Nel libro L’alba di tutto (Rizzoli 2022) David Graeber e io descriviamo tre forme fondamentali di libertà. Diciamo che queste libertà sono state presenti in molte società nel corso della storia umana, fin dalla preistoria della nostra specie, in modalità e misure diverse. E sosteniamo che oggi queste libertà sono in gran parte scomparse dalla vita della maggior parte delle persone, al punto che per quasi tutti noi è difficile anche solo immaginare come potremmo vivere in un mondo che si basi su questi princìpi.

Le tre libertà a cui mi riferisco sono: la libertà di spostarsi, la libertà di disobbedire e la libertà di creare o trasformare i rapporti sociali.

Pensiamo che l’eliminazione di queste libertà sia relativamente recente. Per capirla bisogna inserirla nel contesto degli ultimi cinquecento anni, con le recinzioni delle terre demaniali (enclosures), la schiavitù di massa, i saccheggi e il vertiginoso aumento delle guerre di distruzione, il tutto accompagnato dallo sviluppo di nuovi sistemi di proprietà privata, credito e debito, oltre a quelli di sovranità territoriale e sorveglianza che vanno al di là dei desideri più sfrenati di qualsiasi governante o imperatore di epoche precedenti.

Naturalmente, gli ultimi cinquecento anni hanno anche visto l’ascesa globale del capitalismo, la rivoluzione industriale e la crescita della democrazia rappresentativa in varie parti del mondo.

Potremmo essere tentati di vedere un paradosso: come può l’ascesa della democrazia coincidere con una perdita senza precedenti delle libertà umane?

È proprio questo il paradosso di titoli come Capitalismo e schiavitù di Eric Williams (Laterza 1971), Il lato oscuro della democrazia: alle radici della violenza etnica di Michael Mann (Università Bocconi editore 2005) o There never was a west (L’occidente non è mai esistito), un bel saggio di David Graeber. Sono lavori che ci hanno aiutato a chiarire e sfatare quelle idee. Ci obbligano a fare i conti con i moderni costi umani del capitalismo e dell’industrializzazione; a ricordare le molte forme locali e indigene di democrazia diretta che sono state cancellate per far posto alle democrazie rappresentative, al servizio di stati nazionali e aziende multinazionali. Ci chiedono di ricordare come, a partire dalla metà dell’ottocento, l’autoidentificazione delle potenze europee come “società democratiche” sia andata di pari passo con un sostegno, per lo più incondizionato e motivato economicamente, a regimi che reprimevano attivamente le riforme democratiche, gettando i semi delle crisi di oggi.

Ci chiedono di riflettere su come tutto questo si colleghi all’erosione delle libertà all’interno delle nostre democrazie, riducendole a valori prevalentemente transazionali: la libertà di aumentare il proprio potere d’acquisto, difendere la proprietà o vendere la propria forza lavoro al miglior offerente.

È per questo che è importante sottolineare che le tre libertà che definiamo in L’alba di tutto non sono semplicemente individuali. Le libertà concepite in termini puramente individualistici possono rapidamente trasformarsi in micro-forme di predominio e presuppongono l’esistenza di un sistema di punizioni e coercizione per farle rispettare. Non stiamo parlando di libertà come concetto astratto, ma di libertà sociali concrete, che permettono anche la libertà degli altri: il che significa che presuppongono l’esistenza di un’infrastruttura materiale diversa da quella dello stato e di una morale diversa da quella del capitalismo, con i suoi noti effetti divisivi.

La prima libertà, quella di spostarsi e allontanarsi dal proprio ambiente, si esprime se esistono solide reti di ospitalità e di asilo attraverso le quali gli individui possono muoversi, trovando riparo e protezione lungo il percorso. Uno degli esempi più chiari in cui David e io ci siamo imbattuti è il concetto e la pratica del wunan, sviluppato dai pensatori indigeni dell’Australia nordoccidentale. Devo aggiungere che non siamo riusciti a inserire questo concetto in L’alba di tutto, e avevamo intenzione di approfondire l’argomento per discuterne in un libro successivo. Il wunan è, infatti, un concetto molto complesso. Gli antropologi europei hanno usato questo termine per indicare due cose che potrebbero sembrare molto diverse.

In primo luogo, è un sistema di creazione d’immagini distribuite nei paesaggi ancestrali dei monti Kimberley occidentali. In secondo luogo, è una rete di quelli che potremmo definire luoghi di ospitalità, in cui passano indigeni provenienti da centinaia di comunità diverse. In termini antropologici, è formata da clan e gruppi parentali, rituali o sociali che si sovrappongono, assicurando che tutti possano essere ospitati anche in luoghi lontani. Ma nel corso delle loro recenti rivendicazioni della titolarità della terra in quanto nativi, gli intellettuali ngarinyin hanno spiegato ai ricercatori occidentali che wunan in realtà significa molto di più.

Prima di tutto è un codice di leggi: un codice scritto nel paesaggio attraverso le immagini e che si può imparare solo attraversando il paesaggio stesso. Allo stesso tempo, è anche “un insieme di regole prescrittive e proscrittive di obblighi e doveri del comportamento civile, il bene più prezioso per un adulto ngarinyin”. David Mowaljarlai, uno ngarinyin anziano, ha sostenuto chiaramente che la civiltà aborigena è costruita su questa combinazione di princìpi estetici, topografici e morali, contrapposti a quelli economici che regolano il rapporto dei bianchi con la terra.

Angelo Monne

Anche la seconda libertà – quella di disobbedire a imposizioni arbitrarie – può diventare la base di un ordine sociale funzionante solo se è accompagnata dallo sviluppo di altri tratti psicologici e di personalità che favoriscono la tolleranza, la persuasione e l’argomentazione ragionata.

In L’alba di tutto abbiamo esplorato dal punto di vista storico il caso degli incontri tra i colonizzatori europei e le società indigene delle foreste orientali del Nordamerica, in particolare della regione dei Grandi Laghi. Missionari gesuiti come Gabriel Sagard (la cui opera del 1632, Le grand voyage du pays des Hurons, influenzò Locke e Voltaire) spesso si meravigliarono delle capacità oratorie e dialettiche dei nativi, anche se erano apertamente ostili alla palese libertà insita nella loro organizzazione sociale.

Si chiedevano come fosse possibile che quelle capacità di argomentazione ragionata fossero presenti in chi non conosceva le opere di Marco Terenzio Varrone o di Quintiliano. Nel considerare la questione, i gesuiti hanno quasi sempre notato la loro franchezza nella gestione della cosa pubblica. Negli anni trenta del seicento padre Paul Le Jeune scriveva: “Non c’è quasi nessuno di loro che non sia in grado di conversare o ragionare molto bene su questioni di loro conoscenza”. O, come scrisse padre Lalemant, “posso dire in verità che, per quanto riguarda l’intelligenza, non sono affatto inferiori. Non avrei mai creduto che, senza istruzione, la natura avrebbe fornito una dialettica pronta e vigorosa come quella che ho ammirato in molti uroni, o che gli avrebbe dato una tale intelligenza negli affari pubblici”.

Ma forse fu Le Jeune a capire più chiaramente, nel 1642, il nesso logico tra dibattito ragionato, libertà personali e rifiuto del potere arbitrario. “Immaginano”, scriveva a proposito dei montagnais-naskapi, “che, per diritto di nascita, debbano godere della libertà degli asinelli selvatici, senza rendere omaggio a chicchessia, se non quando ne hanno voglia. Mi hanno rimproverato cento volte perché temiamo i nostri capitani, mentre loro deridono e sbeffeggiano i loro. L’autorità del loro capo è tutta racchiusa sulla punta della lingua, giacché egli è potente in virtù della sua eloquenza; e per quanto parli e arringhi, i selvaggi non gli obbediranno a meno che non siano loro a volerlo”.

In questo caso alcuni gesuiti riconoscono un rapporto sostanziale tra quella che chiamiamo la seconda libertà (quella di disobbedire) e il gusto per l’argomentazione ragionata, accompagnata da un dibattito politico aperto e inclusivo. Questo sembra aver avuto una grande influenza, perché proprio il loro dibattito – razionale, empirico e scettico – nel giro di poco tempo fu identificato con l’illuminismo europeo, che ha viaggiato dalle Americhe a est portandosi dietro abitudini come fumare tabacco con la pipa e socializzare con bevande a base di caffeina. Naturalmente, anche i pensatori illuministi e i rivoluzionari democratici considerarono questo stile intrinsecamente legato al rifiuto di un’autorità arbitraria, in particolare quella del clero.

Storici ed etnografi indigeni, da Francis La Flesche a Willard Rollings, hanno notato che nella storia del Midwest statunitense la migrazione era spesso concepita come la ristrutturazione di un intero ordine sociale, che fondeva le tre libertà elementari in un unico progetto di emancipazione: libertà di spostarsi, disobbedire e costruire nuovi mondi sociali. Quelli che oggi chiameremmo “movimenti sociali” hanno spesso assunto la forma di movimenti che letteralmente attraversano un paesaggio. Se queste libertà sono esistite fino a tempi relativamente recenti (in popoli costretti a sopravvivere tra le pieghe sempre più ridotte del sistema mondiale moderno), come dovremmo immaginare la maggior parte della storia umana, prima dell’espansione del capitalismo e dei sistemi imperiali di dominazione?

Uno degli argomenti principali di L’alba di tutto è che, da qualche tempo a questa parte, la storia umana e le scienze sociali di grande diffusione – alla base di quelle che potremmo definire “grandi narrazioni” – hanno un unico scopo: impedirci anche solo d’immaginare questo tipo di cose. Il loro obiettivo era limitare la nostra immaginazione a una serie di alternative nette o falsamente binarie: in origine eravamo ugualitari o gerarchici, cooperativi o competitivi, gentili o egoisti. Alternative che rendono impossibile anche solo intuire – e a maggior ragione capire – la vera complessità della vita sociale umana al di fuori della storia canonica degli stati e degli imperi, così come appare grazie all’archeologia e ad altri metodi moderni di ricerca.

A questo punto, forse vi starete chiedendo come sia possibile studiare un concetto come la libertà nelle società del passato, se le uniche prove della vita sociale a nostra disposizione sono tracce materiali nel paesaggio o immagini e manufatti preistorici. Per rispondere vorrei far notare che gli archeologi non incontrano alcuna difficoltà nello studiare i sistemi di dominio in periodi altrettanto remoti, usando esattamente gli stessi tipi di prove.

Qualche tempo dopo la morte di David Graeber ho scoperto qualcosa di strano: una sorta di sistema concettuale per inquadrare il concetto delle tre libertà. Con mia grande sorpresa, nasce dagli scritti di Frie­drich Nietzsche, in particolare, dalle Tre metamorfosi, che aprono i discorsi di Zarathustra. Non ricordo di averne mai parlato con Graeber, ma non mi stupirei affatto se un’idea del genere fosse già esistita in qualche angolo dei suoi vasti orizzonti mentali. Ora non ha molta importanza, ma le immagini sono importanti, perché sono potenti e trasmettono meglio delle parole il tipo di problema concettuale con cui mi sembra che ci stiamo confrontando.

Le libertà a cui mi riferisco sono questi tre princìpi: la libertà di spostarsi, la libertà di disobbedire e la libertà di creare o trasformare i rapporti sociali

Le tre metamorfosi di Nietzsche sono i cambiamenti dello spirito umano che di volta in volta diventa un cammello, un leone e un fanciullo. Il cammello è lo spirito che porta un carico pesante e si affretta nel deserto, in cui subisce una seconda metamorfosi, diventando un leone.

“Cerca per sua preda la libertà”, scrive Nietzsche, “e nel proprio deserto vuol essere signore”.

Lì, nel deserto, lo spirito incontra il drago immane dalle scaglie d’oro il cui nome è: “Tu devi”. Ma lo spirito – sotto forma di leone – risponde: “Io voglio”. Però né il potere del leone né quello del cammello possono uguagliare la pretesa finale del drago: “Tutti i valori delle cose rifulgono in me, e ogni valore fu già creato”.

“Creare valori nuovi!”, dice Nietzsche. “Può forse ciò il leone? No, egli non può che procacciarsi la forza per nuove creazioni”, ma solo trasformandosi in un fanciullo. È la metamorfosi finale: perché cosa può fare il fanciullo che né il leone né il cammello possono realizzare? Può dare vita a un nuovo inizio e ricominciare il gioco della creazione.

Ricordiamo che il potere del drago immane, la sua capacità di comandare in modo arbitrario, non risiede solo nel bagliore accecante delle sue scaglie d’oro, ma anche nella loro antichità: “Ogni valore fu già creato; e io tutti li rappresento”. I valori di mille anni scintillano su quelle scaglie. L’alba di tutto è un progetto in cui ci riprendiamo il tempo, quindi creiamo spazio per altri valori e altre domande. Penso che per fare questo non possiamo limitare la nostra visione delle possibilità umane solo agli ultimi secoli, alle utopie fallite, ai racconti predeterminati sulla natura umana e ai castelli ideologici costruiti sulla sabbia o in cielo.

Oggi abbiamo fonti empiriche e storiche molto più ampie a cui attingere e un archivio dell’esperienza umana molto più ricco da consultare. Questo ha aperto uno spazio alla reinterpretazione di interi periodi del passato che erano considerati ben definiti, come la natura della vita sociale umana prima dell’invenzione dell’agricoltura, le conseguenze dell’agricoltura e della vita urbana, le origini del potere regale e dello stato, la storia della democrazia. L’enorme quantità di nuove informazioni che arrivano da ogni parte del mondo mette in discussione, e ogni tanto fa esplodere, gli schemi tacitamente accettati dell’evoluzione sociale e del ragionamento basato sui passaggi che, nonostante decenni di critica teorica, continuano a essere il principio strutturante fondamentale della maggior parte del pensiero sul passato umano.

Tutto questo era stato anticipato dal grande archeologo David Clarke. Già negli anni settanta Clarke aveva previsto che, con la ricerca moderna, quasi tutti gli aspetti del vecchio edificio della storia umana sarebbero apparsi come altrettanti “tranelli semantici e miraggi metafisici”: le spiegazioni dell’evoluzione biologica della nostra specie, della nascita dell’agricoltura, della metallurgia, dell’urbanizzazione e della civiltà. La conclusione di L’alba di tutto sostanzialmente gli dà ragione. Le scoperte scientifiche degli ultimi decenni hanno davvero ribaltato quasi tutto ciò che pensavamo di sapere o che abbiamo ereditato (in gran parte inconsapevolmente) dalla teoria sociale dell’epoca precedente.

Domande che un tempo sembravano non trovare risposta nella ricerca empirica possono essere ridiscusse e, forse in modo non sorprendente, il quadro della storia umana che ne emerge non somiglia molto alle riflessioni che ci sono state tramandate dai filosofi dell’illuminismo europeo. Millenni di esperienza umana, sottratti al drago del tempo.

Evidentemente i reperti da soli non bastano a spiegarle, visto che, dopotutto, parliamo di archeologia preistorica, cioè dell’arte e della scienza d’interpretare le prove senza testimonianze verbali o scritte. Le prove si riferiscono alla cultura materiale e ai dati relativi agli ambienti del passato, ma senza testimonianze sono sempre vaghe.

Oppure, come ha detto David Clarke, “l’archeologia è la disciplina la cui teoria e pratica si occupano di recuperare i modelli di comportamento ominide non osservabili, e di farlo sulla base di tracce indirette prese da campioni in cattive condizioni”.

Tracce così deboli possono aprire nuove possibilità ma anche limitarle. Senza la dovuta attenzione, possono essere oscurate da teorie troppo complicate e pesanti o da riflessioni a ruota libera. Credo che noi archeologi spesso trattiamo l’indeterminazione come un limite all’interpretazione o come un invito a colmare le lacune e i silenzi delle prove a nostra disposizione con teorie totalizzanti sul cambiamento sociale. L’approccio alternativo che abbiamo adottato in L’alba di tutto è un altro, e deve molto alla filosofia del realismo critico di Roy Bhaskar, che David Graeber ammirava tanto.

Come ha osservato Graeber nel suo necrologio per Bhaskar, il pensiero di sinistra in Europa (e in larga misura anche nelle scienze sociali in generale) si è tradizionalmente diviso in due campi:

I positivisti partono dal presupposto che, poiché il mondo esiste, un giorno dovremmo essere in grado di averne una conoscenza esatta e predittiva. I postmodernisti ritengono che, poiché non possiamo avere questa conoscenza, non possiamo affatto parlare di “realtà”. Tutti e due stanno solo riproponendo versioni diverse dello stesso errore fondamentale. In realtà, le cose reali sono proprio quelle le cui proprietà non saranno mai consumate da nessuna delle nostre descrizioni. Possiamo avere una conoscenza completa solo delle cose che abbiamo inventato o creato.

Che impatto ha questo per la comprensione di un passato umano lontano, frammentario, ma sempre più conoscibile?

Naturalmente non si può prescindere dal fatto che la nostra conoscenza delle realtà sociali preistoriche è fortemente limitata dalla natura delle prove che troviamo. Tuttavia la prospettiva di Bhaskar ci ricorda che nessuna società umana è mai stata così semplice da poter essere pienamente comprensibile per chi ne faceva parte. Dobbiamo sempre contemplare e affrontare gli eterni paradossi sulla vita e la morte. In altre parole, non importa quanto indietro vogliamo andare nel passato della nostra specie, faremmo sempre bene a tenere a mente che gli attori del passato avevano una comprensione della loro realtà sociale tutt’altro che perfetta, totale o completa. Ogni volta che imponiamo un modello ordinato o totalizzante ai resti frammentari di qualche attività umana del passato, eliminiamo anche un po’ della sua umanità.

Tutto questo può sembrare semplice buon senso, ma rispetto a come pensiamo ai nostri lontani antenati è in realtà una posizione radicale, per la semplice ragione che la maggior parte dei nostri scritti adotta una sorta di approccio “come se”: scriviamo degli esseri umani vissuti nel lontano passato “come se” non avessero avuto alcuna capacità di auto-riflessione, di giudizio morale o di coscienza politica; “come se” avessero trascorso tutto il loro tempo in una sola forma di realtà sociale; “come se” non fossero stati in grado di trasformare consapevolmente i loro mondi; “come se” fossero tappi di sughero alla deriva nel fiume dell’evoluzione, che prima o poi porta da gruppi di cacciatori-raccoglitori ugualitari sparsi qua e là a stati centralizzati e gerarchici.

Suggerisco che, resistendo a queste abitudini teleologiche di pensiero, sia ancora possibile sfuggire al grande drago del tempo e cominciare a vedere un altro tipo di realtà e ad avere un’idea diversa di ciò che significa essere Homo sapiens oltre il bagliore accecante delle sue scaglie dorate. Per concludere, non posso fare a meno di ricordare le parole di David Graeber, che erano al contempo ingenue e profonde: “La verità ultima e nascosta del mondo è che è qualcosa che fabbrichiamo, e che potremmo facilmente fabbricare in modo diverso”. Il che, ovviamente, è l’essenza stessa della terza libertà. ◆ vf

David Wengrow è un professore e studioso di archeologia comparata. È autore con David Graeber di L’alba di tutto: una nuova storia dell’umanità (Rizzoli 2022). Questo articolo costituisce il suo intervento all’ultima edizione di Biennale democrazia (biennaledemocrazia.it), manifestazione culturale che si è tenuta a Torino dal 22 al 26 marzo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati