Nel 2012, quando aveva trentadue anni, Alena Smith si trasferì a Los Angeles, come avevano fatto tanti scrittori e scrittrici prima di lei. Andò ad abitare in un piccolo appartamento nel quartiere di Silver Lake, a un isolato dal Vista Theatre, un cinema in stile coloniale spagnolo inaugurato nel 1923, quattro anni prima dell’introduzione del sonoro nel cinema.
Smith cercava un lavoro in televisione. Aveva preso un master in belle arti a Yale e aveva vissuto per due anni a New York, scrivendo drammi. Due delle produzioni a cui aveva lavorato erano state recensite positivamente dal New York Times, ma scrivere per il teatro aveva cominciato a sembrarle un progetto troppo ambizioso. Per pagare l’affitto aveva lavorato come governante, trascrittrice, assistente amministrativa e altro. Sembrava che né il teatro né il mondo accademico, l’altro ambiente in cui pensava di potersi inserire, promettessero un futuro economico accettabile.
Da anni i suoi amici e colleghi si trasferivano a Los Angeles, con ottimi risultati. Era il secondo decennio della televisione di prestigio: l’era di Mad men, Breaking bad e Homeland. In tv c’erano idee brillanti, voci originali, visioni innovative, e si guadagnava bene. Dopo un anno e mezzo Smith trovò un posto da sceneggiatrice per The newsroom, una serie della Hbo. Poi, nel 2015, da story editor di The affair.
Ho parlato per la prima volta con lei nell’agosto del 2023, quattro mesi dopo l’inizio dello sciopero organizzato dalla Writers guild of America (Wga) contro le grandi case di produzione di Hollywood, rappresentate dall’Alliance of motion
picture and television producers (Amptp). Nel 2013 Smith aveva cominciato a lavorare all’idea che poi sarebbe diventata Dickinson, una serie gotica, a tratti surreale, basata sulla vita della poeta Emily Dickinson. “Mi ero resa conto che si potevano fare degli episodi di mezz’ora viscerali, sexy e audaci, ma con un’ambientazione d’epoca”, dice. “Non ho mai voluto scrivere cose banali”. Nel 2017 ha venduto alla Apple l’episodio pilota e un piano di lavoro per tre stagioni. Sarebbe stata la responsabile della serie, che aveva le potenzialità per diventare una delle offerte di punta del servizio di streaming dell’azienda, non ancora lanciato.
Forze distruttive
Ripensandoci, Smith a volte si meraviglia del fatto che Dickinson sia andata in onda: “È incentrata su una protagonista femminile indomabile ed eccentrica. Parla di una poeta, e la sua poesia, difficile da capire, trova spazio in ogni episodio”. Ma era un buon momento per progetti di quel tipo. La Apple, come altre piattaforme, stava cercando di fare colpo. “Amazon Prime aveva realizzato una serie tratta da I love Dick, romanzo di culto di Chris Kraus. Cose del genere non succedono quando i produttori pensano solo al profitto”. In realtà si sbagliava. Il modello di streaming prevedeva di conquistare abbonati invece di guadagnare da singole serie. E i grandi cambiamenti stavano portando nuovi spettatori. “Era come se un intero mondo di intellettuali e artisti ricevesse una sovvenzione multimiliardaria dal settore tecnologico”, dice Smith. “Pensavamo che alle piattaforme di streaming interessasse veramente l’arte. Ma ci sbagliavamo”.
Scrivere per la Apple non era come aveva sperato. Non era mai stato chiaro cosa l’azienda volesse da lei e dalla serie. Dopo aver finito di scrivere la prima stagione di Dickinson, aveva aspettato il lancio insieme ai suoi colleghi. La piattaforma aveva ignorato le loro richieste sui tempi della messa in onda. Smith aveva cominciato a temere che la Apple potesse scartare del tutto l’idea di entrare nel mondo dello streaming, e in quel caso la serie sarebbe probabilmente scomparsa: l’unica copia del prodotto finito apparteneva alla Apple e sarebbe rimasta sui server dell’azienda.
“Mi hanno comunicato che la mia unica scelta per mantenere in vita la serie era ricominciare tutto da capo e scrivere un’intera nuova stagione senza la garanzia di un via libera. Quindi ci si aspettava che mi assumessi io quel rischio, quando le persone che avrebbero tratto il massimo profitto dal successo del mio lavoro creativo, la piattaforma e lo studio, non avrebbero rischiato un centesimo”.
Alla fine del 2019, due mesi dopo che Smith e i suoi colleghi avevano cominciato la produzione della seconda stagione da, la serie è stata presentata in anteprima come una delle quattro produzioni originali della piattaforma. Ha avuto un buon successo di critica ed è stata apprezzata dal pubblico sui social network.
Ma Smith stava perdendo lo slancio. “Mi avevano permesso di realizzare la serie solo perché ero disposta a sobbarcarmi una quantità enorme di rischi e di lavoro per anni”, dice. “E sapevo che se mai mi fossi fermata, il progetto sarebbe morto”. Non credeva che l’azienda apprezzasse il suo lavoro. Smith ora sa che la seconda e la terza stagione di Dickinson sono state le serie più viste su Apple Tv. Ma all’epoca non aveva accesso a informazioni sul numero di spettatori, perché la Apple, come altre aziende, non le condivideva. E senza quei dati Smith non aveva nulla su cui far leva. Nel 2020, dopo tre stagioni, ha deciso di non continuare. “Ho detto che non ce la facevo più. E loro hanno risposto: ‘Ok’”.
La verità era che le forze che avevano aperto le porte a Smith erano le stesse che avevano tolto importanza al suo lavoro, rovinato la vita lavorativa degli sceneggiatori e cannibalizzato Hollywood.
Gli sceneggiatori restano all’oscuro di informazioni che riguardano i progetti
Alla fine degli anni dieci del duemila il settore è stato colpito dagli effetti di decenni di deregolamentazione e investimenti speculativi. Mentre la tv di qualità cominciava a farsi strada, le grandi aziende dell’intrattenimento e dell’informazione avevano inglobato le poche più piccole ancora rimaste, e le società finanziarie si erano infiltrate nel settore determinate a ridurre i rischi e a massimizzare l’efficienza, sfiancando gli sceneggiatori e facendoli lavorare in condizioni sempre più precarie.
“L’industria sta vivendo una crisi profonda”, mi ha detto il direttore di uno studio di medie dimensioni nell’agosto 2023. “Probabilmente la più profonda della sua storia. Gli sceneggiatori perdono potere, come le maestranze. I talenti di fascia alta guadagnano più che mai, ma le persone che fanno girare l’industria vengono lasciate indietro”.
Nuove fondamenta
Hollywood è guidata da un modello economico in cui chi vince prende tutto. Dal 2021 gli amministratori delegati della maggior parte delle grandi aziende del settore hanno percepito stipendi tra duecento e tremila volte superiori a quelli di un dipendente medio. Mentre sceneggiatori-produttori come Shonda Rhimes e Ryan Murphy hanno firmato contratti per centinaia di milioni di dollari, e un gruppo leggermente più ampio di sceneggiatori di prima fascia, come Smith, si sono ritagliati una comoda vita borghese, tanti altri lavorano su incarichi a breve termine senza troppe speranze di trovare qualcosa di più stabile. All’inizio del 2023, uno sceneggiatore-produttore televisivo di media fascia guadagnava almeno il 23 per cento in meno alla settimana dei suoi colleghi di un decennio prima. I guadagni totali degli sceneggiatori di lungometraggi sono diminuiti di quasi il 20 per cento tra il 2019 e il 2021.
Anche in passato le case di produzione li spremevano, ma mai fino a questo punto. Quando è cominciato lo sciopero, nella primavera 2023, gli sceneggiatori si sono dimostrati più uniti che mai: c’è stata un’alta affluenza al voto per decidere se far partire la mobilitazione, e il 97,9 per cento ha votato a favore. Dopo cinque mesi, si diceva che lo sciopero fosse stato un successo: tra le altre cose, avevano ottenuto un nuovo meccanismo per i diritti d’autore dello streaming, nuove durate minime dei contratti televisivi e più garanzie per la retribuzione delle sceneggiature.
Ma il modello economico di Hollywood era profondamente cambiato. I nuovi padroni del settore – enormi conglomerati aziendali, gestori di patrimoni e società di capitale privato – non si erano limitati a spremere i lavoratori e ad accaparrarsi una quota sproporzionata dei profitti. Avevano tolto valore al sistema di produzione, minacciando la sostenibilità degli studi. Gli imprenditori di oggi non sono necessariamente interessati all’arte, alla salute di ciò che pensiamo sia Hollywood, un luogo e un sistema dove avviene uno scambio tra creatività e capitale. Le vittorie sindacali non hanno minimamente intaccato questo aspetto.
Oggi la macchina avanza a fatica. Secondo una ricerca di Bloomberg, nel 2013 le principali aziende cinematografiche e televisive dichiaravano più di venti miliardi di dollari di attivo. Nel 2022 la cifra era dimezzata. Dal 2021 al 2022 la crescita dei ricavi del settore è diminuita di quasi il 50 per cento. Alla fine del 2023 gli incassi dei cinema statunitensi erano scesi del 22 per cento rispetto al 2019. Lo streaming è stato raramente redditizio. Fino a poco tempo fa, Netflix era l’unica piattaforma a fare profitti. Tra le altre, nel 2023 solo quelle della Warner Bros. Discovery hanno avuto degli utili. E ora la corsa all’oro è finita. Nella primavera del 2022 la Federal reserve ha cominciato ad aumentare i tassi d’interesse dopo anni di credito quasi gratuito e, più o meno nello stesso periodo, Wall street ha presentato il conto alle piattaforme. I prezzi delle azioni di quasi tutte le principali aziende di streaming sono scesi vertiginosamente.
Dopo I Soprano
L’industria nel suo complesso sta affrontando un periodo di grave contrazione. Tra l’agosto del 2022 e la fine del 2023 l’occupazione è diminuita del 26 per cento, più di un posto di lavoro su quattro è stato tagliato. Nel 2022 i licenziamenti hanno colpito la Warner Bros. Discovery, Netflix, la Paramount Global e altri. La crisi ha coinvolto anche le agenzie che rappresentano i lavoratori del settore, come la United talent agency e la Creative artists agency. All’inizio del 2024 è stato annunciato che Amazon avrebbe tagliato centinaia di posti di lavoro nelle divisioni Prime Video e Amazon Mgm Studios. A febbraio la Paramount Global ha licenziato circa 800 persone. Non si sa quali piattaforme di streaming sopravvivranno. Annunciando ai suoi dipendenti il licenziamento di 1.700 persone, James Dolan, presidente esecutivo ad interim dell’Amc Networks, ha detto che “i meccanismi per la monetizzazione dei contenuti sono nel caos”.
Naturalmente il profitto troverà un modo per continuare a esistere. Ci sarà sempre robaccia da guardare. Ma senza un intervento radicale, dello stato e dei lavoratori, l’industria diventerà irriconoscibile. E il mestiere dello sceneggiatore – come modo per guadagnarsi da vivere – scomparirà.
La deregolamentazione degli anni ottanta e novanta aveva favorito l’ascesa delle tv via cavo, aprendo nuove opportunità per gli sceneggiatori. Se alla metà degli anni ottanta le reti via cavo erano meno di cinquanta, alla fine degli anni novanta erano più di duecento e disponibili per quasi il 70 per cento delle famiglie statunitensi. Diverse serie della Hbo, come Sex and the city, andata in onda per la prima volta nel 1998, e I Soprano, che ha debuttato nel 1999, sono diventate fenomeni culturali, e altre reti via cavo si sono tuffate nelle serie.
Nel 1998 uno sceneggiatore dello staff di un programma via cavo di alta qualità che lavorava per cinque mesi guadagnava almeno 2.400 dollari alla settimana, per un totale di più di novantamila dollari all’anno. Gli sceneggiatori al di sopra del livello base ricevevano cifre forfettarie di più di 17mila dollari per la creazione di un episodio completo. Incassavano anche i diritti d’autore. Le reti televisive spesso pagavano gli sceneggiatori anche di più, e i contratti di solito erano lunghi. A settembre ho parlato con uno sceneggiatore cinematografico e televisivo di prima fascia che ha lavorato a una varietà di programmi tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila. “Ti sentivi come se avessi raggiunto i grandi studi cinematografici”, mi ha detto. “Dovevi essere disponibile ventiquattr’ore su ventiquattro. Lavoravi di notte. Ma ti pagavano migliaia di dollari. È stato un periodo fantastico”.
Ma dietro le quinte la deregolamentazione stava permettendo ai dirigenti di esercitare un potere straordinario, e si stava creando una nuova spaccatura tra gli interessi economici e la produzione cinematografica e televisiva. Il destino degli sceneggiatori stava per cambiare.
All’inizio degli anni duemila sei grandi conglomerate – Disney, General Electric, News Corporation, Sony, Time Warner e Viacom – controllavano tutti i principali studi cinematografici e reti televisive, oltre a una parte sostanziale delle attività via cavo. Nell’insieme rastrellavano più dell’85 per cento di tutte le entrate del cinema e producevano più dell’80 per cento dei programmi televisivi statunitensi di prima serata. A mano a mano che crescevano, le loro operazioni commerciali diventavano molto più complesse e il gioco di prestigio noto come contabilità di Hollywood – non far sapere esattamente quanto uno studio spende o guadagna, e quanto dovrebbe pagare – è diventato molto più semplice.
Personaggi riciclati
Lo sciopero finì nel febbraio 2008. Gli Stati Uniti erano da tre mesi in quella che sarebbe passata alla storia come grande recessione. Nel tentativo di stimolare l’economia, a settembre la Federal reserve cominciò a tagliare i tassi d’interesse, e nei successivi diciotto mesi diede agli istituti finanziari più di settemila miliardi di dollari di capitale. Alla fine del 2008 la Fed aveva portato il tasso di interesse quasi a zero. Con in mano una marea di contanti e credito a basso costo, le aziende di gestione patrimoniale e i finanziatori privati cominciarono a entrare in vari settori. Nel decennio successivo, tre aziende di gestione patrimoniale – la BlackRock, la Vanguard e la State Street – avrebbero preso il controllo di una parte enorme dell’economia.
Per questi speculatori Hollywood sembrava una miniera d’oro: nel settore dell’intrattenimento si moltiplicavano i licenziamenti, i tagli e le cessioni, i profitti erano dirottati verso azionisti, dirigenti e nuove imprese, spesso non legate al cinema. E grazie alla deregolamentazione dei decenni precedenti, l’industria era aperta a tutto. Le istituzioni finanziarie potevano accaparrarsi o rilevare ampie porzioni di aziende in qualsiasi area. Potevano anche acquisire o investire in gruppi in concorrenza tra loro, e lo hanno fatto, creando una sorta di monopolio mascherato. Hanno scommesso anche contro l’industria tradizionale investendo in Netflix, che prometteva di sconvolgere e dominare le abitudini degli spettatori.
L’inondazione di denaro da Wall street ha rafforzato i monopoli, accelerando fusioni e acquisizioni e trasformando grandi gruppi in colossi. Tra il 2009 e il 2019, per esempio, la Disney ha comprato la Marvel, la Lucasfilm e la 21st Century Fox. La Comcast si è presa la NbcUniversal, la DreamWorks Animation e Sky. E le finanziarie hanno fatto in modo di moltiplicare i profitti a breve termine. Andrew deWaard, studioso di economia politica dei mezzi d’informazione, ha scoperto che tra il 2008 e il 2023 è esploso l’uso di dividendi, riacquisti di azioni e capitale di rischio aziendale, che sottraggono entrate al reinvestimento in un’azienda e nella sua forza lavoro. La Comcast, che attraverso le sue sussidiarie possiede più di dieci tra reti televisive e studi, nel 2008 ha pagato più di 3,2 miliardi di dollari in dividendi e riacquisti di azioni. Nel 2022, quella cifra ha superato i 18 miliardi di dollari.
Howard Rodman, sceneggiatore della serie The idol, andata in onda su Hbo, ed ex rappresentante sindacale, spiega che dopo la recessione gli sceneggiatori di film hanno fatto sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese. I nuovi dirigenti si sono convinti che si spendeva troppo per finanziare le sceneggiature – spesso per progetti che non sarebbero mai stati realizzati –, e alla fine del decennio hanno cominciato sempre più spesso a offrire accordi brevi, che garantivano guadagni solo per un unico lavoro.
Gli sceneggiatori, sperando di sopravvivere alla crisi, hanno cominciato a lavorare molto di più. Nel tentativo di anticipare quello che può piacere al committente, gli sceneggiatori tengono conto del feedback dei produttori e dei dirigenti di livello inferiore, costruendo quelle che si chiamano bozze del produttore. Mi ha spiegato Rodman: “Il produttore ti dice: ‘Mi piace molto la tua sceneggiatura. È un’ottima prima bozza. Ma so cosa vuole lo studio. Non è questo. Quindi ho bisogno che tu renda questo protagonista più simpatico’. E tu lo fai”.
Allo stesso tempo, si sono ridotti i compensi che gli sceneggiatori possono chiedere. Gli agenti migliori, che in precedenza facevano il possibile perché i loro sceneggiatori guadagnassero il massimo, ora lavorano per aziende molto più grandi, che ricavano le loro entrate da una varietà di altre fonti e si occupano anche di rappresentare gli sceneggiatori. Nel 2019 le principali agenzie di Hollywood facevano già parte di un oligopolio, in cui quattro aziende controllano più del 75 per cento dei guadagni degli sceneggiatori della Wga. Per soddisfare i parametri di riferimento fissati dai nuovi capi – contratti conclusi, progetti realizzati – gli agenti si comportavano come produttori, dicendo agli sceneggiatori che le loro richieste economiche sono troppo alte.
I dirigenti, nel frattempo, hanno capito di poter sfruttare la cosiddetta proprietà intellettuale preesistente (Ip), cioè storie, personaggi e prodotti già familiari al pubblico. “È un modo per evitare il più possibile i rischi”, dice Zack Stentz, co-autore della sceneggiatura di Thor e X-Men: l’inizio.
Questo sviluppo ha spostato ulteriormente l’equilibrio di potere tra case di produzione e sceneggiatori. Molti di quelli con cui ho parlato mi hanno detto che la serie di personaggi e mondi cinematografici preesistenti ha dato ai dirigenti una specie di vantaggio psicologico, permettendogli di rivendicare un certo grado di credito creativo. E quando le storie basate sulla proprietà intellettuale preesistente hanno preso il sopravvento, l’autorità degli sceneggiatori è diminuita. La sceneggiatrice e producer Julie Bush mi ha detto: “I dirigenti si sentono autori dell’opera, anche se possono contare su una come me capace di creare una storia dal nulla”.
Giovani sul set
Il più grande successo nell’uso dell’Ip, cioè il Marvel cinematic universe, il franchising con i guadagni più alti di tutti i tempi, ha aperto la strada a un sistema di produzione in cui gli sceneggiatori sono spesso separati dalla concezione e dalla creazione della storia complessiva. “Lavorare con questi grandi franchising è un po’ come essere uno scalpellino in una cattedrale medievale”, mi ha detto Stentz. “Posso indicare un angolino o un arco, e dire: ‘Quello l’ho fatto io’”. In questo contesto gli sceneggiatori restano all’oscuro di tante informazioni che riguardano il progetto. Joanna Robinson, autrice del libro Mcu. The reign of Marvel studios, mi ha detto che gli sceneggiatori di Wanda vision, una miniserie della Marvel per Disney+, hanno dovuto realizzare quasi tutte le puntate senza sapere come sarebbe andata a finire: il finale era in sospeso, perché i dirigenti non avevano ancora deciso quali altri spunti avrebbero potuto tirar fuori. La Marvel ha anche cominciato a usare tanti sceneggiatori per ogni progetto che è diventato difficile stabilire chi sia responsabile di una determinata idea e debba ricevere il riconoscimento e il relativo compenso. In seguito questo modello è stato adottato da tante altre produzioni.
L’industria cinematografica e televisiva è controllata da quattro aziende
L’ondata di soldi e credito arrivata dopo la recessione ha riguardato la tv in modo diverso: per anni gli autori l’hanno considerata una grande opportunità, perché permetteva di aprire l’industria a nuovi sceneggiatori, nuovi soggetti e sembrava inaugurare un’epoca in cui era possibile sperimentare e rischiare.
Netflix aveva convinto Wall street che il suo valore poteva essere misurato dalla crescita degli abbonati, invece che dal profitto a breve termine, e le piattaforme arrivate dopo hanno adottato lo stesso modello. L’ecosistema dello streaming è stato costruito su una scommessa: un alto numero di abbonati si sarebbe tradotto in grandi quote di mercato e, infine, in profitti. In base a questa strategia, si poteva spendere un’enorme quantità di denaro in progetti dal destino incerto, di successo oppure no: più progetti significano più opportunità di conquistare nuovi abbonati. I produttori e gli sceneggiatori delle piattaforme hanno potuto mettere da parte gli indici di ascolto, il che all’inizio sembrava una cosa positiva. Netflix pagava agli sceneggiatori grandi anticipi e garantiva la produzione di un’intera stagione di una serie. A metà degli anni dieci, questa dinamica ha permesso di mandare in onda prodotti insoliti (come BoJack horseman, una sitcom a cartoni animati che ha come protagonista un cavallo) e molte serie tv create da donne e sceneggiatori non bianchi. Nel 2009 le nuove serie o i nuovi episodi di serie già in onda, tra streaming e tv, erano 189. Nel 2016 il numero è arrivato a 496, nel 2022 a 849.
Piccolo successo
Servivano sceneggiatori in grande quantità. Ma grazie al successo, l’offerta ha presto superato la domanda. Per chi riusciva a battere la concorrenza, il lavoro era molto meno stabile rispetto all’epoca precedente allo streaming. Secondo gli addetti ai lavori, in passato gli sceneggiatori di una serie erano solitamente impiegati per otto mesi per creare lunghe stagioni e rimanevano sotto contratto anche durante la produzione. Gli sceneggiatori più giovani spesso andavano sul set e imparavano come portare una storia dalla pagina allo schermo, come parlare con gli attori, come non sforare il budget, preparandosi a diventare responsabili di una serie.
Nel nuovo modello, invece, si usavano meno sceneggiatori per ogni serie e per periodi più brevi, di solito da otto a dieci settimane, e in alcuni casi solo quattro. La paga settimanale era ancora più alta di quella della maggior parte degli altri lavori: tra il 2020 e il 2023 uno sceneggiatore dello staff di una produzione di dieci settimane guadagnava almeno cinquemila euro alla settimana. Ma lavorare in più produzioni nello stesso anno non era facile. I diritti d’autore, che all’epoca non tenevano conto del successo di una serie tra gli spettatori, erano spesso bassissimi.
Il prezzo da pagare per entrare a lavorare a Hollywood era alto già da molto tempo: stage non retribuiti, posti di assistente sottopagati. Ma a un certo punto è diventato sempre più difficile inserirsi nelle produzioni. Brenden Gallagher, uno sceneggiatore televisivo con dieci anni di esperienza, mi ha detto che da quando ha cominciato a lavorare, nel 2014, non ci sono mai stati più di otto mesi consecutivi in cui non ha avuto bisogno di una fonte di reddito alternativa.
Le piattaforme di streaming e le reti tv non stavano solo destabilizzando la carriera dei singoli sceneggiatori: stavano rubando il futuro dell’industria. Ma le cose sarebbero andate ancora peggio. Le piattaforme, che presto avrebbero impiegato circa la metà degli sceneggiatori di serie tv, erano imprese esclusivamente speculative destinate a espandersi e contrarsi in base ai capricci del mercato.
Nell’aprile 2022 Netflix ha comunicato agli investitori di aver perso duecentomila abbonati nel primo trimestre dell’anno. E prevedeva di perderne due milioni nei tre mesi successivi. In pochi giorni, il prezzo delle sue azioni è sceso del 35 per cento. A settembre era sceso del 60 per cento. A novembre il prezzo delle azioni della Warner Bros. Discovery, era sceso del 61 per cento, quello delle Paramount del 49, delle Disney del 44 e della Comcast del 38. Intanto le tensioni tra sceneggiatori e dirigenti stavano aumentando e, quando nella primavera del 2023 la direzione della Wga si stava preparando per i negoziati triennali con l’Amptp, sapeva già che sarebbe stata una battaglia.
Lo sciopero è cominciato il 1 maggio 2023. A luglio è entrata in sciopero anche l’associazione degli attori, Sag-Aftra, portando ulteriore pressione sull’Amptp, e alla fine di settembre gli studi e gli sceneggiatori hanno raggiunto un accordo. A ottobre, pochi giorni dopo la ratifica del nuovo contratto, ho parlato con lo sceneggiatore Adam Conover, che ha fatto parte della squadra di negoziatori della Wga. L’Amptp è stata miope, mi ha detto, ferma a una vecchia concezione della sua forza lavoro. “Non si sono resi conto di aver fatto troppo bene il loro lavoro”, ha detto. “Le persone sono state licenziate, i salari tagliati”. Gli sceneggiatori erano stati costretti a cercare un secondo e un terzo lavoro, quindi non dipendevano più dalle retribuzioni dell’industria come in passato. Ed erano furiosi. Molti sceneggiatori che ho intervistato durante lo sciopero hanno parlato dei dirigenti con un misto di rabbia e incredulità.
Alla fine sono riusciti a ottenere un nuovo sistema di diritti d’autore per lo streaming, basato sul numero di visualizzazioni, un numero minimo di sceneggiatori coinvolti, l’impiego prolungato degli autori televisivi, e almeno due sceneggiature di lungometraggi garantite. Il sindacato ha anche costretto le piattaforme a rendere noti alcuni dati sul numero di spettatori e concordato che all’intelligenza artificiale (ia) non può essere attribuito nessun credito autoriale: bisognerà coinvolgere e pagare un autore umano, indipendentemente dai risultati dell’ia.
Mosse coraggiose
Ma quando le acque si sono calmate, si è capito che il nuovo accordo ha alcuni problemi. Le regole sul coinvolgimento degli sceneggiatori entrano in gioco solo se un responsabile decide di farsi aiutare fin dall’inizio di un contratto. Altrimenti può scrivere una stagione da solo. Spesso per gli studi è vantaggioso seguire quest’ultima strada, visto che i budget si stanno riducendo. Uno sceneggiatore mi ha detto che all’inizio del 2024 aveva già visto alcuni responsabili di serie usare questa scappatoia. Per quanto riguarda la condivisione dei dati, deWaard sostiene che l’accordo non dà molte garanzie. C’è un problema anche sui diritti d’autore per lo streaming. La soglia per ottenerli è alta: una serie o un film devono essere stati visti da almeno il 20 per cento degli abbonati nazionali di una piattaforma “nei primi 90 giorni dall’uscita o nei primi 90 giorni di qualsiasi anno di messa in onda successivo”. Come riportato da Bloomberg a novembre, meno del 5 per cento dei prodotti originali trasmessi in streaming su Netflix nel 2022 soddisfaceva questo criterio.
Dalla fine dello sciopero, l’industria ha continuato a perdere soldi. Barry Schwartz, autore con un’esperienza di quasi vent’anni nel cinema e nella tv, mi ha detto che oggi se uno sceneggiatore è a metà carriera comincia a essere “molto cauto. Nessuno presenta sceneggiature senza prima avere un contratto”, dice, “e se lo fa, non è roba originale. Sono tutti a caccia di diritti d’autore o in attesa di un incarico”. E gli sceneggiatori più giovani, aggiunge , sono timidi.
Parlando dei programmi tv e dei film che si possono realizzare, Kelvin Yu, creatore della serie American born chinese, mi ha detto: “Penso che ci sarà uno spostamento dell’industria verso una tv più sicura, che punta a tutte le fasce di pubblico”. In effetti molti sceneggiatori e dirigenti mi hanno detto che dopo lo sciopero le scelte degli studi sono diventate ancora più conservatrici. “Non vogliono progetti avventurosi”, ha detto uno sceneggiatore. “Vogliono qualcosa come Friends”.
Non c’è motivo di credere che questa cautela pagherà. La svolta basata sulla proprietà intellettuale non sta funzionando. Nel 2023 The Marvels, prodotto dalla Disney, ha perso più di 64 milioni di dollari. Il sequel di Indiana Jones è andato male, come The flash della Warner Bros. Discovery. “Il successo di Hollywood si basa sul fatto di dare al pubblico ciò che potrebbe non conoscere”, dice Stentz. “I tentativi di evitare il rischio sono destinati a fallire”. Parole che ricordano quelle dello sceneggiatore William Goldman: “Non c’è una sola persona a Hollywood che sappia con certezza cosa funzionerà”. Ma gli investimenti nell’alchimia del processo creativo non funzionano tenendo conto dei rapporti trimestrali.
L’industria cinematografica e televisiva è ormai controllata da quattro grandi aziende, che hanno un incentivo a svalutare la produzione di film e serie. Che fare? La soluzione più semplice sarebbe l’intervento dello stato. Se volesse, il presidente degli Stati Uniti potrebbe far rispettare le leggi antitrust, smantellare le conglomerate e cominciare a separare le aziende di intrattenimento da quelle di gestione patrimoniale. Potrebbe regolamentare l’uso di strumenti finanziari, come ha suggerito deWaard. Potrebbe tenere a freno il capitale privato. Lo stato potrebbe anche aumentare la concorrenza finanziando direttamente più film e programmi tv. Potrebbe stabilire un salario minimo per artisti e sceneggiatori.
È improbabile che il governo faccia interventi simili. Le industrie dell’intrattenimento e della finanza spendono somme enormi per fare pressione su entrambi i partiti, per mantenere la deregolamentazione e dare priorità al settore privato. Gli sceneggiatori dovranno combattere di nuovo contro gli studi, ma per ottenere riforme più radicali. Un cambiamento in particolare potrebbe capovolgere la struttura di potere dell’industria: gli sceneggiatori potrebbero chiedere i diritti d’autore esclusivi per le storie che creano. Attualmente hanno i cosiddetti “diritti separati”, che gli consentono di usare una sceneggiatura e i suoi personaggi per scopi limitati. Se riuscissero ad avere un controllo totale, avrebbero molta più influenza. Quasi tutti gli sceneggiatori con cui ho parlato pensano che questa strategia non si addice a un sindacato. È un punto complicato e gli esperti di diritto d’autore non concordano sulla fattibilità. Spingere per questa soluzione significherebbe essenzialmente entrare in guerra con gli studi. Ma se le cose continueranno ad andare come ora, gli sceneggiatori dovranno valutare se correre questo rischio per evitare la fine della loro professione. Oppure cambiare mestiere. ◆ bt
Daniel Bessner è professore associato di studi internazionali all’università di Washington. Collabora con la rivista Jacobin. Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Meagan Day.
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Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati