L’amministratore delegato assume la posa che è anche il suo marchio di fabbrica. Pancia nuda e pelosa tirata in dentro a formare un incavo e petto in fuori con i muscoli in evidenza. Inspira trattenendo l’aria per diversi secondi, poi espira completamente, lentamente. Se ne sta seduto su un palco a gambe incrociate, immerso nella luce accecante dei riflettori, il corpo e la fronte lucidi di sudore. Intorno alla vita porta un panno color zafferano, la barba sale e pepe è incolta e i capelli sono legati in una coda. Il suo nome è Baba Ramdev.

Il palco si trova all’estremità di un lungo capannone dai soffitti alti. Siamo all’imbrunire e fa freddo, ci saranno dieci gradi; l’aria è intrisa del sudore di tante persone. A terra, disposti in file che vanno da un lato all’altro del capannone, giovani donne e uomini, siedono a gambe incrociate su tappetini sottili, i palmi delle mani rivolti all’insù, gli occhi chiusi. Le donne hanno testa e corpo avvolti in coperte e panni spessi, e molte portano ai piedi pesanti calzettoni di lana. Gli uomini invece sono scalzi, a torso nudo e con un panno color zafferano attorno alla vita. “Ooom”, prorompe nel microfono il grande capo. “Ooom”, gli fa eco l’intero capannone espirando profondamente per diversi secondi, e poi inspirando lentamente e a fondo.

A fare da scenografia c’è uno schermo enorme su cui i primi piani di Ramdev si alternano a inquadrature del pubblico. Quattro operatori azionano grandi macchine da presa mobili, proprio come in uno studio televisivo. “È questa la via per il cambiamento universale, per la rivoluzione, per una divina e definitiva trasformazione del sé”, esclama Ramdev in hindi misto a parole inglesi – change, revolution, divine self-transformation – e, di tanto in tanto, a un rutto; a sottolineare le sue parole una melodia soave, accanto al palco un ragazzino suona il flauto di Pan.

Ramdev è uno dei più famosi guru yogi dell’India, un paese con 1,3 miliardi di abitanti. Il suo nome richiama l’unità di corpo e spirito, la purezza spirituale e l’illuminazione, il faticoso cammino verso la moksha, la liberazione dal ciclo delle eterne reincarnazioni, il fine più alto della vita di un indù. Ramdev è un baba, un autoproclamato santone.

Baba Ramdev e Acharya Balkrishna presentano gli spaghettini Patanjali, New Delhi, - Vipin Kumar, Hindustan Times/Getty Images
Baba Ramdev e Acharya Balkrishna presentano gli spaghettini Patanjali, New Delhi, (Vipin Kumar, Hindustan Times/Getty Images)

Ma Ramdev è anche un importante imprenditore, comproprietario della Patanjali Ayurved, azienda con un fatturato annuo di più di un miliardo di dollari, 30mila dipendenti e più di 2.500 prodotti commerciali. Dentifricio, purea di erbe officinali, farina di lenticchie, burro chiarificato, olio per capelli, pastiglie per la digestione: i prodotti Patanjali soddisfano ogni possibile bisogno quotidiano di una famiglia indiana.

Un santone che fa soldi a palate in veste d’imprenditore sembra un controsenso. I guru conducono una vita monacale, la tradizione vuole che rinuncino a ogni proprietà e a ogni bene terreno. Almeno ufficialmente. Ma Ramdev non è il primo a coniugare spiritualità e capitalismo: già negli anni ottanta del novecento Bhagwan Shree Rajneesh non si limitava ad aiutare milioni di persone in tutto il mondo a trovare il senso della vita, ma aiutava soprattutto se stesso a condurre un’esistenza nel lusso, collezionando Rolex e Rolls-Royce. I suoi seguaci gli intestavano interi patrimoni e per lui aprivano aziende in tutto il mondo.

Ma, al di là dei soldi, Ramdev ha altri obiettivi. “Siamo solo all’inizio”, si sente risuonare nella sala. “Prima supereremo la Unilever! Poi diventeremo il primo produttore di beni di consumo al mondo! Per più di duecento anni le potenze straniere hanno saccheggiato la nostra madre India. Oggi a saccheggiare il nostro paese sono le multinazionali, che ci vendono i loro prodotti tossici e pericolosi, pieni di sostanze chimiche. State in guardia, difendetevi! Siate indiani! Mangiate e bevete indiano! Vestite indiano! Parlate lingue indiane!”.

Preghiera del mattino a Rabindra Sarobar, Calcutta, Bengala Occidentale - Pradip Mazumder, Alamy
Preghiera del mattino a Rabindra Sarobar, Calcutta, Bengala Occidentale (Pradip Mazumder, Alamy)

Il quartier generale della Patanjali è nelle vicinanze di Haridwar, letteralmente “porta degli dei”, una delle sette città più sacre per gli indù, nello stato dell’Uttarakhand, a duecento chilometri da New Delhi, ai piedi dell’Himalaya. Haridwar è attraversata dal Gange, fiume sacro nelle cui gelide e limpidissime acque i credenti, all’imbrunire, si lavano, cantano, immergono piccole ciotole di legno con fiori, candele, bastoncini d’incenso. All’alba, invece, sulle sue sponde si accovacciano i pescatori, che tirano a terra grossi pesci.

La superstrada a due corsie Nh334 in direzione New Delhi porta fuori città costeggiando templi ricoperti di muschio, gigantesche statue di divinità, chioschi di fiori color zafferano, intere facciate che pubblicizzano film, negozi di telefonia, stazioni di servizio, cartelloni con pubblicità di latte in polvere, farina e succo di mango. Sulle confezioni c’è la foto di Baba Ramdev, il braccio sinistro appoggiato sulla spalla di un uomo più basso avvolto in un panno bianco. Entrambi guardano l’obiettivo sorridendo.

Un ristorante legato alla Patanjali, Mohali, India, 17 aprile 2017 - Keshav Singh, Hindustan Times/Getty Images
Un ristorante legato alla Patanjali, Mohali, India, 17 aprile 2017 (Keshav Singh, Hindustan Times/Getty Images)

Dopo mezz’ora di macchina il tassista imbocca l’uscita. Procedendo lungo una stradina stretta, il taxi costeggia un muro piuttosto alto fino a fermarsi davanti a un ampio cancello a due ante. Uomini della sicurezza con gli occhiali scuri ci chiedono i documenti mentre le telecamere di sorveglianza zoomano sul taxi.

Il quartier generale della Patanjali Ayurved è un complesso di edifici color rosa antico distribuiti su una proprietà delle dimensioni di una cittadina. Le grandi aiuole sono piene di fiori arancioni e gialli, l’acqua zampilla dalle fontane, alcuni striscioni con la scritta “saldi” pubblicizzano capi d’abbigliamento femminile mentre sopra la porta d’ingresso dell’edificio principale si legge “Department of yoga science”. Davanti, invece, sono parcheggiate delle ambulanze.

Nell’ingresso in penombra una statua troneggia in un matroneo: è Baba Ramdev a gambe incrociate, illuminato dai riflettori. In un corridoio del primo piano ci sono gli uffici e nell’ultimo a sinistra, dietro un’imponente scrivania sommersa di carte, davanti a scaffali carichi di libri, fotografie e statuette di divinità, è seduto l’uomo che sul manifesto della Patanjali è avvolto nel panno bianco. È Acharya Balkrishna, 55 anni, direttore generale dell’azienda.

Biscotti Patanjiali - Shimbhu Saini, Alamy
Biscotti Patanjiali (Shimbhu Saini, Alamy)

“Non abbiamo mai dato importanza al fatturato e al profitto”, spiega Balkrish­na. “Ed è proprio questa la formula del successo della Patanjali: ci facciamo guidare esclusivamente dai bisogni delle persone creando prodotti che le aiutino a vivere meglio”. Balkrishna parla velocemente e sorride molto; ha il viso tondo e glabro, i denti sporgenti, la voce acuta. Un ragazzo porta un vassoio con alcune confezioni e dei bicchieri. Balkrishna strappa, svita, offre biscotti – “nessun altro li fa così buoni!” –, porge un cucchiaio con una pasta appiccicosa marrone scuro: “Il nostro primissimo prodotto, Chawanprash, una purea di erbe officinali, è incredibile quanto faccia bene!”. Da un cassetto della scrivania estrae lunghe collane di perline di legno, “per ricordarsi sempre della Patanjali durante la preghiera quotidiana”. Alle sue spalle è appesa una foto in una cornice dorata: ritrae Balkrishna e Ramdev su un prato verde brillante mentre sullo sfondo, vicino a un ruscello, pascolano una mucca e il suo vitellino. La mano sinistra di Ramdev poggia sulla spalla sinistra di Balkrishna.

Ampio assortimento

Questa storia comincia nel 1965: Ramdev nasce in una famiglia di contadini a Saidalipur, polveroso villaggio nello stato dell’Haryana, nell’India settentrionale. È un bambino di salute cagionevole, la poliomielite gli deforma il viso lasciandogli uno strabismo all’occhio sinistro. “È l’ira degli dei”, bisbigliano gli anziani, mentre i bambini lo evitano. Da adolescente Ramdev impara lo yoga da un libro, trascorre anni in solitudine sulle montagne dell’Himalaya e poi al seguito di un guru yogi. È lì che conosce Balkrishna. I due studiano gli antichi testi indù, discutono del senso della vita, raccolgono erbe per la preparazione di medicinali ayurvedici e gestiscono un posto a metà tra una farmacia e un piccolo ospedale: quattro stanze dentro una casupola di lamiera. Come maestro di yoga, Ramdev viaggia in tutto il paese e nel frattempo vende i suoi rimedi artigianali. Nel 2006 lui e Balkrishna aprono l’azienda e le danno il nome del padre dello yoga, il saggio Patanjali, metà uomo metà serpente vissuto presumibilmente nel terzo o quinto secolo aC.

Siamo venti chilometri a sudest del quartier generale della Patanjali, a Padartha. Su un’area grande quanto 54 campi da calcio sorge un complesso di fabbriche e uffici, il Patanjali Food and Herbal Park. In India l’azienda ha cinquanta stabilimenti e il più grande è la fabbrica di Haridwar. Ci lavorano 16mila persone, prelevate al mattino presto nei villaggi dei dintorni dai pullman aziendali, che di sera fanno il percorso inverso. Sotto un tetto di lamiera gli operai alimentano con la legna forni incandescenti, riducono in polvere pietre brillanti, mescolano liquidi argentei nei paioli. “Ecco il nostro reparto di medicina ayurvedica”, spiega il direttore della fabbrica. All’interno c’è un labirinto di impianti, catene di montaggio, scaffali e computer. I macchinari riempiono bottiglie, buste e tubetti, gli uomini addetti alle macchine premono i pulsanti, le donne riempiono scatoloni con le bottiglie, le buste e i tubetti.

 -

“Ecco il dipartimento ricerca e sviluppo”, dice il direttore della fabbrica mentre si apre una porta di metallo. “Al momento lavoriamo a una cinquantina di nuovi prodotti”, racconta il responsabile, ex impiegato della Unilever.

Generi alimentari, prodotti per la cura del corpo, detergenti e detersivi, medicinali: nessun’altra azienda indiana ha un assortimento di prodotti naturali così ampio. Ogni mese ne esce uno nuovo per ciascuna categoria. Il più noto è il ghee, il burro chiarificato, ingrediente essenziale della cucina indiana. L’altro prodotto più venduto è il Dant Kanti, dentifricio color fango ai chiodi di garofano, secondo la Patanjali un autentico prodotto ayurvedico. I consumatori indiani amano il marchio Patanjali, si fidano; e anche se non deve rispettare alcuno standard regolamentato ufficialmente, la medicina tradizionale è diffusissima.

 -

Con il dentifricio la Patanjali ha conquistato in un batter d’occhio il 4 per cento del mercato a scapito della Colgate-Palmolive, gigante del settore prontamente declassato dalle agenzie di rating. Poco dopo, la multinazionale statunitense ha commercializzato un dentifricio a base di erbe ayurvediche, la concorrente Unilever ha lanciato uno shampoo e un olio per capelli ayurvedici, e anche i produttori indiani hanno ampliato la loro offerta di prodotti naturali.

La Patanjali ha dichiarato guerra alla concorrenza globale. “Ab tak Colgate ka toh gate khul gaya! (il gate della Colgate sta per chiudersi!)”, ha detto Baba Ramdev durante una conferenza stampa con gli occhi infuocati e la mano destra chiusa a pugno. “Nestlé ka toh panchhi urne wala hai! Pantene ka toh pant gila hone wala hai, aur do saal mein! Unilever ka lever kharab ho jayega! (L’uccellino della Nestlé sta per prendere il volo! Pantene sta per farsela addosso! La leva della Unilever sta per rompersi!)”.

Punti forti

I prodotti ayurvedici, ormai, non sono che una frazione dell’offerta della Patanjali. La parte del leone la fanno corn-flakes, muesli, marmellata, ketchup, pasta, biscotti, acqua minerale, detersivi, gel per capelli, bibite, pannolini, pasti precotti, beni di consumo richiesti ovunque nel mondo. Recentemente l’azienda ha anche cominciato a produrre abbigliamento: oltre a qualche capo tradizionale indiano, fa soprattutto magliette, abbigliamento sportivo, jeans. Sono tutti modelli comodi, nulla di attillato. “Essere un santone non significa credere che la vita moderna e la spiritualità siano in contrapposizione”, ha detto Ramdev presentando la nuova linea. “I jeans vengono dall’occidente”, ha aggiunto Balkrishna. “Quindi le opzioni sono due. O li boicottiamo o, meglio, li adattiamo alla mentalità indiana”.

 -

Al potere delle multinazionali, Ramdev e Balkrishna oppongono una loro strategia con vari punti forti, a cominciare dal prezzo: i prodotti della Patanjali costano fino al 40 per cento in meno di quelli della concorrenza. Secondo vantaggio: la disponibilità sul mercato. I prodotti della Patanjali si trovano sia nei grandi centri commerciali delle metropoli sia nei microscopici chioschi di paese; si possono comprare online su piattaforme indiane come Bigbasket e Flipkart oppure su Amazon.

Poi ci sono i Patanjali chikitsalays, negozi in franchising che vendono esclusivamente prodotti Patanjali: sono più di cinquemila, sparsi nei quartieri residenziali di tutto il paese. Sono la versione indiana del negozietto sotto casa, con i gestori che conoscono personalmente i clienti; nessun’altra azienda può vantare qualcosa di simile.

Il terzo punto forte della Patanjali è il grande capo, Baba Ramdev. Quando portava i suoi corsi di yoga in giro per il paese, si è fatto notare da Sanskar Channel, un canale tv di stampo religioso. Ramdev ha ottenuto un programma tutto suo, che va in onda ogni mattina dalle 6.45 alle 7.05, in cui mostra agli spettatori alcuni semplici esercizi, quelli praticati dai padri dello yoga. Poi il programma è stato acquistato da una tv concorrente, e oggi entrambe le emittenti sono di proprietà della Patanjali. Posizione del loto, dell’aquila, del pesce, respirazione consapevole: il programma mattutino di Ramdev è seguito in tutta l’India, lo guardano ricchi e poveri, giovani e anziani, donne e uomini. È un programma di fitness per le masse, che si adatta perfettamente a quella che formalmente è la più grande democrazia del mondo.

Nell’ingresso in penombra una statua troneggia su un matroneo: è Baba Ramdev a gambe incrociate, illuminato dai riflettori

“Ooom!”: Ramdev saluta gli spettatori a testa in giù e dopo venti minuti di pratica in diretta si mette a discettare delle virtù terapeutiche del suo metodo. “Non offro filosofie complicate né ideologie, il mio è uno yoga semplice e di efficacia immediata”. Raffreddore, cancro, diabete, patologie cardiache, obesità, sterilità, glaucoma: a sentire Ramdev, non c’è nulla che il suo yoga non possa curare una volta per tutte nel giro di qualche settimana, se non di qualche giorno. “Tutto questo non solo è scientificamente dimostrato”, pontifica durante i suoi show, “tutto questo è l’essenza stessa della scienza, nella sua forma più pura!”. Per ottenere la massima efficacia il suo yoga va coniugato ai prodotti Patanjali. Ramdev pubblicizza una nuova bevanda vitaminica: “Herbal Power Vita rafforza il corpo e la mente, migliorando anche la vista. Non fatevi influenzare dalla pubblicità ingannevole delle multinazionali, comprate prodotti ayurvedici scientificamente riconosciuti!”.

Ramdev insegna la sua filosofia anche dal vivo. I suoi corsi accelerati, a cui finora hanno partecipato 70 milioni di persone, si tengono in un capannone nel quartier generale dell’azienda, che può ospitare fino a diecimila persone, ognuna con il suo tappetino. Va anche in tour in tutto il mondo e tiene lezioni di yoga di massa in Nepal, Giappone e negli Stati Uniti. Ramdev è un animale da palcoscenico. Il santone riempie gli stadi, è ospite fisso nei talk show, simpatico e con la battuta pronta, nel 2017 ha vinto un incontro di wrestling in tv contro un olimpionico ucraino. Ha milioni di follower sui social network, e sulla sua vita hanno girato un film, un’epopea in 85 puntate. Su di lui sono state scritte biografie e saggi. I manager di punta della concorrenza riconoscono al marchio del baba “un’incredibile potenza di fuoco”.

 -

Un marchio di successo implica identità, immagine, fiducia. Le aziende hanno bisogno di trasformare i consumatori in fedeli. Ramdev invece trasforma i fedeli in consumatori. “In tutto quello che facciamo non abbiamo mai una strategia e non seguiamo alcun piano”, spiega Ramdev, lisciandosi l’abito e accavallando la gamba destra sulla sinistra. Sul piede tiene in equilibrio un sandalo di legno con la suola alta. Ramdev è seduto su una cosa a metà tra un divano imponente e un dondolo, alle sue spalle è appesa una cornice con un quadro a olio che lo ritrae. Il divano a dondolo è sulla terrazza di casa sua, circondata da un parco con il prato verdissimo, le aiuole traboccanti di fiori, uccelli, api, alberi. Si sente scrosciare una cascata artificiale, i pavoni fanno la ruota e giovani donne sono intente a leggere su delle panchine sotto gli alberi. La tenuta di Ramdev è una ricostruzione della casa da cui cent’anni fa il Mahatma Gandhi, artefice della liberazione dell’India, guidava la resistenza non violenta contro la potenza coloniale britannica. Si chiama Shant Kutir, casetta tranquilla, e la sicurezza la sorveglia giorno e notte. “Il segreto del successo della Patanjali?”, dice ridendo Ramdev. “È semplicissimo! La gente si fida di noi. Più di un miliardo di persone in questo paese mi conoscono. Anzi, che dico, il mondo intero mi conosce!”.

Yoga e nazionalismo

In origine quella di comprare esclusivamente prodotti nazionali per rendersi economicamente indipendenti dai paesi stranieri fu un’idea di Gandhi. Producendo e indossando il khadi, un semplice telo di cotone, gli indiani si sarebbero assicurati posti di lavoro e si sarebbero resi indipendenti dalle importazioni dei coloni britannici. Il movimento si chiamava swadeshi (il nostro paese) e il khadi diventò un simbolo di resistenza e cambiamento, ma non portò l’India al successo economico.

Ramdev e Balkrishna affrontano la questione da un’altra angolazione. “I nostri pilastri sono il nazionalismo, l’ayurveda e lo yoga”, proclamano sul sito dell’azienda. Il patriottismo, assicurano, è parte integrante dei loro prodotti. Secondo gli esperti la loro è una reinterpretazione in chiave “smart” dello swadeshi, il quarto punto forte della Patanjali, in linea con la politica del governo conservatore del primo ministro di destra Narendra Modi. Qualche anno fa Modi sperava che l’India riuscisse ad attirare le multinazionali che volevano delocalizzare la produzione, ma poi ha dovuto abbandonare il piano. Da allora la parola d’ordine è rendere l’India indipendente dalle importazioni, forte e autonoma come nei secoli che precedettero lo sfruttamento coloniale britannico. Make India great again. Ma Modi vuole di più: i prodotti made in India devono conquistare il mercato globale, il paese deve diventare la terza economia dopo Cina e Stati Uniti. La strada è lunga, le sfide economiche enormi, ma quello di diventare una superpotenza è un grande sogno.

Al ristorante Postik, legato alla Patanjali, Mohali, India, 17 aprile 2017 - Keshav Singh, Hindustan Times/Getty Images
Al ristorante Postik, legato alla Patanjali, Mohali, India, 17 aprile 2017 (Keshav Singh, Hindustan Times/Getty Images)

Ramdev si alza di scatto dal divano. “Vi porto a vedere la mia casetta!”, esclama battendo le mani. In un cortile interno gorgoglia una fontana, da piccoli altoparlanti arriva una musica celestiale. Ramdev ci conduce nel suo studio (“alla scrivania non mi siedo mai, non ne ho il tempo”), nella sala yoga (“mi alzo alle 3.30, un bicchiere di succo di bacche per il sistema immunitario e via, comincia la giornata”), in camera da letto (“a letto non dormo mai, un vero yogi riposa bene solo sul tappetino”). Ignora le domande, risponde con altre domande, fa battute. Della sua vita privata non si sa nulla, ma pare che la madre viva con lui. Più volte ha definito l’omosessualità “immorale e innaturale”, una malattia che si può guarire con il suo yoga.

Squilla un telefono, Ramdev estrae dalla tunica un iPhone. “Ti saluto, Balkrish­na”, dice in hindi, ma poi passa al sanscrito, l’antica lingua dei dotti, il latino dell’India. L’interprete fa spallucce e solleva le mani in segno di impotenza.

Il giorno dopo andiamo in un luminoso capannone dai soffitti alti, nel quartier generale della Patanjali. In un laboratorio uomini in camice bianco lavorano al microscopio, circondati da ciotole piene di foglie, radici, rami. “Prepariamo la nuova edizione della mia enciclopedia ayurvedica”, dice Balkrishna, accarezzando il dorso di un libro. Sorride. “Dal mese prossimo il mio ufficio sarà qui”. Dietro l’edificio c’è un giardino con erbe, alberi e cespugli. Balkrishna è raggiante. “Ecco la mia collezione di piante”. Nel parco c’è anche un labirinto di grotte artificiali con statue dorate a grandezza naturale: sono medici ayurvedici dell’antichità, raffigurati nell’atto di trattare i pazienti. Le scene, piuttosto angosciose, sono illuminate da faretti, il tutto è un misto tra un museo a cielo aperto e Disneyland.

La città tempio di Haridwar, uno dei posti più sacri per gli indù, 15 febbraio 2016 - Subhash Sharma, Zuma Wire/Alamy
La città tempio di Haridwar, uno dei posti più sacri per gli indù, 15 febbraio 2016 (Subhash Sharma, Zuma Wire/Alamy)

Balkrishna si arrampica sul sedile del passeggero di un fuoristrada bianco: si va in campagna. Tra prati e campi coltivati sorge un complesso di stalle e pascoli, la fattoria sperimentale della Patanjali dedicata a coltivazioni e allevamento. In cortile si sta allenando un gruppo di uomini della sicurezza. “Un, due, un, due, un, due”, scandisce uno di loro, mentre gli altri fanno sbattere i tacchi degli stivali. Balkrishna attraversa la stalla a passo di marcia, accarezza i vitelli, dà da mangiare alle vacche. Indossa calzini da tennis e sandali di plastica bianchi, sulla nuca oscilla il ricciolo caratteristico degli uomini indù. “Là fuori c’è il nostro impianto di biogas, attualmente ha una potenza di dodici chilowatt, ma lo stiamo ampliando”. Balkrishna corre attraverso i campi, raccogliendo qualcosa qui e là e strappando le erbacce; taglia un pezzo di canna da zucchero e lo mastica rumorosamente, spiega cose, gesticola, ride. Dietro i campi sta tramontando un sole rosso fuoco e nell’aria si sente la puzza del letame. “Balkrishnaji e Swamiji sono divinità”, mormora il direttore della fattoria, riferendosi a Ramdev con la parola swami, che gli indiani usano per definire i guru yogi e aggiungendo al nome di Balkrishna il suffisso ji in segno di rispetto. “Tutto quello che fanno è per il bene del mondo intero”.

Capitalismo spirituale

Balkrishna è nato in Nepal nel 1972 da una famiglia di contadini. Emigrato in India da bambino, è poi diventato un dotto ayurvedico. Oggi possiede il 98,5 per cento delle quote sociali della Patanjali ed è tra i primi cento indiani più ricchi. Si calcola che il suo patrimonio ammonti a 2,2 miliardi di dollari. Ramdev ufficialmente non possiede nulla, perché i santoni indiani s’impegnano a condurre una vita monacale fatta di ascesi e castità. Lo yogi Ramdev è una macchina da guerra del marketing, il volto dell’azienda. Il ricercatore Balkrishna invece è il cervello, l’uomo dei numeri, lo stratega. Sommando la moksha, la liberazione dalle cose terrene e i meccanismi del libero mercato si ottiene il capitalismo spirituale. E sommando due personaggi agli antipodi si ottiene un duo irresistibile.

Dei medici visitano Baba Ramdev al settimo giorno di sciopero della fame, Haridwar, 10 giugno 2011 - Gurinder Osan, Ap/Lapresse
Dei medici visitano Baba Ramdev al settimo giorno di sciopero della fame, Haridwar, 10 giugno 2011 (Gurinder Osan, Ap/Lapresse)

“Teniamo traccia di tutto, di ogni passaggio del lavoro. Se qualcosa non va, se qualcuno non rispetta le regole, ne paga le conseguenze”, dice il direttore della squadra di controllo, un uomo sui 35 anni avvolto in un panno color zafferano. Davanti a sé ha una parete coperta da decine di monitor che trasmettono immagini riprese in tempo reale nei reparti. “Ogni sera invio ad Acharyaji un report esaustivo”. Il direttore preme un pulsante e la telecamera zooma su un nastro trasportatore, su mani e volti.

“Abbiamo una cultura imprenditoriale unica”, spiega, “organizziamo per i dipendenti workshop di yoga, scritture antiche e corretta alimentazione, ovviamente senza carne e alcolici. Gli insegniamo tutto ciò che serve per essere dei buoni indiani”. Ramdev e Balkrishna sono considerati manager autoritari e maniacali che mettono bocca su tutto: dal design di un flacone di shampoo a un nuovo annuncio pubblicitario e alle dimensioni delle stalle, decidono tutto loro. Alla Patanjali i salari sono bassi, fino al 50 per cento più bassi di quelli pagati dalla concorrenza, perché l’attività dei 30mila dipendenti non è considerata lavoro; Ramdev la chiama sewa, servizio spirituale.

Il business alla Patanjali è un mondo a parte. I due capi dirigono anche ospedali, centri yoga, scuole, un’università, un’impresa multimediale con due emittenti televisive. Presto faranno il loro ingresso sul mercato immobiliare: sta nascendo un lussuoso complesso residenziale sul terreno del quartier generale, con tanto di campo da golf, piscina e centro commerciale. Ci sono istituti Patanjali in Nepal, Regno Unito, Canada, a Mauritius e presto anche negli Stati Uniti e in Scozia. In “Patanjali. A servizio dell‘umanità”, una delle innumerevoli brochure aziendali, si legge che gli istituti “s’impegnano giorno e notte per diffondere e rafforzare gli aspetti nobili ed elevati della cultura indiana”. Alcuni giornalisti indiani parlano di molte società fantasma, sponsor misteriosi, vari prestanome, denaro sporco. Sembra che da una certa società siano stati distribuiti a Balkrishna e a un fratello minore di Ramdev milioni di utili, pari quasi al 60 per cento del fatturato annuo. Secondo alcuni economisti indiani si tratterebbe di un intreccio di società molto sospetto e la Patanjali mancherebbe “completamente di trasparenza”. Ramdev e Balkrish­na hanno deciso di non quotarla in borsa così da non dover rendere pubblici i bilanci.

Materassini abbandonati per una pioggia improvvisa al Forest Research Institute di Dehradun, 20 giugno 2018 - Prakash Singh, Afp/Getty Images
Materassini abbandonati per una pioggia improvvisa al Forest Research Institute di Dehradun, 20 giugno 2018 (Prakash Singh, Afp/Getty Images)

Scandali e vicende oscure

Gli affari della Patanjali sono al centro di continui scandali. Spesso i suoi prodotti finiscono sui giornali per mancate autorizzazioni dell’Agenzia per la sicurezza alimentare, o perché contengono sostanze tossiche, ingredienti adulterati o conservanti chimici proibiti. In in uno dei loro rimedi è stato trovato addirittura dna umano. Spesso la Patanjali è accusata di copiare i prodotti della concorrenza. Per aspetto e sapore i biscotti che Balkrishna ci ha offerto nel suo ufficio sono identici a quelli di un’altra marca indiana. Nel 2015 la Nestlé ha dovuto togliere dal mercato i suoi spaghettini istantanei, amatissimi in India, perché sembrava contenessero piombo, e Ramdev ne ha subito commercializzato una sua versione. La Patanjali ha anche messo sul mercato un’app di messaggistica presentandola come “la risposta indiana a WhatsApp”. Il giorno stesso si è scoperto che era un plagio: avevano copiato la app di una startup statunitense.

Gli affari della Patanjali sono costellati di vicende oscure. Un ex insegnante e un consulente della supercoppia Ramdev-Balkrishna sono morti in circostanze misteriose. L’insegnante era stato al fianco di Ramdev quando muoveva i primi passi da imprenditore, mentre il consulente era un giovane sicuro di sé, competente e con spirito critico. In entrambi i casi ci sono indizi di un possibile coinvolgimento di Ramdev e Balkrishna, che però hanno negato tutto, e la polizia non ha indagato.

“Società fantasma?”, dice Ramdev ridendo. “Scandali?”. Scuote la testa e si piega in avanti formando un triangolo con la punta delle dita, poi, corrugando le spesse sopracciglia, esclama: “Sono solo dicerie per favorire gli interessi occidentali! È un complotto con lo scopo evidente di danneggiarci! La Patanjali è sinonimo delle tradizioni e della cultura della nostra madre India. Chi attacca noi attacca la nazione!”.

Yoga di massa in occasione della giornata mondiale dedicata alla disciplina, 21 giugno 2016 - Adnan Abidi, Reuters/Contrasto
Yoga di massa in occasione della giornata mondiale dedicata alla disciplina, 21 giugno 2016 (Adnan Abidi, Reuters/Contrasto)

Muro di gomma e diffamazione dei detrattori, ecco lo schema difensivo tipico di Ramdev. Nei suoi tweet le inchieste giornalistiche che non depongono a suo favore diventano “nient’altro che notizie false”. Facendo ricorso in tribunale è anche riuscito a impedire la vendita in India di un libro che lo criticava e all’autrice è stato vietato di parlarne in pubblico. Ramdev sembra la versione indiana di Donald Trump. Un potente uomo d’affari con modi da intrattenitore e un concetto decisamente elastico della verità. “Ci sono aziende che falliscono travolte dalle polemiche”, ha dichiarato in un’intervista. “Noi invece prosperiamo proprio grazie alle polemiche!”.

Intesa politica

Nel bar di un albergo di una grande città dell’India settentrionale, isolato dagli altri clienti, un ex manager della Patanjali fa colazione con cornetto e cappuccino. “Qualsiasi cosa producano, mai nessuno che dica ‘che schifo!’. Credono tutti che i loro prodotti siano stati mandati dal cielo”. Mentre mescola lo zucchero nella tazza fa scorrere sul telefono i report degli analisti: il fatturato della Patanjali è in calo. “L’azienda si muove sul filo del rasoio”, commenta il manager. “Il problema principale è che ha troppi prodotti in troppe categorie diverse. Per Swamiji e Balkrishnaji conta solo crescere”. Mette altro zucchero nel cappuccino e ne beve un sorso. “Spesso prendono decisioni poco sensate dal punto di vista imprenditoriale. Ma sono decisioni in linea con i loro obiettivi politici”.

Ramdev è un nuovo tipo di essere umano. È il più potente tra gli imprenditori, più potente anche di qualsiasi politico. E più di ogni altro guru

Stadio di Chhatrasal, New Delhi, marzo 2014. Due uomini di una certa età siedono fianco a fianco, sorridenti e a gambe incrociate. Sono Baba Ramdev e Narendra Modi. Modi sussurra qualcosa all’orecchio di Ramdev e lui afferra il microfono. “Vi prodigherete per convincere anche altre persone?”, chiede. “Sì!”, gridano di rimando in migliaia nello stadio. “Non rimarrete a casa?”, incalza Ramdev. “No!”, risponde la folla. Due mesi dopo il partito di Modi, il Bharatiya janata party, vince le elezioni; Modi è primo ministro, l’era del governo del partito del Congress è finita. “Ho gettato le basi per grandi cambiamenti politici in questo paese”, dice Ramdev commentando la vittoria di Modi.

Modi aveva promesso agli elettori di riformare il sistema economico e di estirpare la corruzione. La sua campagna si basava sull’idea di una nuova India, non più laica ma religiosa, non più unita nella molteplicità, ma una nazione di indù. Ramdev è sulla stessa lunghezza d’onda: è un fondamentalista. Al contrario di altri guru, non si presenta come un predicatore religioso, ma diffonde la cultura e i valori dell’induismo. Lo yoga, l’ayurveda, le antiche scritture, il sistema scolastico tradizionale: per lui sono questi gli elementi che definiscono l’essenza dell’India. L’ideologia di Ramdev non si esprime sempre in modo sottile: quando un politico musulmano si rifiuta di intonare uno slogan nazionalista, il grande capo della Patanjali reagisce dichiarando che è solo il suo rispetto delle leggi a impedirgli di “far decapitare centinaia di migliaia di persone così”.

Da quando Modi è arrivato al governo, la Patanjali ha ottenuto aree edificabili a prezzi ridicoli. Lo stato costruisce le strade d’accesso alle sue nuove fabbriche, un corpo di polizia antiterrorismo le protegge e i prodotti finiscono nelle mense dell’esercito indiano. Il ministero dell’economia ha classificato lo yoga come attività filantropica quindi i centri dove s’insegna la disciplina pagano meno tasse. Il governo Modi ha creato un ministero dell’ayurveda e dello yoga che si occupa di introdurre metodi tradizionali nel sistema sanitario nazionale e di approvare nuovi prodotti ayurvedici. La Patanjali crea nuovi posti di lavoro di cui c’è urgente bisogno, costruisce scuole e ambulatori, sostiene governi locali con forniture di prodotti alimentari e medicinali. Modi e i suoi compagni di partito sono sordi alle critiche contro l’azienda e contro Ramdev, che a sua volta loda le azioni del governo. È un dare e ricevere, e il rapporto funziona.

 -

Nella Patanjali economia, religione e politica si fondono in un nuovo tipo di unità. E Ramdev è un nuovo tipo di essere umano. È il più potente tra gli imprenditori, più anche di qualsiasi politico. E più di ogni altro guru.

“I soldi sono il motore di ogni impresa”, dice Ramdev seduto su un’imponente poltrona di cuoio in una stanza adiacente al suo capannone per lo yoga. Tra due minuti salirà sul palco per il suo programma tv mattutino. Che prodotti presenterà oggi? Ramdev ride. “Quest’informazione deve rimanere segreta fino all’ultimo!”. Schiocca le dita e un ragazzo si presenta ad aggiustargli la veste color zafferano, lui intanto allontana con un calcio i sandali. “Una base economica è importante per dare il via al tipo di rivoluzione di cui parlo”.

Una volta seduto sul palco, Ramdev viene affiancato da una delle sue allieve. “C’è stato un tempo in cui il nostro paese viveva nell’oscurità”, esclama rivolgendosi alla sala. “La corruzione era tanta, i giovani prendevano strade sbagliate. Poi venne chi ci ha mostrato la luce. Chi ci ha insegnato ad amare il nostro paese. Swamiji è la nostra fonte d’ispirazione, la nostra speranza. Vuole il bene della società, di tutti noi, è la nostra guida”. Ramdev si alza, sorride e applaude; la ragazza s’inginocchia davanti a lui, gli tocca i piedi con la fronte e le punte delle dita. “Bharat mata ki jai! Bharat mata ki jai!”, esclama Ramdev, chiudendo la mano destra a pugno e alzandola al cielo. “Bharat mata ki jai! Bharat mata ki jai!”, gli fa eco la sala, tutti con il pugno destro alzato. “Vittoria alla madre India!”. ◆ sk

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati