Dall’inizio della guerra al 28 marzo, sono entrati in Moldova, il paese più povero d’Europa, 385mila profughi ucraini. Un terzo ha deciso di rimanere qui: culturalmente i paesi sono simili, e in Moldova (che è stata una repubblica sovietica fino al 1991) molti parlano russo (lingua diffusa anche in Ucraina). Il governo di Chișinău spende circa trenta euro al giorno per ciascun rifugiato e ha chiesto aiuto all’Unione europea. Ecco le storie di alcuni profughi raccolte nella cittadina di frontiera di Palanca e nella capitale Chișinău.
In attesa “Non volevamo partire senza mio marito. La bambina non voleva lasciare il papà”, mi dice in un romeno quasi letterario Elena Iliescu, 40 anni, di Čornomorsk, una città sul mare, nella regione di Odessa. È sabato, ora di pranzo, ed Elena è appena arrivata a Palanca, un comune di meno di duemila abitanti in Moldova, con la figlia Dașa, che ha 7 anni. Intorno a loro ci sono mamme, bambini, nonne, cagnolini, trolley, zaini, sacchi di iuta, scatoloni, reti portagiochi, piccoli monopattini.
Elena e Dașa hanno aspettato 17 giorni prima di fuggire dalla guerra. Hanno cercato di abituarsi alle scuole chiuse. Poi ai negozi e alle farmacie con le saracinesche abbassate già alle quattro del pomeriggio. Al fatto di non riuscire a fare la spesa: “Quando suonava la sirena, dovevamo lasciare tutto e scappare di corsa”. E infine alla partenza di amici, vicini e parenti. Dopo due settimane di terrore, Dașa si svegliava la notte sentendo le sirene e saltava giù dal letto. “Neanche ora riesce a dormire”, osserva la madre. Lei, invece, non ha smesso di accumulare stress. La scelta di partire non è stata facile. Ma a Chișinău, la capitale della Moldova, vivevano già il fratello e diversi parenti. Così ha cominciato a fare le valigie. “Abbiamo preso i vestiti, qualche giocattolo, qualcosa da mangiare”. In futuro non sa cosa farà. “Spero solo che questa guerra finisca presto e non ce ne siano altre. E spero di riabbracciare mio marito”.
Alla frontiera i profughi sono indirizzati da volontari e poliziotti verso un pulmino giallo con la scritta “Trasporto studenti”, che li accompagna a un centro raccolta a qualche minuto di distanza. Lì altri volontari distribuiscono tè, caffè, pane e salame, mele e biscotti, oltre a informazioni e parole di conforto. Molti autobus offrono corse (gratis o a pagamento) verso Chișinău, la Romania, la Polonia, la Repubblica Ceca. In una tenda due stufette sfidano il freddo senza grande successo. Fuori la temperatura è sottozero; all’interno madri e figli se ne stanno rannicchiati sulle panche di legno, avvolti nelle coperte. In fondo alla tenda c’è uno spazio per giocare.
Un piccolo conforto “Mamma, cos’è successo a questi bambini? Perché c’è tanta gente? E perché sono spaventati?”. All’inizio della guerra Jeni, una bambina di cinque anni del comune di Brînza, in Moldova, faceva in continuazione queste domande. “Nel loro paese c’è la guerra, perciò scappano”, rispondeva Iuliana Hâncu, 23 anni. Iuliana seguiva un corso di cucito. Poi, vedendo quello che succedeva oltre il confine, ha pensato che il cucito poteva aspettare. “Sono venuta insieme a mia figlia a dare una mano. Di più non potevo fare”. La bambina gioca insieme ai suoi coetanei con orsetti di peluche, bambole e colori. Non sa né il russo né l’ucraino, quindi comunica a gesti. “Per lei è un trauma vedere dei bambini spaventati. Così gli dà il suo piccolo aiuto”.
Nastja e la bambina “Un vero disastro: morti, feriti, case distrutte”, dice Nastja, una ragazza di 18 anni con una sciarpa viola in testa, rispondendo a una domanda sulla sua città, Mykolaïv. “Bombardamenti notturni, incendi. Le strade e le case devastate”. Ha preso il fratello, che ha la metà dei suoi anni, ed è partita per l’Italia, dove vivono la madre e una zia. Il padre è rimasto in Ucraina. Nastja sognava di studiare recitazione a Charkiv, ma la città è sotto le bombe russe e l’università è stata distrutta. Per il momento non ha progetti. Si prende cura del fratello, proteggendolo dal freddo e dalla fame. Lo avvolge in una coperta mentre lui mangia con appetito un piatto di riso e salsicce.
Non volevamo partire senza mio marito. La bambina non voleva lasciare il papà
Nastja parla solo russo e ucraino. A tradurre è Vasea Znacoven, un volontario di 19 anni, membro di una chiesa pentecostale. “Gli ucraini ci ringraziano: non si aspettavano che potessimo aiutarli in questo modo. E neanche noi ci aspettavamo una mobilitazione simile”, dice Dan Gherman, dell’ong Moldova for peace. “In cambio personalmente ricevo tanta energia positiva, anche se ormai dormo solo due ore per notte”.
Dove i volontari non possono essere d’aiuto, intervengono gli psicologi. Come Eduard Savin, che ascolta chiunque glielo chieda, adulti o bambini: “Oggi ho parlato con una donna accompagnata dalla figlia di dodici anni, che era arrabbiata con chi ha fatto scoppiare la guerra”. Dopo aver ascoltato la bambina, che non si capacitava del fatto che non avrebbe più rivisto amici e parenti e non capiva come si potesse permettere tanto orrore, ha cercato di trasmetterle un po’ di speranza. “Le ho spiegato che deve avere fiducia, così aiuterà se stessa e la madre. Non deve lasciarsi andare, ma trovare una fonte di emozioni positive. Le ho detto che avrà la possibilità di conoscere persone e paesi nuovi”. Stanno andando in Germania, dove hanno dei parenti.
Danni psicologici A Chișinău i profughi ucraini sono alloggiati in complessi sportivi, studentati, ostelli, spazi espositivi, sinagoghe, chiese. E nelle case. Al Moldexpo, la fiera di Chișinău, sono sistemate più di cento persone, per la maggior parte madri e figli, ma anche coppie di anziani. Alcuni sono qui dall’inizio della guerra e aspettano di tornare a casa; altri restano solo qualche ora o qualche giorno prima di trovare un autobus che li porti dai parenti o nel paese dove sperano di cominciare una nuova vita. Lo spazio Moldexpo era un centro anti-covid ed è quindi diviso in tante piccole cabine. In ognuna c’è un letto e, al posto della porta, una tendina.
Alcuni bambini corrono nel corridoio, una ragazzina si dondola su un cavallino, altri sono seduti intorno a un tavolo a colorare: tutti sotto la sorveglianza di Ana Josan, 66 anni, dei servizi per l’infanzia di Chișinău. “Cerchiamo di non interferire. Giocano come vogliono, smettono quando lo decidono loro. Gli psicologi ci raccomandano di lasciarli liberi”, dice Josan, che è originaria di Dubăsari, in Transnistria, e conosce bene le conseguenze dei conflitti sui bambini.
Le figlie avevano appena 10 e 14 anni quando scoppiò la guerra in Transnistria, nel 1992. “Ci hanno bombardato la casa. Mio marito era un poliziotto ed è stato arrestato. Ma a soffrire di più sono state le bambine”, racconta Josan a voce bassa, piangendo. “La più piccola ha cominciato a fare la pipì a letto; per sei mesi è stata in terapia. La più grande è stata ricoverata in neurologia”. Oggi le ragazze stanno meglio. E anche il marito sta bene. “Alle sei del mattino del 24 febbraio ho sentito forti rumori, perfino i vetri vibravano. E ho detto a mio marito: stanno bombardando!”. Josan guarda le madri ospitate nel centro, sole con i loro bambini, e le si spezza il cuore. “Una cosa è scappare con i propri mariti, un’altra da sole. Non riesco neanche a immaginare come si sentano. Hanno lasciato le loro case e i loro uomini. Sono qui senza sapere cosa succederà. È questa la cosa peggiore dal punto di vista psicologico”.
Tornare a Odessa Nella palestra di atletica leggera di Chișinău sono alloggiati circa cento ucraini, su brandine con materassi legati insieme. Su una parete ci sono dei grandi radiatori, pochi per uno spazio così grande. Alcune madri allattano e preparano i biberon con il latte in polvere, altre spazzano per terra mentre i bambini giocano al freddo. Il 95 per cento delle persone ospitate qui sono rom. Come spiega Marina Buga, dei servizi di assistenza medica e sociale del comune, la ripartizione dei profughi avviene non su base etnica ma tenendo conto della comunità di appartenenza. Su una brandina Kireș, un’anziana di 74 anni di Odessa, aspetta da quattro giorni che la figlia, già arrivata in Ungheria, le spedisca il passaporto che aveva dimenticato. O, in alternativa, che l’ambasciata ucraina gliene dia uno nuovo. Kireș è stata fermata alla frontiera di Sculeni mentre cercava di entrare in Romania insieme agli altri figli e ai nipoti. Ha lasciato l’Ucraina per la loro insistenza. “Voglio che questa guerra finisca presto e voglio tornare a Odessa. Voglio stare a casa mia. Sono anziana e malata”.
Verso Israele In una stanza del cortile della sinagoga Agudath Israel di Chișinău, Ljubov Antonovna, 82 anni, appoggia una cartellina piena di documenti sullo stendino dov’è steso il bucato. Quindici anni fa aveva deciso di trasferirsi in Israele insieme al marito, che era ebreo, ma poi lui si è ammalato ed è morto. In quanto vedova di un ebreo, ha diritto a vivere in Israele e sta per ottenere il visto. Per lei è stato difficile lasciare la casa di Kiev e la preoccupa trasferirsi in un paese di cui non conosce la lingua e dove “ci sono già altri conflitti”. Ma in Israele ha una nipote, che l’aspetta. Una parte di lei vorrebbe tornare in Ucraina, mentre l’altra vuole partire per Israele. In memoria del marito: “Realizzerò il suo sogno senza di lui”. ◆ edl
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati