Ho sentito il telefono vibrare in tasca, ma non volevo rispondere perché stavo entrando nella torre dell’olocausto del Museo ebraico di Berlino. Dovevo concentrarmi sul “vuoto svuotato” di quello spazio di cemento spoglio, accessibile da una sola porta e rischiarato da una lama di luce che arriva dall’alto. Sono rimasta in piedi al freddo e al buio per qualche minuto, assorbendo la sensazione di assenza e perdita. La stanza è in fondo al sentiero sotterraneo dell’edificio progettato dall’architetto Daniel Libeskind, aggiunto di recente al museo. La costruzione è pensata per restituire “il vuoto fisico che deriva dall’espulsione, dalla distruzione e dall’annientamento della vita degli ebrei durante la shoah”.
Ero a Berlino per una conferenza e avevo dedicato il mio giorno libero al museo. La capitale tedesca, e il destino dei suoi ebrei, hanno sempre tormentato i miei pensieri di palestinese. Le atrocità dell’antisemitismo europeo sconvolsero tutto il mondo, compreso il nostro. E ancora oggi a Berlino la politica israelo-palestinese continua a essere al centro della scena. La città ospita importanti comunità di palestinesi, arabi e israeliani. Ma non solo: con il suo tentativo tardivo di affrontare l’antisemitismo, la Germania ha trasformato in bersagli i musulmani in generale, e i palestinesi della diaspora in particolare.
Uscita dalla torre, prima di proseguire la visita, ho sbloccato il telefono. Avevo notifiche su tutte le chat e i social network. I miliziani di Hamas avevano sfondato la recinzione militarizzata che circonda la Striscia di Gaza, erano entrati negli insediamenti vicini al confine, uccidendo un numero imprecisato di persone e catturando ostaggi. Gli studiosi e gli attivisti con cui sono in contatto cercavano di dare un senso a quello che succedeva e che sarebbe successo. Ma io non ero realmente in grado di comprenderne la portata.
Ho trascorso il resto della giornata oscillando tra la lettura dei pannelli informativi del museo e la ricerca di aggiornamenti sulle notizie. Ho imparato a conoscere gli ebrei delle città tedesche di Worms e Mainz, e la loro storia radicata nell’Ashkenaz (termine che indicava la regione a nord delle Alpi, ma poi è stato usato per parlare dell’Europa centrale e orientale). Ho appreso che quando l’Europa cristiana lanciò le crociate nel Levante uccidendo migliaia di musulmani attaccò anche le comunità di ebrei, incendiando i loro quartieri e cacciandoli dalle città.
Intanto controllavo sul telefono l’ultimo bilancio delle vittime. Guardavo i video sulla vita degli ebrei tedeschi ai tempi della repubblica di Weimar e sui dibattiti dell’epoca tra gli assimilazionisti, cioè gli ebrei convinti di poter avere un posto nella società europea, e i sionisti, sostenitori della necessità di emigrare. Aggiornavo i liveblog per leggere le dichiarazioni dei leader di tutto il mondo, mentre il numero delle vittime cresceva. Era come impregnarmi della violenza di epoche diverse, con il sangue dell’una che si mescolava a quello dell’altra.
Una serie di video mostrava la diversità della comunità ebraica. Tra le varie voci c’era quella di un anziano che si definiva orgogliosamente socialista. Alla domanda se si sentisse a casa in Germania, rispondeva: “Se non fosse stato creato Israele, non sarei rimasto in Europa”. È un sentimento familiare agli ebrei di tutto il mondo. In una realtà che aveva mostrato quanto gli assimiliazionisti si fossero sbagliati, Israele era la polizza assicurativa. Garantiva protezione agli ebrei. Finché fosse esistito, gli ebrei avrebbero potuto vivere ovunque sentendosi al sicuro. Ma era davvero così?
“Sicura” non è la parola che userei per descrivere questa situazione
Profughi e sfollati
La fondazione d’Israele diede effettivamente agli ebrei uno stato che li rappresentava, e questo ha un significato enorme per il popolo ebraico, e soprattutto per chi aveva avuto esperienza dell’olocausto nella propria famiglia. Ma dato che nella terra dove sarebbe nato Israele viveva già un’altra popolazione, parte di un’antica civiltà araba – i palestinesi, con il loro nazionalismo – quello stato comportava un prezzo altissimo. La formazione di un nuovo stato può essere un “processo che genera profughi”, faceva notare quarant’anni fa il politologo Aristide Zolberg. Con la fondazione di Israele furono espulsi 750mila palestinesi, una massa di profughi e sfollati interni che accerchiavano il nuovo stato da ogni lato. Questi profughi sono aumentati a ogni nuova espansione territoriale di Israele, compresa l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967. A quelle persone fu negato il diritto di tornare nelle loro case, accrescendo la loro legittima rabbia. “Sicura” non è la parola che userei per descrivere questa situazione. Naturalmente i palestinesi non sono mai stati al sicuro.
Israele ha mantenuto il controllo su questa popolazione con un’occupazione militare progressivamente più violenta, con un sistema complesso di permessi e lasciapassare, e politiche di esproprio che hanno spinto ad andarsene quelli che erano rimasti. Successivamente ha usato strumenti come il blocco terrestre, aereo e marittimo di Gaza, che continua a devastare generazioni di persone, e il muro di separazione alto nove metri che ha trasformato le cittadine della Cisgiordania in ghetti affollati, circondati da insediamenti ebraici in espansione (e pericolosamente pieni di armi).
Come osserva lo storico Daniel B. Schwartz nel libro Ghetto. Storia di una parola (che sarà pubblicato in Italia da Hoepli), il ghetto occupa “un posto di primo piano in quasi tutti i principali sviluppi della storia moderna degli ebrei”. Israele è emerso come risposta al ghetto in cui avevano sofferto gli ebrei di tutto il mondo. Ai palestinesi non sfugge il paradosso di uno stato nato come “antitesi” al ghetto, ma che ricorre alla ghettizzazione come strategia di controllo. L’infrastruttura coercitiva è stata ovviamente accompagnata dall’onnipresente violenza fisica: incarcerazioni, demolizioni di case, bombardamenti aerei e così via.
Grandi accordi
Le rivolte contro questa situazione e l’uso della violenza sono state frequenti. Per un po’ l’idea della soluzione dei due stati è sembrata una possibile via d’uscita. Ma è stata rapidamente abbandonata. Negli ultimi anni i funzionari israeliani e i loro interlocutori nella comunità internazionale non hanno neanche finto di cercare una soluzione. Persone coinvolte nei colloqui di pace, come il negoziatore statunitense Aaron David Miller, hanno ammesso di aver fallito a causa della propria parzialità, con gli inviati statunitensi che arrivavano a mettersi in cattiva luce pur di sostenere la posizione israeliana.
Abbandonando la soluzione dei due stati la comunità internazionale – e soprattutto gli Stati Uniti – hanno permesso a Israele d’ignorare il problema, di espandere gli insediamenti e rendere ancora più insostenibile la vita dei palestinesi. Intanto lo stato ebraico concludeva accordi con altri governi della regione, accantonando del tutto la questione. Se si parla dei palestinesi, nel migliore dei casi è per sottolineare i piccoli miglioramenti delle loro condizioni di vita grazie agli incentivi economici, o nel peggiore per chiedersi (come ha fatto il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich) quando i palestinesi “si arrenderanno o si trasferiranno”. Per chi osserva la politica israeliana e palestinese con un minimo di onestà, gli eventi del 7 ottobre sono stati sconvolgenti e orribili, ma non sorprendenti.
I movimenti di protesta palestinesi erano già stati repressi, la società civile bersagliata e svuotata, e praticamente ogni forma di attivismo politico a favore dei palestinesi criminalizzata. Inoltre i palestinesi hanno assistito alla firma di “grandi accordi di pace” che hanno dato per scontata la loro sottomissione e sono stati celebrati da autoproclamati difensori della democrazia, come gli Stati Uniti, insieme a regimi autoritari come quelli degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein. La violenza era presente, cresceva, e l’esplosione si avvicinava. Non era questione di se, ma di quando.
La barbarie dell’occidente spinse gli ebrei che avevano vissuto in Europa per secoli a cercare la sicurezza lontano dall’antisemitismo, che sembrava resistere a ogni tentativo di assimilazione. Ora l’ipocrisia dell’occidente – che accetta ogni decisione di Israele, inviandogli armi, bloccando gli aiuti umanitari ed emarginando i palestinesi – alimenta la violenza che minaccia di far precipitare la regione nel caos, con effetti su tutto il mondo. Questa dinamica è sempre stata pericolosa per ognuna delle parti coinvolte, ma per un po’ è stato facile ignorarla perché erano i palestinesi a sopportarne il peso. Un attacco come quello del 7 ottobre ha sconvolto il mondo. Ma questo dimostra anche che il mondo ha da tempo normalizzato la mancanza di sicurezza per qualcuno.
La risposta per garantire sicurezza e protezione, agli ebrei e agli altri, continua a essere legata allo stato-nazione e alla sua sovranità, ai confini militarizzati e all’ossessione per la demografia. Ma come dimostra la storia moderna idee simili possono portare con sé politiche basate sull’esclusione e violenze di massa. Forse la cosa peggiore è che si afferma un concetto limitato di sicurezza, cioè che sia lo stato a dover essere difeso, non le persone. Che sia lo stato a detenere la sovranità, non il popolo. Questa logica porta con sé delle politiche in base alle quali alcuni elementi della società sono considerati una perdita accettabile nei conflitti, sacrificabili in nome dello stato. Inoltre facilita una visione essenzialista del mondo, che non tiene conto della storia delle migrazioni umane e non lascia spazio a una fluidità dell’identità.
Cambio di paradigma
Gli eventi attuali, invece, dovrebbero farci capire che, se l’unica “soluzione” proposta è mantenere lo status quo, tutte le strade conducono necessariamente alla violenza. Per metterle fine bisogna trovare soluzioni ai problemi che la alimentano. Per esempio, organizzazioni palestinesi come Al Haq hanno fatto notare che, alla luce di un’occupazione permanente, il dominio israeliano può essere considerato apartheid. In seguito, anche ong come Amnesty international e Human rights watch sono arrivate alla stessa conclusione. I sostenitori dei diritti umani hanno cercato di affrontare la situazione partendo dai diritti, mentre studiosi come Leila Farsakh, Nicola Perugini e Rana Barakat hanno proposto di usare il colonialismo come quadro di riferimento per studiare le dinamiche in Palestina. Gli attivisti della One democratic state campaign hanno sostenuto che la soluzione dei due stati non è più praticabile e hanno provato a immaginare come si presenterebbe uno stato unico. È chiaro che nessuno di questi dibattiti ha avuto effetti concreti, perché Israele non si siede al tavolo dei negoziati. E tenuto conto della svolta a destra del suo governo continuerà a non farlo.
La comunità internazionale doveva intervenire, ma non l’ha fatto. Ha permesso a se stessa e a Israele di pensare che si poteva mantenere la sicurezza solo con la forza, lasciando il campo libero agli elementi più estremisti. E ora non impedisce crimini di guerra e trasferimenti forzati.
Ovviamente i protagonisti di un conflitto e della comunità internazionale hanno un potere d’azione, e possono fare scelte diverse. Questo valeva per le milizie sioniste prima del 1948 e per il nuovo stato di Israele, che ha cacciato i palestinesi e spesso ha attaccato i civili. Vale per la condotta di Israele a Gaza, dove finora sono state uccise più di diecimila persone. Vale anche per gruppi come Hamas. L’organizzazione è nata trentanove anni dopo la nascita di Israele, dopo gli sfollati del 1948, l’occupazione dei territori palestinesi nel 1967 e gli scontri che per decenni hanno caratterizzato il conflitto arabo-israeliano. Tuttavia, come fa notare lo studioso palestinese Tareq Baconi sul New Yorker, se non ci fosse stata Hamas, un’altra organizzazione avrebbe preso il suo posto. Ma neanche le azioni di Hamas erano inevitabili, come non lo era la presa degli ostaggi e l’attacco ai civili, osserva l’intellettuale palestinese Azmi Bishara. In proposito, Baconi puntualizza che “la violenza coloniale instilla la disumanizzazione sia nell’oppressore sia nell’oppresso” e che “non tutta la violenza serve a perseguire un progetto politico”. Sembra che la probabilità che si faccia ricorso a una “violenza sadica” aumenti in modo esponenziale se ci si trova in una situazione di violenza permanente.
È necessario abbandonare la convinzione che lo stato-nazione sia l’unica fonte di sicurezza e che la sovranità si basi sullo stato. Sono i popoli ad avere la sovranità: le persone hanno il diritto a una vita dignitosa, all’autodeterminazione, al controllo sul loro ambiente e alla possibilità di esprimersi sul loro futuro. I popoli possono essere sicuri solo collettivamente, assicurandosi che anche chi gli sta intorno si senta protetto. Gli stati sono il modo in cui organizziamo il nostro mondo e possono fornire delle forme di sicurezza, che però spesso sono limitate e vanno a discapito della sicurezza di altri. Lo stato che continua a negare la sovranità di un altro popolo non può fornire sicurezza. Nel nome della sovranità e della sicurezza continuerà a causare violenza.
Lo shock di assorbire decenni di atrocità mi ha sconvolto, e ho lasciato il Museo ebraico prima della chiusura per vagabondare un po’ in giro, per quelle strade da cui gli ebrei erano stati cancellati. Sono passata davanti a quel che resta della facciata della Anhalter bahnhof, la stazione che fu usata per deportare gli ebrei berlinesi. Non possiamo dire che quei fatti siano ormai relegati alla storia: ancora oggi si sentono gli effetti della violenza suprematista bianca europea.
Ero troppo annebbiata per piangere, ma sapevo che stavano per arrivare altre atrocità. Il mondo non aveva ancora imparato che l’unico modo per garantire la sicurezza è capire che è una questione di relazioni. ◆ gim
Dana el Kurd è una ricercatrice palestinese, esperta di regimi autoritari nel mondo arabo. Insegna scienze politiche all’università di Richmond, negli Stati Uniti.
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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati