2012, prende spunto dalla storia del paese natale dell’autore. Racconta la storia dei drusi che furono esiliati dal Libano dopo i massacri avvenuti nel 1860, negli scontri tra cristiani e drusi. Il romanzo si apre con un cristiano, Hanna Yaqub che, a causa di uno scambio d’identità, viene catturato insieme ai drusi in esilio. Jaber delinea il drammatico declino dell’Impero Ottomano e l’ascesa delle potenze europee nell’ottocento. Ma la cosa più notevole del romanzo è che racconta la storia dal basso, adottando la voce di un personaggio sfortunato ed emarginato, appunto Hanna Yaqub, che diventa così una sorta di eroe tragico. In questo romanzo, Jaber sposta i suoi eventi dal Libano visto come “luogo” al Libano inteso come “dilemma”: gli eventi si svolgono in terre straniere (i Balcani), ma il paese è ancora al centro del romanzo attraverso il dilemma che i libanesi portano nel cuore, quello della loro identità. Tutti i personaggi del romanzo vivono uno stato di crisi, o esistenziale o legata al luogo in cui si trovano. L’autore getta il suo protagonista in esilio, piantandolo in una terra che non è la sua e facendolo combattere con un destino che non era pensato per lui, riflettendo la fragilità della condizione umana di fronte al dipanarsi della storia. Jaber usa una lingua semplice, bella, ma allo stesso tempo scioccante che arriva al cuore del lettore.
Sayed Mahmoud, Ahram online
Mook Miran, l’indomita protagonista di questa avvincente storia ambientata sullo sfondo di una turbolenta Corea, afferma di aver vissuto l’occupazione giapponese, il conflitto coreano e la seconda guerra mondiale. Partendo dagli abusi subìti da bambina, la quasi centenaria Mook racconta la sua incredibile esperienza di sopravvissuta a uno scrittore di necrologi, in una residenza per anziani in Corea del Sud. Questo romanzo brillante e originale racconta la storia di una donna che, tra le altre cose, fu costretta alla schiavitù sessuale e che fece tutto il possibile, compreso un omicidio, per salvarsi la vita. Mook è stata una terrorista, una schiava, una spia e un’esperta dell’evasione, ma era anche un’amante e una madre. Mirinae Lee ci regala un personaggio autentico, tormentato da una vita di orrore.
Carol Memmott, The Washington Post
William T. Vollmann è un poeta dei bassifondi e con Puttane per Gloria ha messo a fuoco l’essenza delle sue ossessioni: la ricerca di amore e redenzione tra la disperazione e l’autodistruzione. I suoi lettori riconosceranno l’ambientazione preferita di Vollmann, la zona del Tenderloin a San Francisco con le prostitute da 20 o 40 dollari a botta che affollano le viuzze laterali. La trama è scheletrica: Jimmy, un reduce della guerra del Vietnam squattrinato, paga le prostitute per farsi raccontare le loro storie o per farci sesso, ma solo occasionalmente, quando gli riesce. Jimmy prova inutilmente a ritrovare o in qualche modo a ricreare una prostitua di cui si era innamorato e che ha perduto: Gloria. Gloria, la più bella di tutte, la quintessenza delle fantasie maschili. Poco importa se è frutto dell’immaginazione di Jimmy o se è una donna che ha realmente conosciuto. È comunque una fantasia che lui cerca, anche grottescamente, di riportare in vita. La forza del romanzo, la sua poesia, è nei ritratti delle prostitute, dei travestiti e dei papponi che popolano i marciapiedi del Tenderloin. Puttane per Gloria è un romanzo nel solco della tradizione di Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby Jr (nel tema della redenzione attraverso il disprezzo di sé e nella discesa negli abissi del sesso) e delle parole delle canzoni di Lou Reed. La forza della scrittura di William T. Voll-mann trasforma questo libretto in un poema lirico di strada, triste e bellissimo.
Catherine Texier, The New York Times
Statue viventi è un piccolo libro illustrato comparso sette anni dopo la morte del suo autore. Günter Grass andò a Naumburg alla fine degli anni ottanta “mentre il muro era ancora in piedi”. Il premio Nobel scrive di questo viaggio in un racconto inedito che è una scoperta letteraria importante. Nella città di Naumburg Grass viene colpito, nel coro della cattedrale gotica della città, dalla scultura di Uta che “sta dove è sempre stata”, accanto al marito Ekkehard, “e tiene il viso in parte nascosto dal collo del mantello tenuto sollevato a destra”. I turisti nella cattedrale sussurrano e in città c’è un forte odore di brace e Ute, la moglie di Grass, assaggia
l’Ostwurst in un chiosco in piazza. Il titolo Statue viventi si riferisce a una giovane artista di strada che l’autore nota dopo davanti alla cattedrale: se ne sta lì immobile truccata e in costume, ed è identica alla statua di Uta. Monetine e banconote piovono in un piatto di latta accanto a lei. Lo scrittore rimane lì a osservarla senza avere il coraggio di parlarle. La scultura antica di secoli sembra essere viva, in carne e ossa. In questo breve testo, cominciato nel 2003 nell’isola danese di Mön e in parte dattiloscritto su una macchina da scrivere portatile, Günter Grass si limita a osservare tenendo insieme quelle arti in cui eccelle: la scultura di piccole figure in terracotta, il disegno a matita e a carboncino e la scrittura che lo aiuta a giustapporre storie di secoli lontani.
Cornelia Geißler, Berliner Zeitung
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