Nell’inverno del 1886 William Alexander Hammond, famoso neurologo ed ex chirurgo generale dell’esercito degli Stati Uniti, assunse un’enorme quantità di cocaina. Un cronista del quotidiano newyorchese The Sun, che lo intervistò, osservò scherzando che il medico era “terribilmente su di giri”. Hammond aveva sperimentato tutti i possibili modi di assumere la droga e in tutte le dosi immaginabili: aveva provato estratti fluidi della coca (la pianta dalla quale si ricava la cocaina pura), mescolato grani di cloridrato di cocaina a vini depurati, per poi passare a iniettarsi la sostanza per via ipodermica. Le iniezioni, diceva, gli procuravano un “delizioso brivido ondulatorio”. Sotto il suo effetto, tutto sembrava “raffinato” e “addolcito”. Hammond diventava particolarmente loquace: quando era da solo parlava a lungo con se stesso. “Diventavo molto sentimentale e dicevo cose carine a tutti”, raccontava. “Il mondo andava a gonfie vele e io avevo un’opinione favorevole di tutti i miei simili, uomini e donne. Mi divertivo immensamente”.
Hammond continuò ad assumere cocaina in quantità sempre maggiori finché “le sensazioni non divennero più dolorose che gradevoli”. Un giorno arrivò a prendere fino a 18 grani (poco più di un grammo) in un’unica dose, rendendosi del tutto “inconsapevole” delle sue azioni. L’indomani si svegliò a letto senza ricordare come ci fosse arrivato, e poco dopo si accorse che a un certo punto, durante la notte, aveva deciso di devastare la sua biblioteca. Dopo questo episodio (e dopo essersi ripreso da un “assurdo mal di testa durato due giorni”), mise fine alla sua ricerca.
La cocaina sembrava realizzare la promessa di modernità e dinamismo tecnologico dell’ottocento, epoca di rivelazioni scientifiche, invenzioni e prodigi
Forse l’entusiasmo di Hammond per gli esperimenti era fuori della norma, ma l’infatuazione per la cocaina non era affatto insolita per un medico della sua epoca. All’inizio del 1885, la rivista specializzata The Lancet osservò laconicamente che “al momento la stampa medica è piena di cocaina”. Alla fine dell’anno, la quantità di pubblicazioni che parlavano della sostanza era diventata “talmente vasta e sfaccettata che è difficile trattarla in maniera sommaria”. La cocaina era stata isolata chimicamente da alcuni decenni, ma all’inizio era stata considerata per lo più come una curiosità scientifica, un alcaloide “oscuro” e “inutile”, come lo aveva definito un giornalista medico. L’ascesa improvvisa della sostanza da una relativa oscurità alla fama mondiale fu dovuta a un’unica, importante innovazione: la scoperta del primo anestetico locale della storia.
Grazie alla cocaina, per la prima volta era possibile eliminare il dolore senza ricorrere ad anestetici generali più potenti e pericolosi come il cloroformio. Questa improvvisa scoperta catturò l’immaginazione del pubblico come era successo poche volte per altre sostanze in passato. Agli occhi di molti, la cocaina sembrava realizzare la promessa di modernità e dinamismo tecnologico dell’ottocento, una nuova, incalzante epoca di rivelazioni scientifiche, invenzioni e prodigi su scala industriale. La storia della cocaina tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento è la storia del suo lento passaggio da meraviglia tecnologica a pericolosa sostanza stupefacente. Ma è anche la storia di come alcune sostanze possono caricarsi di significati ideologici, di come questi significati possono cambiare man mano che si diffondono nella società e di come le nostre percezioni di certe droghe sono strettamente legate a ciò che pensiamo delle persone che le usano.
Karl Koller non diventò famoso come il suo amico Sigmund Freud, ma in compenso riuscì a rendere famosissima la cocaina. Nel 1884, Koller aveva 27 anni e faceva il tirocinante nel dipartimento di chirurgia oculistica dell’ospedale generale di Vienna. Era un giovane professionalmente molto ambizioso e sperava di potersi candidare per un posto in una delle grandi e prestigiose cliniche oculistiche della città grazie a una scoperta importante nel campo della medicina. Cominciò quindi a lavorare in laboratorio su alcuni anestetici sperimentali. Poiché sia l’etere sia il cloroformio (i due principali anestetici in uso all’epoca) avevano una serie di effetti collaterali che ne sconsigliavano l’utilizzo nella chirurgia oculistica, Koller pensò di farsi un nome trovando un’alternativa migliore. Fu Freud a introdurlo alla cocaina. Freud – all’epoca un medico altrettanto giovane e ambizioso – stava “giocando” con l’idea di usare l’alcaloide come stimolante e cura per “la cardiopatia” e “l’esaurimento nervoso”. Chiese ai suoi colleghi di aiutarlo con i suoi esperimenti, così lui e Koller cominciarono a “prendere il farmaco per via orale” e ad annotarne i diversi effetti.
Verso la metà dell’anno, Freud si assentò per un mese per far visita alla sua fidanzata mentre Koller continuava la sperimentazione da solo. A un certo punto si accorse che la cocaina aveva un effetto anestetizzante se applicata direttamente sulla lingua e intuì che poteva funzionare in modo analogo se applicata sulla superficie dell’occhio. Dopo aver anestetizzato prima l’occhio di una rana, poi quello di un porcellino d’india e infine il suo, Koller scrisse una relazione dei suoi risultati e la consegnò a un collega chiedendogli di presentarla a una conferenza ad Heidelberg (lui era troppo povero per pagarsi il viaggio). Il pubblico fu entusiasta. Alcuni decenni dopo, Koller ricordò che “la conoscenza del nuovo rimedio si diffuse rapidamente e rileggendo la stampa dell’epoca, medica e non, ci si imbatte in un fiume di comunicazioni sulla cocaina e l’anestesia locale”. Appresa la notizia, uno dei presidenti della British medical association proclamò: “Probabilmente siamo agli albori di una nuova era”.
Quanto a Koller, anche se la scoperta gli fece acquisire un certo prestigio internazionale, quegli albori coincisero con una parentesi meno fortunata nella sua carriera. Nel gennaio del 1885, mentre le riviste di medicina parlavano ancora del suo successo, cominciò una lite con Friedrich Zinner, un altro specializzando in chirurgia dell’ospedale generale di Vienna. Nata da un disaccordo tecnico sulla ferita a un dito di un paziente, la discussione degenerò quando Zinner diede a Koller dell’“ebreo impudente” (o forse del “maiale ebreo”, stando a quanto ricorda Freud) e Koller reagì colpendolo con un pugno in faccia. Poiché entrambi erano tenenti medici nella riserva dell’esercito, Zinner sfidò Koller a duello. Quando si affrontarono, cinque giorni dopo, Koller emerse dal duello disarmato, ma procurò due profonde ferite al suo avversario. Il pubblico ministero di Vienna fu costretto a sporgere denuncia contro entrambi e l’apertura di un procedimento penale obbligò di fatto Koller a dimettersi dall’ospedale. Trascorse gli anni successivi nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi a New York nel 1888. Negli Stati Uniti riuscì a capitalizzare sulla sua fama, aprendo un fortunato studio di oftalmologia e diventando il primo medico a ricevere la medaglia Lucien Howe per altissimi meriti nel campo della medicina oculistica.
Quando si era sparsa la notizia della scoperta, Freud aveva scherzosamente affibbiato al suo amico il soprannome di Coca Koller. Con la svolta del secolo, tuttavia, la cocaina si affrancò clamorosamente non solo dal suo scopritore, ma anche dagli usi relativamente specializzati che Koller aveva immaginato per la sostanza.
Uno dei motivi per cui la cocaina riuscì a catturare l’immaginazione vittoriana in modo così vivo era che funzionava molto meglio degli anestetici allora disponibili. Il cloroformio era in uso da quasi quarant’anni quando la cocaina fu scoperta, ma sia i medici sia i pazienti erano ancora scettici sul suo impiego nella chirurgia. Le morti sotto anestesia generale erano relativamente rare, ma abbastanza ricorrenti da far dire a un praticante: “Molte persone hanno una tale paura del cloroformio che si rifiutano di prenderlo, a meno di non essere praticamente costrette”.
La cocaina sembrava una risposta ovvia a questo problema, almeno all’inizio. “Con una soluzione di cocaina a portata di mano”, scriveva entusiasta la St. James Gazette, un quotidiano di Londra, “si può fare a meno del cloroformio e dell’etere”. In questo senso, la cocaina appariva come l’anestetico ideale: sicura, semplice ed efficace. La scoperta dei suoi effetti analgesici era considerata un evento epocale: promettere alla medicina moderna e tecnologica di poter spazzare via il dolore e i problemi di salute. Il Chambers Journal la definì “un prodigio della nostra epoca”. Scriveva il giornale: “È arrivata come una meteora nel mondo medico, ma a differenza di una meteora, i suoi effetti si sono dimostrati duraturi”.
All’ascesa fulminea della cocaina seguì un aumento del prezzo. Quando i praticanti più intraprendenti cominciarono a sgomitare per procurarsi campioni dell’alcaloide, la domanda superò l’offerta finché, alla fine del 1884, la cocaina raggiunse un valore di 32 sterline all’oncia (circa quattromila euro di oggi). Nelle grandi città degli Stati Uniti alcuni fornitori arrivavano a chiedere fino a trecento dollari l’oncia. A un certo punto la polvere bianca valeva più dell’oro.
Quando l’offerta si rimise al passo con la domanda e il costo si stabilizzò, la cocaina cominciò a essere utilizzata per ogni genere di scopo, dal più esotico al più quotidiano. Al di fuori della sala operatoria, il suo impiego più comune era come rimedio per il raffreddore e l’influenza. Negli anni novanta dell’ottocento, la Burroughs, Wellcome & Co mise in commercio uno spray nasale tascabile alla cocaina contro le congestioni, “talmente piccolo che si può facilmente portare nel taschino del panciotto”. Per quelli che preferivano prepararsi le medicine in casa, i giornali pubblicavano ricette a base di cocaina, caffè, mentolo e zucchero a velo, da macinare finemente e “usare come normale tabacco da fiuto”. Le pastiglie di cocaina erano abitualmente reclamizzate come il miglior rimedio contro il mal di mare. Erano anche raccomandate come cura ideale per “la malattia della gravidanza” ed erano indicate contro il raffreddore da fieno e la tosse pruriginosa, mentre i tubetti di dentifricio alla cocaina promettevano di alleviare il dolore del mal di denti e del sanguinamento gengivale. E per chi soffriva di malanni meno strettamente fisici, c’erano prodotti come il “Neurogene”, uno “sciroppo a base di cocaina” che dava sollievo ad “annunciatori, cantanti, atleti, uomini d’affari e a tutti coloro che soffrono di affaticamento mentale o debilità nervosa”. Il prezzo era di due scellini e nove pence, equivalenti a poco più di 11 sterline (13 euro) di oggi.
Nel Regno Unito un effetto imprevisto della cocaina fu quello di accelerare la diffusione della moda dei tatuaggi. Sia re Edoardo VII sia il futuro Giorgio V si erano tatuati mentre erano in visita all’estero, rispettivamente a Gerusalemme e in Giappone, e avevano scatenato una specie di mania tra il pubblico britannico. Per gli standard del tempo, tuttavia, tatuarsi era un processo piuttosto complicato. La volontà di sopportare il dolore per uno scopo puramente decorativo era spesso considerata la spia di una certa ruvidezza di carattere – o perfino brutalità – del tatuato. La cocaina era una soluzione efficace a questo problema. Un giornale scriveva: “Alcuni anni fa tatuarsi era un’operazione molto dolorosa, ma la scoperta della cocaina l’ha fatta diventare indolore”. Rendendo indolori i tatuaggi, la cocaina riuscì anche a farli sembrare abbastanza raffinati per la buona società.
Nacque una nuova stirpe di tatuatori vip armati di polvere bianca. Uno dei più famosi era Sutherland MacDonald di Jermyn street a Londra che rispose così a un giornalista che gli chiese se i suoi clienti provassero dolore durante l’esecuzione delle sue creazioni: “Niente affatto, perché prima inietto la cocaina sotto la cute nella parte dove devo operare, poi ne uso altra dopo che gli effetti della prima iniezione sono passati”. Chi desiderava imparare l’arte in proprio poteva acquistare un kit casalingo per i tatuaggi, con un “set completo di strumenti per tatuare, aghi montati su impugnature d’avorio, inchiostri non velenosi di vari colori e una bottiglietta di cocaina per rendere l’operazione indolore”, il tutto ordinatamente stipato in una bella “valigetta in pelle di Russia”.
A distanza di pochi anni dalla scoperta di Koller, la cocaina si era ormai consolidata nel suo ruolo di droga tecnologica e di moda. La sostanza era pervasa da un’aura di novità e trasformazione. I giornalisti andavano in estasi perché la droga, come una moderna Atena, sembrava essere “venuta alla luce con tutte le armi”: era allo stesso tempo uno strumento vitale nell’“armamentario del chirurgo scientifico moderno” e “il bene prezioso di milioni di persone”.
La cocaina trovò perfino il modo di finire nelle mani di uno dei personaggi di fantasia più famosi dell’epoca: Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Il segno dei quattro (1890), il secondo dei romanzi di Holmes, comincia con il protagonista che si tira su la manica della camicia e si inietta “una soluzione al sette per cento”. Lo scrittore aveva fatto il tirocinio medico ed era ben consapevole dell’associazione popolare tra cocaina, modernità e innovazione. Per Conan Doyle, rendere il suo personaggio tossicodipendente era un modo di comunicare ai lettori che Holmes era un uomo moderno a tutti gli effetti: energico, specializzato, scientificamente competente. Per quanto possa sembrare strano oggi, dopo più di un secolo di penalizzazione della cocaina, i primi critici vittoriani erano affascinati da questa personalità sfaccettata. The Graphic si entusiasmava per il “genio e l’energia” del detective. Holmes, scriveva il recensore, era un investigatore “di prima classe che deve essere stimolato dalla risoluzione di un mistero di prima classe, oppure deve consolarsi con la cocaina se quel mistero non c’è”.
Con il passare del tempo, tuttavia, e con il crescere della popolarità di Sherlock Holmes, la dipendenza dalla cocaina del personaggio diventò il catalizzatore di nuove ansie che si stavano addensando intorno alla droga. Nel 1901, John Wyllie, professore della vecchia scuola di medicina di Conan Doyle, l’università di Edimburgo, raccontò che un giorno fu chiamato per visitare un giovane malato. Quando Wyllie entrò in casa, la sorella del paziente gli corse incontro piangendo e lamentandosi che era “tutta colpa di quel libro orribile!”. “A seguito di un’indagine”, continuava Wyllie, “emerse il fatto che la lettura preferita del paziente era Sherlock Holmes. Il giovane era in pessime condizioni, e aveva il braccio pieno di punture epidermiche rivelatrici. La sua ammirazione per il più famoso dei detective di carta l’aveva fatto scivolare nella dipendenza dalla cocaina”. Le esperienze di Wyllie furono riportate dai giornali popolari e da quelli medici. La relazione del British Medical Journal si concludeva con una vaga ma puntuta osservazione: gli autori che incoraggiavano allegramente i loro lettori a cedere al “malefico incantesimo” della tossicodipendenza avevano “molto di cui rispondere”.
Con l’arrivo del novecento, la percezione popolare della cocaina cominciò a cambiare in modo sottile ma significativo. Trascorsi alcuni anni, era ancora considerata un trionfo della tecnologia, ma c’era anche più consapevolezza dei pericoli che potevano derivare dal suo abuso. Gli scrittori, inizialmente affascinati e titillati dalla “soluzione al sette per cento” di Holmes, non erano più così entusiasti di passare per fautori di una “droga pericolosa”. Conan Doyle decise di sbarazzarsi per sempre della dipendenza dalla cocaina del suo personaggio. L’avventura del giocatore scomparso (1904) si apre con l’assistente Watson che ricorda come negli anni sia riuscito a far abbandonare al suo amico “quelle droghe che un tempo avevano quasi rovinato la sua brillante carriera”. Questo passaggio mette la parola fine alla cocaina nel canone holmesiano. Da quel momento la droga è enfaticamente relegata al passato dell’investigatore, come una tragica e pericolosa disavventura dalla quale si è salvato grazie al coscienzioso intervento di Watson.
La ricontestualizzazione della dipendenza di Holmes illustra come stava cambiando nei primi anni del nuovo secolo la percezione della cocaina. All’inizio, quando Conan Doyle aveva ideato il suo personaggio, la cocaina era considerata una “panacea moderna” – una prova tangibile che la scienza poteva migliorare la condizione umana – e l’uso della sostanza connotava Holmes come un individuo moderno e tecnologicamente all’avanguardia. Nei primi anni del novecento queste associazioni cominciavano a vacillare, perché la cocaina era ormai sempre più legata alla minaccia della dipendenza e della degradazione.
I primi limiti legislativi apparvero negli anni dieci. Nel Regno Unito, per rispondere alle esigenze della prima guerra mondiale nel 1916 fu approvata una legge che limitava la vendita della droga a “persone autorizzate” come medici, chirurghi e dentisti. Secondo la legge, i cittadini comuni potevano acquistarla solo se avevano una ricetta medica. Queste restrizioni rimasero in vigore fino al dopoguerra, quando furono convertite definitivamente in legge nel 1920. In parte, i provvedimenti erano una reazione ai pericoli reali della dipendenza dalla cocaina, ai rischi che poteva rappresentare per soggetti ingenui o eccessivamente entusiasti come lo sfortunato paziente di Wyllie. Ma erano anche il riflesso più generale dei pregiudizi sociali e razzisti dell’epoca.
L’uso della cocaina aveva cominciato a diffondersi al di là del circolo relativamente chiuso delle classi benestanti dell’alta o media borghesia bianca. Ma se era giudicato accettabile (o al limite ridicolo) che la sperimentasse e ci si divertisse un uomo bianco, ricco e socialmente inserito come William A. Hammond, le stesse esperienze erano considerate molto più minacciose quando a viverle erano i poveri, le donne o le persone nere.
Nel 1914, The Lancet e vari giornali popolari del Regno Unito ripubblicarono un articolo del medico Edward Huntington Williams sulla cocaina nel sud degli Stati Uniti. Williams sosteneva che ogni nero che diventava dipendente dalla cocaina era “assolutamente irrecuperabile. La sua intera natura è mutata dalla dipendenza. I desideri sessuali sono amplificati e corrotti; uomini pacifici diventano litigiosi e uomini timidi diventano coraggiosi”. Sidney Felstead, autore nel 1923 di The underworld of London (I bassifondi di Londra) si diceva altrettanto scandalizzato dalla frequenza con cui “una ragazza sazia di piacere muore per un’overdose di cocaina o morfina che le è stata somministrata da qualche parassita nero o giallo”.
Questi commenti illustrano la doppia morale che circondava la cocaina negli anni precedenti alla sua penalizzazione. Il senso di novità, di modernità trascendente trasmesso a William A. Hammond o a Sherlock Holmes non era per tutti. La stigmatizzazione della sostanza come agente di pericolo e perversione rifletteva pregiudizi già esistenti contro le minoranze, e le leggi introdotte per controllarla riflettevano (almeno in parte) il desiderio di controllare quelle persone.
Col passare dei decenni, la cocaina si era trasformata da meraviglia della nuova epoca tecnologica e industriale vittoriana a spaventosa fonte di dipendenza e corruzione. La sua storia illustra non solo quanto la nostra percezione di una specifica droga possa cambiare nel tempo, ma anche quanto le droghe possono facilmente catturare e condensare le nostre emozioni. La cocaina è stata sempre una droga particolarmente circondata da fantasie: speranze, paure, ottimismo e ansia. Raccontarne la storia rivela quanto le nostre fantasie e le nostre paure sulle droghe influenzano e sono influenzate da quelle che abbiamo su chi la usa. ◆ fas
Douglas Small è uno storico della medicina e lavora nel Regno Unito. È l’autore di Cocaine, literature, and culture, 1876-1930 (Bloomsbury publishing 2024). Questo articolo è uscito sul sito Aeon con il titolo An undulating thrill.
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati