Nel 2020, quando mia figlia aveva quattro anni, abbiamo vissuto per un breve periodo in Francia. Il primo giorno, con la nostra cucina ancora piena di scatoloni, l’ho portata da McDonald’s e le ho detto che i francesi lo chiamano “le Macdo”. L’ho messa a sedere sul bancone e le ho letto il menù in francese, e intanto lei rideva appoggiata alla mia spalla: “Mamma, come sono buffi i francesi!”. Qualche settimana dopo abbiamo incrociato un bambino della sua scuola. “Coucou, Elena!”, le ha detto lui. Elena lo ha salutato disinvolta con la mano, poi mi ha lanciato un sorrisetto: “Buffo, vero?”.

Quella sua segreta ilarità mi ha ricordato il mio primo contatto con la vita di famiglia in occidente. Avevo nove anni ed eravamo appena fuggiti dall’Iran, perché mia madre era una cristiana convertita, in altre parole un’apostata. Mia madre, mio fratello e io vivevamo a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, senza documenti di soggiorno, in una sorta di limbo. Quando l’ostello per migranti dove abitavamo chiuse senza preavviso, fummo accolti da una famiglia di missionari australiani. La prima sera ci ritirammo nella nostra camera a raccontarci tra le risate le loro abitudini. Eravamo grati di avere una stanza e un letto, ma quella famiglia ci sembrava stranissima. Inoltre provavamo il brivido di poter osservare da vicino i comportamenti dei bianchi. Gli occhi di mia madre si spalancarono quando fu servita la cena: affettati, verdura fredda e vari avanzi. Ogni sera il figlio Nathan, un bambino della mia età, poteva starsene un po’ da solo in camera prima che i genitori andassero a rimboccargli le coperte, uno dopo l’altro. Un rituale bizzarro.

Per vent’anni io, mia madre e mio fratello siamo stati bravi ad amarci in momenti di crisi, molto meno a gestire la solitudine, la tranquillità o l’intimità

Non avevo mai avuto del tempo solo per me. Mia madre s’intrometteva sempre. Nell’ostello dormivamo nello stesso letto. La porta chiusa di Nathan mi sembrava un’ostentazione inutile. In quella prima fase della nostra vita da immigrati vivevamo in un perpetuo stato di stupore e perplessità. Tutto quello che facevano quegli anglofoni era strano e la sera, in camera, stretti tra di noi, ridevamo fino a quando la nostra allegria si trasformava in lacrime, e ci addormentavamo l’una nelle braccia dell’altro, augurandoci un giorno di capire le loro battute e di sentirci a nostro agio a tavola con loro.

Oggi ripenso spesso alla porta chiusa della camera di Nathan. Per vent’anni io, mia madre e mio fratello abbiamo vissuto sprofondati tra i confini della nostra psiche, condividendo materassi, cibo e una lingua ibrida. Siamo stati bravi ad amarci in momenti di crisi, molto meno a gestire la solitudine, la tranquillità o l’intimità. In un certo senso ognuno di noi negava agli altri due il suo punto di vista. Ovunque ci trovassimo, bloccati in un campo profughi, in un aeroporto o in uno squallido appartamento nell’Oklahoma, era come se vivessimo insieme in una vecchia stanza a noi familiare, con le tappezzerie ai muri e gli odori delle cene di casa. Dentro quel caldo bunker, scherzavamo e piangevamo e lottavamo, urlando cose che non avremmo mai detto a nessun altro. Liberavamo i nostri traumi nel peggiore dei modi, aspettandoci di essere perdonati. Mentre fuori rimbombavano guerre, sfollamenti e caos, riempivamo quello spazio interiore di confortevoli drammi familiari. Dopo molti anni, i rumori esterni si sono attenuati. Siamo cresciuti, l’aria si è fatta viziata e mio fratello e io ce ne siamo andati, alla ricerca di cieli aperti e nuove famiglie.

Qualche mese dopo il nostro arrivo in Francia, abbiamo incrociato un altro bambino della scuola di Elena. “Coucou, Benjamin!”, l’ha salutato lei, pronunciando il nome con un accento che mi ha fatto sbuffare. Bah-jamah. Era come se avesse avuto il setto nasale deviato. Mi ha fulminato con lo sguardo. “Smettila, mamma!”, ha sussurrato, furiosa. Ho fatto un passo indietro. Elena stava abbracciando un inizio di francesità che non potevo imitare, perché non avevo nessuna speranza di riuscire a distinguere en da an. Ben presto mi sono ritrovata sola nel nostro bozzolo dove i francesi sono sciocchi e buffi. “Smettila!”, sussurrava Elena ogni volta che provavo a parlare francese con i suoi amici.

“Se permette, signorina”, le ricordavo allora, “questa è la mia terza lingua”. Quelle parole mi riportavano indietro alla mia prima casa nel sud degli Stati Uniti, un minuscolo appartamento dove mia madre, mio fratello e io ci eravamo imbarcati nel nostro lungo processo di americanizzazione. Prendevo in giro mia madre per il suo inglese e lei rispondeva: “Se permette, khanom (signorina), in persiano ho una laurea in medicina”. In passato ero convinta di essere rimasta in quella stanza calda e immaginaria insieme a mia madre per dieci anni. Ma forse l’ho lasciata lì un anno dopo il nostro arrivo in Oklahoma, dove mi sono assimilata velocemente, alterando il mio accento in mille sottilissimi modi che lei non poteva cogliere.

Ora so che quella stanza piena di buoni odori, immaginario luogo sicuro che condividevo con mio fratello e mia madre, in realtà per una ragazza non era mai stata sicura. Per una giovane iraniana andarsene non è un’opzione. Un figlio prima o poi lascerà casa, ma una figlia deve marcire lì. Non può esprimere nessun disaccordo con i valori di sua madre. L’ho capito nel 2013, tre mesi dopo il mio divorzio. Ero libera, in un delizioso studio nel Lower East side di Manhattan, quando due uomini della mia famiglia sono venuti a suggerirmi di andare a vivere con mia madre, dato che eravamo entrambe sole e potevamo benissimo condividere la nostra intimità.

Ora, dieci anni dopo e con un oceano tra noi, siamo sedute ognuna nella sua cucina – io nel mio appartamento europeo, lei nella sua fattoria statunitense – e parliamo attraverso lo schermo di un computer in presenza di una psicoterapeuta inglese. L’intimità con mia madre è diventata talmente spaventosa che ho proposto un compromesso. “Non è normale”, dice mia madre inveendo contro le mie nuove barriere: non le parlo della mia scrittura, non voglio stare a sentire le sue prediche sulla religione, non sopporto i suoi incubi e le sue paranoie (i parenti serpenti, la paura della meningite anche solo per un prurito).

Ma cos’è normale per una madre e una figlia? Voglio che me lo dica un’esperta in scienze sociali, non una madre iraniana. In Iran le figlie difendono il sogno di una vicinanza con (e per le) loro madri e per questo pagano un prezzo molto alto. Le madri criticano. Le figlie ascoltano. Immagino che sia amore. Nel corso dei decenni mia madre mi ha cucinato migliaia di piatti incredibili, mettendoci tutta se stessa. Ha cucito gli orli dei miei pantaloni, mi ha fatto belle le sopracciglia e mi ha fatto ridere. Ha anche sminuito le mie competenze, mi ha detto di appendere il mio diploma sotto quello del mio ex marito, ha parlato male dei miei partner, ha accusato alcune mie amiche di farmi il lavaggio del cervello. Per lei nulla di tutto questo conta quanto i pasti e le sopracciglia. Non la sfiora il pensiero che io possa essermi costruita dei valori miei, o che io possa trovare offensivo il fatto che lei mi consideri incapace di avere delle opinioni personali. Per lei sono solo una sciocca ragazzina che si fa manipolare da gente più sveglia: uomini scaltri o diaboliche figure materne rivali.

Beatrice Bandiera

I bambini sfollati, quando crescono, sognano di ridiventare normali, di non essere più condizionati da centinaia di possibilità ed errori. Vogliono porte grandi e pesanti che separino le stanze della loro psiche da quelle dei genitori, una distanza ben definita e confini tangibili tra il presente e il passato. A volte, quel passato è incarnato da una madre straniera che continua a bussare alla nostra porta. Ogni volta che traccio un limite chiaro il viso di mia madre crolla. Continua a spolverare il nostro rifugio immaginario, in cui noi tre formavamo un’unica cosa, nella speranza di vederci tornare per una tazza di tè e qualche risata. Se faccio una battuta, pensa che si stia aprendo uno spiraglio. Il suo sguardo s’illumina. Vorrei poter sostenere quel calore, ma sento il pericolo e richiudo la porta. E lei si ritrova sola, confusa.

Nonostante tutti i nostri scontri di culture, quello principale rimane questo: durante tutta la mia adolescenza, mia madre mi ha coperto il corpo e ha sorvegliato il mio comportamento, facendomi vergognare di diventare donna. La repressiva educazione religiosa che ho ricevuto ha finito per influenzare più di ogni altra cosa il mio modo di essere madre: sono attentissima a non far mai vergognare mia figlia.

L’altro giorno Elena, che ora ha sette anni, ha detto mentre guardava la televisione: “Ora si danno tanti bei baci”. Sono stata tentata di andare avanti e saltare i quattro secondi di baci, peraltro molto casti, ma mi sono trattenuta. In cambio di questa libertà, lei mi confida tutti i segreti del suo cuore. Quando ero piccola, se alla televisione due personaggi cominciavano a flirtare, mia madre si precipitava a cambiare canale. Se c’era un bacio, bandiva il programma definendolo uno sconcio e commentando: “Se guardate cose non cristiane, non posso fidarmi a lasciarvi vedere la televisione”. Non posso dimenticare che se da piccola fosse stata lei a guardare storie d’amore in televisione, l’avrebbero picchiata e cacciata di casa.

Una volta, quando avevo dodici anni, mia madre mi riprese per una battuta di cattivo gusto. Provai una stretta al petto e non riuscii quasi a mangiare. Più tardi, per alleviare la mia vergogna, mi raccontò un aneddoto della sua infanzia nell’Iran prerivoluzionario. Stava facendo i compiti e intanto mormorava distrattamente tre parole che aveva sentito alla televisione: “Maria, vergine, madre”. Passandole accanto, il padre se ne accorse e le mollò un ceffone. A un bambino, nella stessa situazione, non sarebbe successo niente, e questo mi fa arrabbiare. Ma è una storia che mi fa anche sorridere: già da piccola, mia madre aveva scoperto la madre di tutti i martiri.

“Facciamo le pazze, mamma!”, mi dice Elena, ballando allegramente. “Pazze da legare!”. In pubblico urla: “Mamma, dove va la mia vagina?”. Se un estraneo ci lancia un’occhiata di disapprovazione, sostengo lo sguardo e rispondo ad alta voce: “Su per la tua cervice fin dentro il tuo utero”. A volte cerco un disegno anatomico sul mio telefono, ma poi, proprio quando mi sembra di ribellarmi a mia madre, mi ricordo che in Iran lei era una ginecologa. Quello stesso disegno me l’aveva fatto vedere lei. Aveva provato a tenermi sotto una campana di vetro come fanno le madri iraniane, ma era anche un’adulta razionale, una dottoressa con il camice da laboratorio che per divertirsi risolveva problemi matematici complessi. Malgrado i suoi dogmi religiosi e la sua tendenza al pensiero magico, aveva un grande cervello e braccia forti, e io la veneravo.

In Iran, essere normali vuol dire fare spazio a questa dualità. Le brave figlie asiatiche sanno entrare e uscire senza sforzo dal regno della fantasia. Sono leali e recitano per le loro madri. Rimangono nella stanza immaginaria e fingono di credere che abbia senso, che gli occidentali siano sciocchi. Io, evidentemente, non sono più una brava figlia asiatica.

Prima di trovare la nostra psicoterapeuta, mia madre e io abbiamo avuto uno scambio sfiancante. A un certo punto se n’è uscita chiamandomi concubina, visto che non sono sposata. Tutto il nostro lavoro di riconciliazione è svanito in un attimo. Ho mandato un messaggio a un’amica, anche lei una scrittrice immigrata, per sfogarmi.

“È più forte di loro! Sono madri dispotiche e traumatizzate!”. La mia amica è a favore di un approccio morbido, in cui ci fingiamo leali con le nostre madri sapendo che ben presto ritroveremo la sicurezza delle nostre case femministe. “La loro educazione è stata molto peggio”, mi ricorda la mia amica. “Pensa a che stronzate gli propinavano le loro madri. In fondo ce ne trasmettono solo una minima parte, molto meno di quello che hanno ricevuto”. È vero, le nostre madri hanno subìto un’educazione che neanche ci possiamo immaginare. Le botte, i lunghi silenzi, gli insulti per il loro aspetto fisico o per i comportamenti “inappropriati”.

Beatrice Bandiera

Mia madre ha trascorso notti gelide in carcere e ha dovuto trascinare i figli via di casa per rifarsi una vita. La mia nonna materna, morta a Londra nel 2022, era stata una sposa bambina a Teheran. Aveva tredici anni quando l’hanno costretta a sposare un uomo adulto. Per fortuna era un uomo di diciannove anni e non di sessanta, ma la cosa non poteva consolare una ragazzina alla quale nessuno aveva parlato di sesso prima che le fosse imposto. In seguito mia nonna ha rinnegato i valori iraniani. Fino alla sua morte ha tracciato netti limiti occidentali intorno a sé.

Chiedo alla mia amica, che è più buona di me, cosa vogliono da noi queste madri asiatiche, perché non ci lasciano in pace. “Vogliono delle figlie in grado di capirle, di proteggerle, di tradurle quando saranno anziane”. Secondo lei il mondo sta cambiando e le regole delle nostre madri, che trent’anni fa potevano sembrare tradizioni folcloristiche, oggi per le giovani generazioni sono imperscrutabili.

Non ne sono così certa. Credo che le nostre madri traumatizzate, pur dominando le figlie, sappiano trasformarsi con i nipoti in folcloristiche nonne da telefilm, terribilmente imbarazzanti ma inoffensive, un po’ come uno zio ubriacone. Mia madre e mia figlia si divertono come matte a giocare con i rossetti. Elena balla come Lizzo e mia madre la guarda ammirata. Vogliamo maltrattare solo le generazioni prima e dopo di noi. Basta saltarne una in avanti o indietro per creare una distanza sufficiente a far emergere le affinità, le risate e perfino la comprensione.

Quando mia nonna chiamava mio nonno stupratore, io le credevo. Forse perché non ero legata a lui. L’estate in cui ho compiuto ventun anni, ho vissuto con mia nonna nel suo appartamento di Londra. Mi dava un liquore messicano e pistacchi contro i dolori mestruali, che chiamava “la brutta situazione”. La sua famiglia ha sempre rifiutato di riconoscere il suo stupro, anche se i numeri parlano chiaro: quando mia nonna aveva compiuto 25 anni mia zia e mia madre ne avevano undici e nove.

Mia madre e mia zia sapevano che una volta morta la nonna avrei raccontato a tutti del suo stupro, così subito dopo la sua morte sono andate a casa sua per svuotare la memoria di tutti i suoi computer e telefoni e bruciare tutti i suoi documenti, tranne alcune sue poesie e sette pagine di fantascienza cristiana, tanto innocua quanto meravigliosamente estrosa. Chissà se scriveva storie fin dalla sua infanzia abortita. Le ultime parole che mi ha detto sono state queste: “Sto scrivendo le mie memorie. Mi vuoi aiutare?”. Aveva scritto l’inizio: “Ho avuto un’infanzia molto breve”. Questa riga è tutto quel che resta di lei.

Prima della morte di mia nonna capitava che io e mia madre scherzassimo insieme. Negli anni, via via che ci assimilavamo, le nostre battute avevano finito per prendere di mira le strane abitudini degli iraniani più che quelle degli statunitensi. Durante la pandemia, mentre stavo scrivendo un racconto, mia madre ha ricordato un aneddoto della sua infanzia. “Ci strappavamo le sopracciglia e dicevamo alla gente che soffrivamo di ipotiroidismo”, mi ha detto, soffocando una risata dietro la mano. “Solo alle sopracciglia?”, ho chiesto, sghignazzando. “Un ipotiroidismo che faceva cadere solo l’eccesso cespuglioso delle vostre sopracciglia e nient’altro?”, ribattevo. “No, faceva cadere anche i peli delle gambe”, ha risposto, e sono scoppiata a ridere. Un problema ghiandolare che colpisce solo i peli indesiderati: non c’è niente di più iraniano. “Le nostre nonne ci credevano!”. O lasciavano correre. Per un breve momento, bevendo il tè e prendendo in giro le altre iraniane, siamo tornate nel bunker ambulante del nostro periodo da emigrate, quello spazio sacro dove ridevamo degli altri, della loro vanità, dei loro limiti o dei loro salumi a cena.

“Credo che siamo di fronte a un trauma intergenerazionale”, ha detto la psicoterapeuta durante la nostra seconda seduta. Qualcosa di più di un semplice divario culturale. È vero: la nostra famiglia ha dovuto fare i conti con emigrazioni, uomini violenti e sofferenze profonde e lancinanti. Abbiamo tutte un rapporto un po’ strano con il sesso, e ora mi rendo conto che non è solo per via della nostra cultura o della teocrazia, ma anche per gli stupri ripetutamente subiti da mia nonna quando era minorenne, con il beneplacito della nostra comunità, un crimine che ha dato vita a ognuna di noi.

Una sera, quando era ora di andare a letto, ho detto a Elena che di notte bisogna chiudere a chiave la porta di casa, e lei ha urlato: “Non dirmi cose che mi fanno paura! Non dirmele finché non avrò vent’anni!”. Tutte le madri dicono cose paurose alle figlie? O le stavo trasmettendo qualcosa d’inevitabile e profondamente radicato?

Beatrice Bandiera

Mia madre continua a sostenere che tutti i nostri problemi ruotano intorno alla cultura e alla definizione di ciò che è normale. “Nella mia cultura”, dice, “si rispetta la madre. Non si alzano tutti questi muri per tenerla lontana”. A volte dice esattamente quello che sto pensando anch’io: “Un tempo eravamo vicine, no?”. E sento un buco nello stomaco perché so che un giorno perderò il mio spazio privato con Elena. “Spiegami”, dice mia madre, “a che età le madri smettono di essere madri”. Non ne ho idea, ma so che è inevitabile, e che oppormi mi strazierà il cuore. Posso passare ore ad annusare il collo di mia figlia. Al funerale di mia nonna ho abbracciato mia madre con riluttanza, e l’ho sentita respirare a fondo, avidamente, contro il mio collo. Mi sono sentita violata, senza parole, ma anche triste per lei. Mi sono tirata bruscamente indietro. Il suo bisogno di me stava diventando un incubo, e ho cominciato a immaginarmi, tra vent’anni, aggrappata con troppa forza a mia figlia.

“Vi rendete conto di cosa mi state facendo?”, c’interrompe la nostra psicoterapeuta. Io e mia madre stiamo urlando. Ammutoliamo. Ci siamo disonorate davanti a una persona bianca. Abbiamo la tendenza a tornare indietro a quei giorni di caos, quando ogni sfogo poteva essere perdonato. Ora abbiamo bisogno di una signora inglese per ricordarci come ci si comporta. Anche se siamo nel bel mezzo di un litigio, provo il bisogno di tradurre mia madre per quella donna europea, perché questo è il mio lavoro. È quello che faccio da quando sono piccola, ma è anche letteralmente il mio lavoro: scrivo di persone iraniane per un pubblico occidentale. Mia madre odia il fatto che io parli tanto candidamente della mie insicurezze e dei miei fallimenti: rivelo troppo e, così facendo, danneggio la nostra storia di rifugiati redenti.

Lo scrittore Matthew Salesses, che nei suoi libri analizza le tecniche narrative nelle varie culture, spiega che ogni frase è interpretata diversamente a seconda delle aspettative. “Era assolutamente certa di odiarlo” può significare moltissime cose. Per un lettore occidentale, lascia intendere che lei alla fine s’innamorerà, o che è già innamorata. Per mia nonna, quella frase poteva voler dire che presto lei sarà costretta a sposarlo. È esattamente il tipo di frase su cui io e mia madre ci accapigliamo. Se svelo un piccolo difetto nel personaggio di una madre iraniana, un difetto che più avanti potrebbe sbocciare in un legame o in una comprensione reciproca, mia madre lo sviscera a colpi d’insulti. “Tu pensi che io sia solo una stupida immigrata”, dice. Le spiego che parlare solo di forza e resilienza è noioso, che bisogna cominciare in un punto diverso da quello di arrivo. Le storie imperfette sono più interessanti. I personaggi che hanno difetti sono più amati. Ma lei liquida ogni mio argomento. Sono americanate senza senso.

Per mia madre, essere smascherati davanti agli occidentali è spaventoso. Per me, scrivere con onestà usando la mia voce è un atto ristoratore. Mia madre custodisce gelosamente nella memoria il nostro passato comune. Fa diventare i nostri vestiti più puliti, i nostri visi più carini, sorridenti come quelli delle pubblicità. Io archivio quegli stessi ricordi con le crepe ben visibili. Scrivo quello che mi sembra valga la pena di essere conservato. “Hai rovinato i miei preziosi ricordi”, dice lei leggendo il mio lavoro. Ma perché dovremmo proporre storie d’immigrati falsamente consolatorie? Perché dovremmo rintanarci nel nostro angolo e limitarci a ridere del piatto di affettati? Io voglio invitare i miei lettori a guardare attraverso i miei occhi, non voglio essere presentabile ai loro. Voglio che vedano i tanti, stupendi modi in cui sappiamo essere degli idioti, perché credo che sia una cosa de celebrare. Voglio compiacere le gerarchie iraniane: spingere il pubblico statunitense ed europeo a scoprire i miei difetti non mi mette su un gradino più alto? Non fa di me una regina, invece che una disgraziata?

Ho amiche che a casa fanno la parte della brava figlia asiatica. Si trasformano in una versione piatta, e dolce di se stesse. Mia madre un tempo fingeva rispetto per sua madre, le serviva il tè e si rivolgeva a lei in tono formale. La scrittura mi ha reso molto consapevole di queste falsità. Ho sempre voluto essere me stessa, e quando qualcuno pretende che io reciti, preferisco mantenere le distanze. Mia madre ha sofferto molte ingiustizie, ma per questo le dovrei una recita consolatoria? Anche se è un rito che mi fa male?

Parliamo del giorno in cui si è lasciata sfuggire la parola concubina. Mia madre mi chiede di tener presente la sua cultura: è più forte di lei. Mi tornano in mente le scuse che rivolgo ai miei studenti quando uso i pronomi sbagliati. Ogni volta vorrei dire: “Abbiate pazienza, avete ragione, ma le mie abitudini sono quelle di un’altra generazione. Ce la sto mettendo tutta”. A volte ricordo loro che nella mia lingua materna, il persiano, i pronomi di genere nemmeno esistono. E che l’unico motivo per cui m’imbroglio è che sono stata americanizzata. Se fossi la versione iraniana, originale, di me stessa, i pronomi non avrebbero nessuna importanza.

Per me i miei studenti sono un mistero come io lo sono per mia madre. Entrambe incespichiamo nelle nostre nuove lingue. Mia madre mi chiede di darle il beneficio del dubbio. Forse dovrei, perché ho bisogno che i miei studenti lo diano a me e perché un giorno chiederò la stessa cosa a Elena. Siamo tutte sfollate nel tempo, madri straniere della prossima generazione.

Ripenso al passato, cercando di addolcirmi. Ricordo quando mia madre curava le mie ferite, anche se era stata allevata da un’adolescente. Mi massaggiava i muscoli dopo gli allenamenti di taekwondo. Durante il mio divorzio mi chiamava quasi ogni sera. Quelle chiamate mi erano di aiuto grazie alla distanza di sicurezza tra noi (all’epoca mia madre faceva la volontaria per gli American Peace Corps in Thailandia). Quando è tornata negli Stati Uniti, è sbarcata a sorpresa da me carica di tè, riso basmati e medicine da banco. Ancora una volta l’intrusiva madre iraniana oltrepassava i miei confini.

A volte, quando più sento il bisogno di passare del tempo con Elena, lei mi respinge. Mi sono comportata allo stesso modo con mia madre? Intrappolata nel mio punto di vista, riesco solo a rivederla all’epoca della mia adolescenza, quando cercava d’inserirsi, con la sua aria altezzosa e il suo pessimo inglese, e falliva. Forse capirla per un momento è già abbastanza. Capire che ha (in minima parte) ragione: è tutta una questione di lingua e di cultura. Per me “concubina” è un insulto. Per lei è solo una delle migliaia di parole della sua vita.

Secondo la cultura di mia madre, le ragazze devono servire e sacrificarsi. Qualche giorno fa ho chiesto a Elena se potevo mangiare una delle sue patatine fritte. Ci ha pensato un attimo e poi ha detto: “Mi piacerebbe dartene una, mamma, ma scusami, penso di volerle mangiare tutte”. Sono scoppiata a ridere, cercando di capire se dovevo insegnare a mia figlia la condivisione o rallegrarmi che fosse capace di dire “no”. Sotto sotto mi sono sentita sollevata. Mio dio, ho pensato, questa è opera mia. Questa è la mia reazione a una generazione di madri dispotiche e al loro dogma della figlia altruista. E quel dogma nasceva da una madre precedente, e da un’altra ancora prima di lei. La mia amica scrittrice, quella più buona di me, mi ha mandato una citazione del monaco buddista Thích Nhat Hanh. I nostri talenti e i nostri difetti, scrive, li abbiamo tutti ereditati. Non sono nostri. La mia amica vuole che io accetti il fatto che non siamo molto diverse dalle nostre madri. Vuole che io continui a lottare, e che lotti meglio.

Molti figli e molte figlie, una volta grandi, capiscono benissimo come si possa amare profondamente una persona e al tempo stesso non apprezzarla per niente. E ci prepariamo a sopravvivere al doloroso momento in cui i nostri figli e le nostre figlie dovranno fare i conti con questa distinzione. Speriamo che ci amino oltre ad apprezzarci, ma esiste una possibilità terrificante: forse non avranno nessun dubbio, forse decideranno che amarci basta e avanza. Così chiudiamo la porta e contiamo i minuti, cercando di non ascoltare mentre si dedicano al loro momento ricreativo serale e negoziando i confini che un giorno dovremo rispettare.

Ora mi rendo conto che i valori di Elena mi sembreranno imperscrutabili. Ma davvero vorrò che reciti una menzogna per permettermi d’invecchiare serena? Quando ero più giovane, alzavo gli occhi al cielo appena vedevo dei bambini che fingevano di essere educati solo per ottenere una ricompensa. “La madre non si accorge di essere manipolata?”, pensavo. Ora quando Elena si mette a recitare sono solo grata che conosca la parte. Quella recita è un regalo. Immagino mia figlia a trent’anni, quando fingerà amore e devozione, soffocando un sospiro mentre le annuso il collo, e penso: sai cosa? Mi sta bene così.

A volte anch’io recito per Elena (non posso dire di appassionarmi davvero agli unicorni di My little pony) e ricordo tutte le volte che mia madre ha provato a rispettare i limiti occidentali per farmi piacere (da bambina chiederle di bussare prima di entrare nella mia stanza sarebbe stato troppo). Io la giudicavo per la sua goffaggine alle prese con i limiti degli Stati Uniti. Arrancava finché qualcosa di stressante la faceva inciampare, rovesciando il suo gigantesco carico di aspettative iraniane.

“Ne hanno passate tante”, mi ricorda la mia amica. Sii gentile, mi sta dicendo, e ricordati la dottoressa spiritosa che risolveva i problemi matematici e che, in un altro universo, sarebbe potuta essere tua amica. Immaginala bambina, confusa, mentre avanza in punta di piedi attraverso il campo minato buio che era la casa di una famiglia di Teheran a metà novecento, presa a schiaffi per aver pronunciato una parola nuova e misteriosa. Faccio un profondo respiro e mi preparo a una nuova seduta con la psicoterapeuta che ci fa comportare come si deve. Per un attimo sono impaziente di rivedere il viso di mia madre. Mi manca il bunker con i suoi odori. Avvio Zoom, ci salutiamo. Poi apriamo la bocca e cominciamo a parlarci addosso, ognuna nella sua lingua straniera. ◆ fs

Dina Nayeri è una scrittrice statunitense nata in Iran. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’ingrata (Feltrinelli 2020). Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo Foreign mothers, foreign tongues: “In another universe, she could have been my friend”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1553 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati