Molti leader africani hanno partecipato a Pechino al vertice triennale con la Cina che si è svolto dal 4 al 6 settembre 2024. Questi incontri collettivi sono diventati frequenti. Negli ultimi due anni i 54 capi di stato del continente sono stati invitati a Washington da Joe Biden, a San Pietroburgo da Vladimir Putin e lo scorso marzo a Roma da Giorgia Meloni. Altri vertici simili si sono svolti in Turchia, in Arabia Saudita e in Corea del Sud, ultimo paese a unirsi a questo valzer. Nel 2025 il Giappone ne ospiterà uno a Yokohama. Parlando delle numerose opportunità commerciali, diplomatiche e sulla sicurezza che si sono aperte per i paesi africani, il presidente malawiano Lazarus Chakwera ha detto che è “bello mangiare cinese di tanto in tanto”, ma un buffet all you can eat è perfino meglio.

La Cina non è l’unica scelta sul menù. Secondo i dati elaborati dall’università di Boston l’interesse cinese per l’Africa ha raggiunto un picco nel 2016, con 28,4 miliardi di dollari di prestiti elargiti, che nel 2022 sono scesi a un miliardo di dollari. Mentre le attenzioni di Pechino si raffreddavano, è aumentato l’interesse di altri: Russia, India, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Brasile.

L’Africa non è quasi mai in cima all’agenda diplomatica globale, soprattutto in tempi di guerre in Medio Oriente e in Europa. Ma secondo gli esperti molti paesi sentono il bisogno di sviluppare o rinnovare la loro “strategia per l’Africa” a causa della sua popolazione in rapida crescita, dei minerali strategici e dei suoi voti alle Nazioni Unite. Chidi Odinkalu, docente della Tufts university in Massachusetts, negli Stati Uniti, teme però che invece di trarre vantaggio dal potersi sedere a tanti tavoli diversi, l’Africa continui a essere una delle portate sul menù. Si chiede anche cosa significhi il fatto che un singolo paese voglia negoziare con tutti i leader africani messi insieme. In teoria il “policentrismo diplomatico”, come lo definisce Odinkalu, offre delle opportunità. “Il punto è: l’Africa riuscirà ad approfittarne? Il fatto che non sia andata oltre la produzione primaria dimostra chiaramente di no”, osserva. Secondo i dati della Banca mondiale, nell’Africa subsahariana la percentuale del pil derivante dal settore manifatturiero è scesa dal 18 per cento del 1981 all’11 per cento del 2023. La maggior parte dei paesi, afferma Odinkalu, resta bloccata in rapporti commerciali di tipo coloniale in cui esporta materie prime e importa prodotti finiti.

Economia
Percentuale degli scambi commerciali dell’Africa subsahariana, esclusi quelli interni (Fonte: Fmi , Financial Times)

Il rischio dei debiti

Tuttavia, anche se non hanno reso più vantaggiose le loro relazioni commerciali e d’investimenti, i paesi africani di certo le hanno ampliate. L’India è diventato il terzo partner commerciale dell’Africa dopo l’Unione europea e la Cina. Gli scambi con gli Emirati – soprattutto in oro e diamanti – sono quasi quintuplicati negli ultimi vent’anni, e il paese è diventato il quarto investitore nel continente, con quasi 60 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.

L’opinionista keniano Patrick Gathara osserva che avere tante opzioni ha portato alcuni governi africani, tra cui quello di Nairobi, a indebitarsi troppo. Zambia, Ghana ed Etiopia sono insolventi e secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi) altri venticinque paesi rischiano di diventarlo.

Alex Vines, del centro studi britannico Chatham house, sostiene che i paesi africani stanno cercando di “definire meglio” i loro interessi ma, al pari di Odinkalu, teme che non abbiano la capacità in termini di diplomazia e di amministrazione pubblica per approfittarne. Vines cita la strategia secondo cui bisogna essere amici di molti ma clienti di nessuno portando l’esempio di Gibuti, che ha messo in affitto la sua costa ospitando le basi militari di potenze rivali, tra cui la Cina, gli Stati Uniti, la Francia e il Giappone. Il Sudafrica, che fa parte del gruppo delle economie emergenti Brics, ha portato avanti una politica di non allineamento a volte scomoda, che gli ha permesso di organizzare esercitazioni navali con la Russia e la Cina, senza rinunciare agli investimenti occidentali.

Secondo Ken Opalo, della Georgetown university di Washington, negli Stati Uniti, la presenza eccessiva dei soggetti esterni non è sempre positiva. Come nel caso della guerra in Sudan, che ha trascinato dentro “potenze di media grandezza” tra cui gli stati del Golfo e i paesi confinanti Egitto ed Etiopia. Gli Emirati in particolare sono accusati di alimentare il conflitto sostenendo i paramilitari delle Forze di supporto rapido. Opalo teme che questo possa condurre a uno “stallo” come quello in Libia.

In Europa, nonostante le opportunità commerciali, l’Africa è spesso considerata una potenziale fonte di instabilità, terrorismo e di flussi migratori, viste le previsioni di crescita demografica (2,5 miliardi di abitanti entro il 2050), le insurrezioni jihadiste e le rivolte politiche. Recentemente il Mali e il Niger hanno rotto i rapporti diplomatici con l’Ucraina dopo le polemiche scoppiate intorno alla possibilità che Kiev avesse fornito sostegno ai ribelli responsabili della morte di numerosi soldati maliani e di mercenari legati alla milizia privata russa Wagner. Dopo i golpe in Mali, Niger e Burkina Faso, le giunte hanno espulso le truppe francesi e statunitensi, e stretto i rapporti con la Russia. In base ai dati raccolti dall’ong Acled, nella maggior parte dei casi questi cambiamenti sono stati accompagnati da un aumento delle violenze. “Tanti paesi cercano una via di mezzo”, afferma Vines. “Ma fanno anche molti errori di valutazione”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati