Se mi chiedeste di scegliere tra “la possibilità di incontrare Chris Rock o il papa”, io risponderei: “Chris Rock tutta la vita”. Non ho niente contro il papa, ma non mi ha mai fatto ridere né ha trovato una possibile soluzione al problema delle armi negli Stati Uniti, come ha fatto Chris Rock quando ha detto che le armi da fuoco si possono anche non regolamentare, ma ogni proiettile deve costare cinquemila dollari.
“Ok”, proseguireste voi. “Tra Julia Louis-Dreyfus e il papa?”.
Come tutti quelli con cui ho parlato la sera prima, inizialmente avevo pensato che l’invito ricevuto via email fosse spam. “Come no”, avevo detto allo schermo. “Quasi ci casco, Russia”
“Ah, nessun dubbio”, vi direi. “Le parolacce di Veep erano poesia pura, quindi Julia Louis-Dreyfus”.
“Tra Stephen Merchant e…”.
“Stephen Merchant”.
Lo stesso dicasi per Stephen Colbert, Mike Birbiglia, Tig Notaro, Conan O’Brien, Whoopi Goldberg, Jimmy Fallon, Ramy Youssef e Jim Gaffigan, che in gran parte conosco o a un certo punto ho incontrato.
La cosa assurda è che non dovevo neanche scegliere tra qualcuno dei suddetti e il papa. Per ragioni che non capirò mai appieno, ho avuto modo di incontrarli tutti insieme, più un centinaio di altre persone, anch’esse convocate, senza troppo preavviso, in Vaticano una mattina tardoprimaverile di giugno, quando a Roma faceva caldo ma non così caldo da diventare l’unico argomento.
Come tutti quelli con cui ho parlato la sera prima della nostra udienza papale – quando, escluso Jimmy Fallon, il contingente statunitense si è riunito per cena – inizialmente avevo pensato che l’invito ricevuto via email fosse spam. “Come no”, avevo detto allo schermo. “Quasi ci casco, Russia”. Non avevo aperto l’allegato finché Stephen Colbert non mi aveva garantito che era autentico, e che il papa voleva davvero incontrare comici e umoristi di tutto il mondo, tre giorni dopo e alle sei e quarantacinque del mattino. Dall’invito avresti detto che ci sarebbe stato un confronto, come se il papa avesse delle domande per noi o dovesse chiederci un favore, tipo: “Non è che potreste darci un taglio con questa faccenda della pedofilia?”.
Tutti hanno in repertorio una battuta sul clero cattolico, magari sentita a una festa. La mia è: un poliziotto ferma un’auto con a bordo due preti. “Stiamo cercando una coppia di pedofili”, gli dice.
I due preti si guardano tra loro. “Eccoci!”.
Sostituendo i preti con dei rabbini o con dei ministri battisti, non fa ridere. Voglio dire, la chiesa cattolica se l’è guadagnate quelle risate, e ogni volta che i suoi vertici chiudono un occhio, o con discrezione mettono in panchina un sacerdote colpevole, lo scandalo diventa più grande, almeno agli occhi di un esterno come me.
“Mi aiutate a invertire la tendenza?”, immaginavo ci avrebbe chiesto il papa. “Non possiamo tornare alle barzellette sulle suore assatanate che ci piacevano tanto?”.
Stiamo parlando di un uomo che era appena stato sentito usare la parola “frociaggine” per la seconda volta in tre settimane. Dopo la nostra visita, di cui hanno scritto praticamente tutti i giornali della Terra, quella gaffe sarebbe stata citata infinite volte, soprattutto nelle sezioni dei commenti, da persone convinte che se fossero state invitate in Vaticano sarebbero rimaste a casa in segno di protesta o forse sarebbero andate per creare scompiglio, probabilmente a colpi di vernice.
Ma a me la cosa non dava fastidio. Quando ho sentito che il papa aveva detto “frociaggine” ho riso, innanzitutto perché è una parola buffa. E poi non è una cosa che diresti a una persona, non è come dire: “Zitto, frocio”. Più che altro indica un comportamento: “Questa frociaggine la lasci fuori, grazie”.
Papa Francesco non può celebrare i matrimoni omosessuali ma ha scatenato un putiferio nella sua chiesa benedicendo i gay in procinto di sposarsi. “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”, si chiedeva nel 2013.
Dopodiché, ok, ha detto “frociaggine” però si è scusato. Entrambe le volte. Più che un omofobo a me sembra un ottantasettenne (“che ho detto? Davvero?”). Io penso che se vuoi una chiesa totalmente gay-friendly devi unirti a una di quelle che già esistono – e sono una quantità – o fondare la tua. “Sì, ma io voglio che la Madonna addolorata celebri il mese del Pride”, sento qualcuno piagnucolare.
È come andare da Burger King e pretendere un Big Mac. Se vuoi un Big Mac, attraversa la strada e vai da McDonald’s. Cristo.
Inoltre l’uso del termine “frociaggine” non mi ha infastidito perché io non sono queer: sono gay. La differenza è che i queer si offendono praticamente per tutto. I gay si limitano a chiedersi cosa indosseranno in Vaticano alle prime luci dell’alba e cosa prevede il galateo.
“Se allunga la mano verso di te, puoi decidere di baciare l’anello!”, mi ha scritto la mia amica Leslie, cattolica, quando le ho detto che sarei andato.
Io sono cresciuto con le tradizioni della chiesa greco-ortodossa. Lì baciavamo la mano del prete al momento della comunione, anche se in due occasioni sono risalito di qualche centimetro e gli ho baciato l’orologio, giusto per vedere come reagiva.
“In realtà no”, mi ha scritto un altro amico. “Questo papa detesta che gli bacino l’anello, per cui se ti dà la mano stringila e basta”.
Quando mi è arrivato l’invito, ero nel Sussex. Erano le otto e mezza del mattino, e all’ora di pranzo avevo già comprato il volo e prenotato un albergo a due passi dal Vaticano che, come le città-stato di San Marino e Monaco, è una nazione a sé, e potevo perciò aggiungerla al mio elenco sul computer dei “paesi che ho visitato”. Il Vaticano era il sessantesimo.
Sul mio computer c’è un altro elenco: quello delle “star che ho visto di persona”. Se sono sul palcoscenico di un concerto o di uno spettacolo non conta. Devono essere in libertà, o a un evento a cui siamo stati invitati entrambi. Stando a un articolo inviatomi dal mio agente di viaggio, che chiamava me e gli altri invitati in Vaticano “battutari”, presto avrei aggiunto alla mia lista due comici statunitensi, uno britannico e un’attrice, anche lei statunitense.
“Più il papa”, mi ha ricordato Hugh quando gli ho detto che sarei andato.
“Ah, giusto”, ho risposto, con il tono che avrei usato se avesse detto “più Sully Sullenberger” (ex pilota statunitense che nel 2009 ha evitato un disastro aereo ammarando nel fiume Hudson, a New York). Fino a quel momento nel mio elenco avevo messo persone dello spettacolo e chi, pur estraneo a quel mondo, faceva comunque un effetto, come Ann Richards, la defunta governatrice del Texas. Se il papa non mi fa quell’effetto, credo, è perché non sono per niente religioso. Sul letto di morte probabilmente le tenterò tutte implorando perdono, ma non prima di aver cominciato a tossire sangue o aver visto la mano di Hugh sulla spina del respiratore.
Questo fa di me un agnostico o un ateo vero e proprio? Credo che sia esistito un tale Gesù, che era un rivoluzionario, ma non penso che fosse il figlio di Dio o che sia risorto. A dirla tutta, era uno spreco quell’invito in Vaticano: come se mi avessero mandato agli Us Open quando non ho mai visto una partita di football in vita mia. Ho pensato ai milioni di persone nel mondo che avrebbero dato qualsiasi cosa per incontrare il papa, e mi sono reso conto di conoscerne solo due: la donna delle pulizie del mio amico Ewan e Stephen Colbert, che è così cattolico da aver insegnato catechismo.
L’abbigliamento richiesto era “formale diurno” che, mi è stato detto, prevedeva scarpe lucidate e completo. L’unico che avevo sottomano l’avevo comprato nove anni prima, in occasione di un invito a Buckingham palace. Ogni estate la regina organizzava dei tè per benefattori di vario tipo, e io ero stato incluso in virtù di tutti i rifiuti che avevo raccolto lungo le strade britanniche. Non me l’hanno presentata, però l’ho vista: era a portata d’orecchio, abbastanza vicina da poter capire quanto fosse minuscola. Aveva i piedi grandi come panini da hot dog. Ci avevano detto di lasciare a casa telefoni e macchine fotografiche, ma intorno a me tutti ne avevano portato uno di nascosto, e in quel momento erano impazziti.
Io però non sono uno da foto. Se mi fa piacere che gli altri abbiano una macchina fotografica? A volte. Come alla cena organizzata da Stephen Colbert la sera prima della nostra udienza papale. Oggi guardo le foto degli ospiti riuniti e mi chiedo: cosa ci facevo lì? Perché non Garrison Keillor, Tina Fey o Donald Glover, per citare solo tre delle mille persone più qualificate di me? Era come una riproduzione dell’Ultima cena con uno degli apostoli rimpiazzato da Snoopy.
“Qualcuno ha una battuta preferita su Dio?”, ha chiesto Colbert mentre ci servivano l’ultima portata. “Non deve per forza essere sua”.
Per buona parte della serata ero stato seduto davanti a Whoopi Goldberg, che non avendo appetito mi aveva passato tutti i suoi piatti dopo averli appena assaggiati. Il che voleva dire doppia porzione di quattro diverse pastasciutte, due bistecche servite su letti di melanzane, quattro saporiti ravioli, due insalate di pomodori, due pavlova con ciliegie e caprino, più tutto quello che avevo rubacchiato dal piatto del figlio minore di Jim Gaffigan, seduto alla mia destra. I pantaloni mi tiravano e l’orologio mi bloccava la circolazione alla mano sinistra. Perfino la gola mi si era gonfiata. Me la sono schiarita e ho preso la parola.
“Un giorno Dio dice ad Adamo: ‘Creerò per te una moglie, una compagna, la donna più bella che sia mai esistita. Sarà bravissima a letto, entusiasta e non si lamenterà mai. Ma ti costerà’.
Adamo gli chiede: ‘Quanto?’.
‘Un occhio, un gomito, una clavicola e la palla sinistra’.
Adamo ci pensa un po’ su, e poi chiede: ‘Per una costola cosa si può avere?’”.
L’educata ma tiepida reazione di persone che fanno battute per mestiere – e riempiono gli stadi – avrebbe dovuto essermi di lezione. Io invece ne ho raccontata un’altra.
“Qual è la cosa più brutta del fare sesso con Gesù? Che vuole sempre venirti nel cuore”.
Grazie al cielo, anche Colbert ne ha detta una. Era, ci aveva avvertito, vecchissima e una delle prime che aveva scritto. Ma almeno era sua. Le mie le avevo sentite dalle persone che venivano a chiedermi di firmargli la loro copia del mio libro. Qui non c’entro niente, ho pensato con imbarazzo per l’ennesima volta durante la serata. Di solito mi consolo ricordando che tutti, segretamente, si sentono fuori posto. Lì, però, ero abbastanza certo di essere l’unico. In ogni caso gli altri invitati sono stati accoglienti e, manco a dirlo, molto, moltissimo spiritosi, proprio come la mattina successiva alle sei e quarantacinque, quando ci siamo incontrati davanti al cancello vicino agli appartamenti del papa, per poi essere accompagnati in una sala del palazzo apostolico magnificamente affrescata. Lì c’erano altre centinaia di invitati: scrittori e comici di tutto il mondo, ma perlopiù italiani. Tra loro conoscevo solo Luciana Littizzetto, che avevo incontrato a Torino anni prima. È stata l’unica persona esterna al Vaticano a parlare. Il suo intervento è durato un paio di minuti ed è stato in italiano, come quello del papa.
Quando il papa è entrato in sala e si è accomodato su una specie di trono, tutti i presenti si sono alzati ad applaudirlo. È indicativo dell’umiltà del personaggio che permetta a qualsiasi altro esponente del clero di vestirsi meglio di lui. I cardinali splendevano nei loro talari neri dai bottoni rosso acceso con fascia in tinta. Ancor più eleganti erano i gentiluomini di sua santità, che indossavano frac e papillon bianco, con raffinati panciotti spesso ornati di medaglie. Le guardie svizzere, nelle loro uniformi a righe multicolori, sembravano soldatini giocattolo rinascimentali, perfettamente immobili sotto gli elmi piumati e con le alabarde piantate davanti. Perfino i frati, con il loro saio color letame e i sandali, risultavano più appariscenti del papa, che con il suo abito bianco e una specie di scialletto sulle spalle faceva un po’ madre della sposa. In testa aveva la papalina e al collo una croce su cui avrebbero potuto crocifiggere la regina d’Inghilterra.
Il papa ha letto un discorso preparato di cui ci era stata data copia. Il succo era: il riso è il sale della vita. Il suo tono era sommesso e imperturbabile. A un certo punto ha suscitato una reazione quando si è messo il pollice sopra l’orecchio agitando le dita. Ma, come ha detto uno dei componenti della delegazione statunitense, “abbiamo riso più che altro per educazione”.
La parte che mi ha commosso è venuta dopo il suo discorso, quando, fila dopo fila, ci hanno accompagnati a salutarlo. Il papa è rimasto seduto e ha stretto la mano a tutti. Qualcuno ha portato un dono; altri si sono chinati a dirgli qualcosa. Io credo di avergli detto: “Grazie dell’invito”. Davanti a lui ho provato la stessa pietà che aveva suscitato in me la regina e che proverei per chiunque debba incontrare gente per lavoro. Ma nessuna emozione comparabile a quando, nel 2015, svoltando un angolo della Casa Bianca, dov’ero stato invitato per parlare con alcuni autori di discorsi politici, mi ero imbattuto nel presidente Obama. Per un attimo, fermo a bocca aperta, avevo temuto l’autocombustione per il rispetto, l’orgoglio e la soggezione. L’incontro con il papa è stato più come incontrare il dalai lama: non spiacevole né privo d’interesse, ma giusto “Oh, salve”.
Molti, dopo la stretta di mano, si sono allontanati di qualche passo, hanno tirato fuori il telefono e si sono fatti un selfie con il papa sullo sfondo. Proprio di cattivo gusto. “Nemmeno fosse Babbo Natale!”, ho detto all’italiano seduto alla mia destra.
Come per ogni sfilata che si rispetti, abbiamo passato la maggior parte del tempo ad aspettare, ma gli abiti ne valevano la pena. La differenza, ho pensato, era che non si potevano comprare. Poi ho ricevuto un messaggio dal mio amico Austin negli Stati Uniti in cui mi consigliava, visto che ero a Roma, di andare da Gammarelli, una sartoria fondata nel 1798 che veste il papa e i suoi collaboratori da generazioni. Non era lontana dal mio albergo e così, nel tardo pomeriggio, ci sono andato con Julia Louis-Dreyfus, vestita benissimo ed evidentemente pronta a tutto. Mentre camminavamo mi è venuto il dubbio che Gammarelli non vendesse ai laici. “Gli dirò che ho un fratello prete”, le ho detto, “che portiamo la stessa taglia e che mi sembra un bel regalo di Natale”.
Ma certe cose devono sentirle spesso, ho pensato, e così quando è stato il momento ho detto al commesso – che era giovane, snello e parlava un ottimo inglese – che collezionavo abiti religiosi di tutto il mondo.
“È uno storico di fama”, ha detto Julia.
L’ho guardata e ho pensato: cazzo. Se avessi voluto farmi mettere in difficoltà, sarei venuto con mia sorella Amy.
“Anch’io studio storia”, ha risposto il giovane. “Di cosa si occupa di preciso?”.
Panico. “A volte scrivo per delle riviste”, ho detto.
Quel che volevo era una tonaca nera, di quelle lunghe fino ai piedi che indossano i preti cattolici. Ne volevo una perché fanno sembrare più magri, perché sono un classico e perché sono confezionate benissimo, almeno da Gammarelli.
“Cominciamo dalla scelta della lana”, ha detto il giovane, porgendomi un catalogo di campioni di tessuto. “Poi sceglieremo i bottoni e le prenderemo le misure”.
Da Gammarelli, in genere, per una tonaca servono mesi di lavoro e varie prove. Il prezzo, salato, riflette la qualità del lavoro. Non è complicata come un abito su misura – non ci sono pantaloni né cerniere – ma pieghettature e fodere sono complesse. Volevo comunque procedere, e mi stavo facendo prendere le misure quando il giovane è uscito dai camerini ed è tornato con una tonaca finita che non era stata ritirata. Forse il prete che l’aveva ordinata era morto o era finito in galera. In ogni caso mi stava a pennello, a parte la lunghezza, facilmente aggiustabile.
Poi serviva il collarino. L’abito funziona anche senza, mi sono detto, finché provandolo ho pensato: “No, ok, il collarino è fondamentale”. Serviva anche la fascia, e ne ho prese due: la classica nera e la versione rossa, da cardinale.
“Vestirsi da prete sarà illegale?”, ho sussurrato a Julia mentre chiudevo l’ultimo dei trentatré bottoni, quanti gli anni di Gesù, cosa che ti fa rimpiangere che non l’abbiano crocifisso a dodici, soprattutto se, come me, hai un principio di artrite alle mani.
Mi sarebbe piaciuto indossare la tonaca per strada. Poi ho immaginato che, mentre camminavo, poteva fermarmi una persona in difficoltà o, peggio ancora, un altro prete che avrebbe cominciato a chiedermi se avevo saputo di padre O’Shea o dell’arcivescovo DiMaggio. “Un infarto, e nemmeno due minuti dopo l’inizio dell’eucaristia!”. In una situazione del genere cosa puoi dire?
“Mi scusi, è solo che mi piaceva il vestito. Ti toglie almeno cinque chili!”.
Il giorno dopo, all’aeroporto, aspettavo il volo di ritorno per Londra quando ho visto un prete con indosso lo stesso abito che custodivo nella valigia al mio fianco. Era robusto, con la barba, i capelli neri raccolti in un codino. Che effetto farà, mi sono chiesto, sapere che non potrai mai sposarti o anche solo stare con qualcuno? Ma soprattutto: che effetto farà avere fede? Sentire una valida argomentazione contro il proprio Dio e rispondere con assoluta certezza: “No, grazie, preferisco la mia versione”.
La mia nonna greca era così: aveva in camera un crocifisso grande come uno specchio con il manico, e lo aveva baciato così tanto da rimuovere la placcatura dalla pancia di Gesù. Quando in tv vedeva il predicatore evangelico Billy Graham piangeva, anche se non capiva cosa diceva. “Gesù sia lodato”, mormorava facendosi il segno della croce quando passavamo davanti a una chiesa. Legavi insieme due bastoncini, e le venivano le lacrime agli occhi. Mio padre avrà avuto un terzo della sua fede, e i suoi figli, per un motivo o per l’altro, neanche un po’.
Avrei voluto dire al prete in aeroporto che avevo appena incontrato il suo capo, il papa, che gli avevo stretto la mano e che mi avevano regalato un rosario in una bustina di pelle. Cercando di non sembrare un maniaco, avrei voluto anche chiedergli cosa indossava sotto la tonaca: mutande e maglietta? Pantaloncini? Pantaloni eleganti? Jeans? Ognuno decide per sé o ci sono delle regole?
Odiavo l’idea che mi sfuggisse qualcosa. ◆ mc
David Sedaris è uno scrittore e comico statunitense. Questo articolo è uscito sul settimanale statunitense The New Yorker con il titolo “The hem of his garment”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati