Il 5 aprile 1968, il giorno dopo l’uccisione di Martin Luther King a Memphis, Robert Kennedy, in corsa per la nomination del Partito democratico alla presidenza, parlò al Cleveland City Club della “insensata minaccia della violenza negli Stati Uniti, che macchia ancora una volta la nostra terra e la vita di ognuno di noi”. In tono triste, Kennedy disse alla folla che un cecchino è un codardo, non un eroe; che “la massa incontrollata e incontrollabile è solo la voce della follia, non la voce del popolo”. La violenza, commessa da una persona o da un gruppo, offende un’intera nazione. “Eppure”, proseguì Kennedy, “tolleriamo un livello crescente di violenza che ignora la nostra comune umanità e le nostre pretese di civiltà. Accettiamo tranquillamente le notizie dei giornali sui massacri di civili in terre lontane. Esaltiamo le uccisioni che vediamo al cinema e in tv e le chiamiamo intrattenimento. Rendiamo facile comprare armi e munizioni a persone con ogni tipo di problema di salute mentale. Alcuni cercano capri espiatori, altri complotti, ma una cosa è chiara: la violenza genera violenza, la repressione porta a rappresaglie e solo una pulizia di tutta la società può rimuovere questa malattia dalla nostra anima”.
Il 13 luglio 2024 un uomo di vent’anni, Thomas Matthew Crooks, è salito su un tetto a Butler, in Pennsylvania, e ha tentato di uccidere l’ex presidente Donald Trump, che stava tenendo un discorso davanti ai suoi sostenitori. Crooks avrebbe sparato una serie di colpi con un fucile da più di cento metri di distanza. Un proiettile ha sfiorato l’orecchio destro di Trump. Se la mira del tiratore fosse stata poco più precisa, Trump sarebbe morto. Invece è rimasto stordito e sanguinante. Prima che i servizi di sicurezza lo portassero via dal palco, ha alzato il pugno e in segno di sfida ha esclamato: “Fight, fight”.
Ricerca di un leader
Il presidente Joe Biden, a cui alcuni leader democratici, vari opinionisti e gran parte dell’elettorato hanno chiesto di ritirarsi dalla corsa presidenziale, ha fatto la cosa giusta. Ha detto di essere sollevato che Trump fosse salvo e in buona salute: “Sto pregando per lui, la sua famiglia e per chi era a quel comizio”. Più tardi, a Rehoboth Beach, nel Delaware, ha insistito che “tutti devono condannare” l’attacco “malsano” al suo avversario, e ha detto che avrebbe provato a chiamare “Donald” più tardi. Biden ha momentaneamente messo da parte le profonde divergenze con Trump e la sua ferma convinzione che le elezioni decideranno questioni fondamentali sul futuro del paese. “Non possiamo permettere che succedano cose del genere”, ha detto. L’unico suo passo falso è stato aggiungere: “L’idea che negli Stati Uniti ci sia una violenza politica, una violenza di questo tipo, è semplicemente inaudita”. Magari fosse vero.
Resta da vedere se in questi tempi orribili esista un leader capace dell’eloquenza sofferta e dell’intelligenza che Robert Kennedy mostrò il giorno dopo l’omicidio di Martin Luther King. Mettiamo da parte la disgustosa ondata di accuse sui social media, le provocazioni feroci, le teorie assurde secondo cui quello che è successo in Pennsylvania è stata una messa in scena, un’operazione organizzata dagli stessi sostenitori di Trump o dalla sinistra, dal Partito democratico e dallo stesso Biden. Mettiamo da parte, per un momento, l’influenza che la vicenda avrà sugli elettori a novembre. Chi sa mostrare in questo momento terribile il senso morale che Kennedy riuscì a esprimere poche ore dopo l’uccisione di King davanti alla stanza 306 del Lorraine Motel? Molti deputati e senatori repubblicani e democratici hanno rilasciato dichiarazioni in cui denunciavano la violenza ed esprimevano sollievo per il fatto che Trump fosse sopravvissuto. Molti non hanno cercato di sfruttare l’evento a fini propagandistici. Ma non tutti.
James David Vance, il giovane senatore dell’Ohio che Trump ha scelto come vicepresidente, ha dichiarato sui social network che la sparatoria di Butler “non è stata solo un incidente isolato”. E ha continuato: “La premessa centrale della campagna di Biden è che Trump è un fascista autoritario da fermare a tutti i costi. Questa retorica ha portato al tentato omicidio dell’ex presidente”.
Il senatore Tim Scott, della South Carolina, ha gettato altra benzina sul fuoco affermando: “È stato un tentato omicidio favorito e incoraggiato dalla sinistra radicale e dai mezzi d’informazione che definiscono Trump una minaccia per la democrazia, un fascista o peggio”.
Il governatore del Texas, Greg Abbott, ha collegato i fatti della Pennsylvania alla miriade di accuse e condanne a carico dell’ex presidente. “Cercano di mandarlo in prigione. Tentano di ucciderlo. Non funzionerà”, ha scritto su X. “È indomabile”. Nei prossimi giorni le cose probabilmente non miglioreranno. In un paese agitato e diviso, alcuni cercheranno di fare deduzioni di carattere generale a partire dall’azione e dal personaggio di Crooks, un ventenne diplomato da poco, in passato registrato come elettore repubblicano, ma che aveva donato quindici dollari a un’organizzazione progressista. Quando emergeranno ulteriori dettagli sulla sua vita potrebbe essere difficile capire il significato di tutto questo. Se mai ce ne fosse uno.
“Per gli storici la violenza è un fenomeno diffuso e difficile da trattare”, scriveva Richard Hofstadter, nel suo saggio Reflections on violence in the United States (Riflessioni sulla violenza negli Stati Uniti). “È commessa da individui isolati, da piccoli gruppi e da grandi masse. È diretta sia contro individui sia contro folle; può avere varie ragioni (a volte anche nessun motivo razionale riconoscibile) e realizzarsi in vari modi: omicidi, linciaggi, duelli, risse, faide e rivolte. Nasce da intenti criminali e da idealismo politico, da antagonismi del tutto personali e da antagonismi sociali diffusi”.
Va detto, al di là di quanto dicono Vance, Scott e Abbott, che Trump ha fatto ben poco per calmare o unificare il paese che ha guidato e che vorrebbe guidare di nuovo. È difficile ricordare una voce pubblica che abbia fatto di più per scatenare gli istinti più bassi che così spesso si annidano negli individui e nella società. Pur esprimendo sincero sollievo per il fatto che Trump è sfuggito a un destino peggiore (e vicinanza alla famiglia dello spettatore ucciso), non si può negare quello che l’ex presidente e la sua retorica hanno significato per il paese. Ha cominciato la sua carriera politica con affermazioni come “Quando avevo diciott’anni, la gente mi chiamava Donald Trump. Quando Barack Obama aveva diciott’anni, era Barry Soweto”. Ed è andato avanti così.
Dopo che Obama aveva partecipato a una veglia pubblica per il giudice della corte suprema Antonin Scalia, ma non al funerale, ha commentato: “Chissà se il presidente Obama avrebbe partecipato al funerale del giudice Scalia se si fosse tenuto in una moschea”. Con frequenza vertiginosa ha sfruttato il linguaggio demagogico della disumanizzazione, parlando di “feccia”, “parassiti”, “animali” e “nemici del popolo”. Nel 2016 ha usato la solita retorica settaria affermando: “Hillary Clinton s’incontra in segreto con le banche internazionali per pianificare la distruzione della sovranità statunitense”. Più volte ha celebrato la brutalità: quando si augurava che “i teppisti” venissero buttati nel retro dei furgoni della polizia o quando un candidato al congresso aveva sbattuto a terra un giornalista che aveva osato fargli domande sulla politica sanitaria (“Qualsiasi ragazzo capace di fare una mossa simile è il mio uomo”, ha detto Trump). Dopo aver saputo che Ali Velshi, conduttore della Msnbc (una tv progressista), era stato colpito da un proiettile di gomma a una manifestazione per la morte di George Floyd, lo ha definito “uno spettacolo meraviglioso”.
Retorica divisiva
Trump ha sempre respinto l’idea di aver contribuito a dividere e infiammare il paese. Quando gli hanno chiesto se il suo linguaggio creasse contrasti, ha risposto: “Non penso affatto che la mia retorica divida, anzi unisce”. Eppure non ha esitato a deridere le sue vittime, anche quando erano stati colpiti i loro cari. Nancy Pelosi (dirigente del Partito democratico ed ex presidente della camera) è “pazza”, diceva. E quando il marito di Pelosi, Paul, è stato aggredito, ha chiesto sarcasticamente: “Come sta suo marito? Qualcuno lo sa?”. L’insurrezione di Capitol hill, in cui hanno rischiato la vita Pelosi, Mike Pence e altri leader politici, s’ispira alla retorica di un unico uomo. Quel linguaggio, quell’assenza d’empatia non possono essere la via d’uscita.
È giusto condannare nel modo più netto l’attentato del 13 luglio in Pennsylvania e tirare un sospiro di sollievo perché è fallito. Allo stesso tempo dobbiamo augurarci una sensibilità e una tempra morale simili a quelle dell’uomo che prese la parola a Cleveland, nell’aprile del 1968, per respingere la violenza e la rabbia come strumento politico e rendere omaggio a un’icona di umanità e di pace.
“La nostre vite su questo pianeta sono troppo brevi e il lavoro da fare troppo grande per permettere che questo sentimento si diffonda ancora nella nostra terra”, disse Robert Kennedy. “Di certo non possiamo eliminarlo con una legge. Ma possiamo forse ricordare, anche se solo per un po’, che chi vive con noi è nostro fratello, condivide con noi lo stesso breve istante di vita, e come noi cerca una vita felice e uno scopo, ottenendo tutta la soddisfazione e l’appagamento che può. Di certo questo legame di fede comune e di obiettivi comuni può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente possiamo imparare a guardare quelli che ci circondano come nostri simili e impegnarci un po’ di più per ricucire le ferite che ci separano e per tornare a essere fratelli e connazionali nei nostri cuori”.
Due mesi dopo aver pronunciato questo discorso Robert Kennedy vinse le primarie in California e South Dakota e aveva buone possibilità di sconfiggere Richard Nixon e ottenere la presidenza. Si rivolse ai suoi sostenitori entusiasti nella sala da ballo dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, e poi cercò di lasciare l’edificio passando per una cucina dove c’era molta gente. Un uomo di circa venticinque anni di nome Sirhan Sirhan si avvicinò e gli sparò più volte. Kennedy morì il giorno dopo al Good samaritan hospital. Aveva 42 anni. ◆ bt
David Remnick è un giornalista e scrittore statunitense. È il direttore del settimanale New Yorker.
◆ Alle 18.12 del 13 luglio 2024 Donald Trump, ex presidente degli Stati Uniti e candidato alle elezioni di novembre, è stato ferito a un orecchio mentre teneva un comizio a Butler, in Pennsylvania. Thomas Matthew Crooks, un uomo di vent’anni, gli ha sparato diversi colpi di arma da fuoco con un fucile semiautomatico, prima di essere ucciso dagli agenti del secret service, le guardie del corpo dei leader politici statunitensi. Oltre a Trump sono state colpite anche alcune persone tra il pubblico: un uomo è morto e altri due sono stati feriti gravemente e portati in ospedale. Secondo le ricostruzioni. Crooks si sarebbe appostato sul tetto di un edificio a circa 130 metri dal palco di Trump. Gli esperti hanno sottolineato il fallimento del sistema di sicurezza. L’Fbi sta indagando su un possibile “atto di terrorismo interno”, ma per ora non sono emersi dettagli sul movente di Crooks.
◆ Trump è stato portato in ospedale e dimesso poco dopo. Il 15 luglio ha partecipato alla convention del Partito repubblicano a Milwaukee, in cui ha ottenuto ufficialmente la candidatura del partito.
◆ Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha condannato l’attentato e ha invitato il paese a restare unito. La vicenda ha messo in secondo piano il dibattito sulla sua candidatura. Molti politici democratici e finanziatori del partito sono convinti che Biden non abbia la forza fisica e la lucidità mentale per ricandidarsi ed eventualmente governare altri quattro anni, e che dovrebbe passare il testimone a un candidato o a una candidata più giovane. Cnn
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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati