Amaggio, quando in Ucraina è entrata in vigore la legge sulla mobilitazione militare che prevede nuovi obblighi e pene più severe per chi si sottrae all’arruolamento, stavo attraversando la Polonia in treno diretta a Kiev. Seduto di fronte a me c’era un militare di 58 anni che tornava da un periodo di cura in Germania, entusiasta della medicina tedesca. L’uomo si chiamava Hrihorij e veniva dalla regione di Žytomyr. Prima della guerra lavorava nel settore del commercio agroalimentare. All’epoca del nostro incontro stava cercando di rimettere in sesto la sua azienda, convinto che il servizio militare e il lavoro potessero essere in qualche modo compatibili. Presto mi sono accorta che Hrihorij aveva difficoltà a muoversi: nello scompartimento si spostava lentamente, come se rischiasse di cadere da un momento all’altro; respirava a fatica e non riusciva quasi ad alzare le braccia. Quando parlava, però, sembrava scoppiare di energia, con la sua voce allegra e le sue battute. Pensava di poter affrontare qualsiasi sfida. “Tanti pagano per evitare la leva, io invece ho pagato per essere arruolato di nuovo: voglio continuare a servire il mio paese”, ha detto.

“Davvero tornerà a combattere?”, gli ho chiesto. Non riuscivo a credere che un uomo costretto a portare con sé solo una piccola borsa da viaggio perché una valigia gli sarebbe risultata troppo pesante volesse tornare a fare il soldato.

“Con le conoscenze che ho andrà tutto bene. La mia unità mi sta aspettando. Ma non si preoccupi, mi daranno un posto tranquillo, un compito adatto alla mia condizione”. Mi ha detto il numero del suo battaglione, ma non mi ha autorizzato a scriverlo.

Oltre l’egoismo

Hrihorij mi ha chiesto di non registrare la nostra conversazione: “Di sicuro parlerò troppo. E magari poi non mi permetteranno più di prestare servizio da nessuna parte. Ho delle responsabilità, una famiglia e dei figli. Potrei raccontarle di tutto, però: sono stato ferito otto volte! Ho prestato servizio ovunque, nella regione di Kiev, a Charkiv, a Zaporižžja, a Cherson, dappertutto! E dappertutto sono stato ferito. Ogni volta mi facevo una breve riabilitazione e poi tornavo al fronte. Se pensano di potermi mandare a casa prima che questa guerra sia finita non hanno capito con chi hanno a che fare”. Per tutto il viaggio Hrihorij mi ha raccontato storie dal fronte. Sovrappeso com’è, una volta, dopo un bombardamento, era rimasto incastrato in trincea, con il giubbotto antiproiettile che quasi gl’impediva di muoversi. Alla fine c’erano voluti cinque uomini per tirarlo fuori.

La descrizione della scena è stata molto vivida: a Hrihorij ricordava una favola in cui i personaggi si abbracciano afferrandosi i fianchi a vicenda per riuscire a estrarre dal terreno una rapa gigante. Quella volta i suoi compagni d’armi avevano passato tutta la serata a bere alla sua salute. Solo il giorno dopo si era reso conto di aver riportato delle contusioni serie. Da allora si è sempre rifiutato di indossare il giubbotto antiproiettile.

Ogni volta che la sua unità usciva per un’azione, Hrihorij era convinto di sapere chi sarebbe morto. Mi ha detto di non essersi mai sbagliato. Una volta era stato colpito a una gamba, lacerandosi un’arteria. Non avendo altro sottomano, per ricucirla aveva usato del fil di ferro, forando la carne nel punto più sensibile, l’interno coscia. Arrivato in ospedale, i medici erano rimasti ammirati: se non avesse fatto quell’azzardo, gli avrebbero dovuto amputare la gamba.

Io e Hrihorij abbiamo parlato per quattro ore e lui mi ha mostrato anche un tesserino di grande invalido: dopo aver riportato una lesione spinale, ha dovuto reimparare a parlare e a camminare ma non ha riacquistato completamente la vista. È stato classificato come invalido di terzo grado, con una pensione di appena 2.500 grivnia al mese, circa 60 euro. Siccome ha studiato giurisprudenza, gli ho chiesto perché non ha fatto ricorso contro questa palese ingiustizia. Si è indignato: “Ma lei non capisce niente! Tutti vengono classificati come invalidi di terzo grado”. Mi ha guardato con aria offesa ed è rimasto per un po’ in silenzio. Poi mi ha spiegato che in effetti, in quanto laureato in giurisprudenza, gli era capitato spesso di dare una mano a dei militari che volevano fare ricorso contro qualche decisione dell’esercito.

Durante il viaggio, Hrihorij si è occupato degli altri passeggeri: ha cercato di aiutare una signora che doveva comprare un biglietto, ha fatto amicizia con due polacchi che stavano organizzando un incontro di lavoro e ha trovato qualcuno che aiutasse un’anziana signora a sistemare i bagagli. “Per sopravvivere al fronte bisogna liberarsi subito di ogni egoismo”, mi ha spiegato. “Gli egoisti muoiono subito, non reggono più di una settimana. E poi praticamente non se li ricorda più nessuno, perché nessuno ha avuto modo di conoscerli”. Ho provato a immaginarmi questi egoisti senza nome che muoiono così facilmente.

Hrihorij ha moglie e figli, ma finché c’è la guerra non può vivere con loro. Non sono venuti neanche a prenderlo in stazione. “Ora non mi serve nessuno. Voglio solo raggiungere la mia unità; i miei compagni mi aiuteranno a passare gli esami di tutte le commissioni militari. E poi si torna al fronte”.

A un certo punto gli ho chiesto cosa pensasse della nuova legge sulla mobilitazione e del fatto che in Ucraina gli uomini sono arrestati per strada e obbligati a prestare servizio militare. Si è arrabbiato di nuovo: “Odio questa legge, non serve a niente, solo a demotivare le persone. Mio figlio ha trent’anni e voglio che si prenda cura di sé. Per questo mi sono organizzato per fare in modo che possa lasciare l’Ucraina in qualsiasi momento senza essere obbligato a tornare. Se ne andrà appena sarà pronto. Quando ho ottenuto i documenti per farlo partire ho tirato un sospiro di sollievo. Ma io combatterò fino alla fine di questa maledetta guerra”.

Loro no

A Kiev, in un negozio di alimentari, la proprietaria era dietro al bancone e i commessi erano di buon umore. Anche lei sembrava allegra e mi ha parlato dei nuovi detersivi di produzione ucraina: “Sosteniamo la nostra industria con tutti i mezzi che abbiamo”. Poi mi ha chiesto di cosa parlava mio articolo, io gliel’ho spiegato e lei ha cominciato a raccontare: “Mio marito è nell’esercito. Non potrebbe fare altrimenti. Certo, sono preoccupata per lui, ma sono contenta che al momento sia di stanza nella regione di Kiev. Parlerà anche di chi è al fronte dal primo giorno di guerra e nonostante tutto non vuole essere smobilitato? Guardi che è gente che ha una famiglia, un lavoro”.

Ho provato a spiegarmi: “A me piacerebbe parlare di chi al fronte non ci vuole andare”. Lei ha sorriso indicandomi i commessi dietro il bancone: “Eccoli là! E sarebbe meglio non mandarceli, perché hanno paura, e al fronte non combinerebbero nulla di buono. Lo sappiamo benissimo che non tutte le donne sono capaci di mettere al mondo dei figli e crescerli. Lo stesso vale per gli uomini: non tutti sono in grado di andare in guerra. Loro non lo sono di sicuro, e io farei di tutto per non farli partire”.

I commessi non hanno detto una parola. “Non ce la fareste proprio, vero?”, ha incalzato la donna. Sono rimasti muti. Ho provato a muovere qualche obiezione al paragone con le donne che non fanno figli. Era un accostamento che trovavo ripugnante, eppure non mi venivano le parole. “Bisogna pur trovarla qualche spiegazione per accettare che c’è chi proprio non riesce a partire”, ha concluso conciliante la commerciante.

Un manifesto dell’esercito a Vyžnytsja. Ucraina, 23 novembre 2023 (Emile Ducke, The New York Times/Contrasto)

Ma perché non la sfiorava nemmeno il pensiero che anche alle donne può essere chiesto di andare al fronte? E che molti uomini possono ritenersi soddisfatti se riescono a essere buoni padri per i loro figli? Il suo ragionamento alzava un muro invalicabile tra uomini e donne.

Vacanze in trincea

Un’amica mi ha mandato un video in cui si vede una signora di una certa età davanti a un centro di reclutamento. “Lasciatelo andare! Mio figlio ha il cancro!”, sta gridando. Su TikTok è pieno di video di uomini fermati per strada e caricati bruscamente – a volte a forza – su pulmini dell’esercito. Per definire queste operazioni c’è perfino una parola: “pulminificazione”. Il termine suona un po’ infantile e fa sembrare tutto meno inquietante e spaventoso di quanto non sia in realtà.

Secondo la nuova legge sulla mobilitazione, chi non ha risposto alla convocazione dell’esercito o non si è registrato online entro il 16 luglio, cioè entro sessanta giorni dopo l’entrata in vigore del provvedimento, può essere costretto a presentarsi alla polizia militare. Gli uomini sono obbligati a portare sempre con sé i documenti militari, da esibire su richiesta delle forze dell’ordine. Poliziotti e militari pattugliano le uscite della metropolitana, le fermate dell’autobus e le zone intorno ai centri commerciali. I loro movimenti sono monitorati da diversi canali Telegram che hanno centinaia di migliaia di iscritti.

A volte i messaggi sono formulati come avvisi meteo: agenti e soldati sono chiamati rispettivamente nuvole blu e verdi, in base al colore dell’uniforme. I controlli e la consegna della chiamate alle armi sono piogge e temporali. Ecco un esempio: “Accanto all’uscita della metropolitana Darnitsa si segnala la presenza di quattro nuvole verdi e due blu che stanno portando pioggia. Nelle vicinanze della metro Livoberežna sta per scoppiare un acquazzone”. Significa che le forze dell’ordine stanno facendo controlli a tappeto.

Online gira un altro video che mostra due soldati in macchina. Sembrano divertirsi mentre urlano slogan simili a quelli delle guide turistiche che pubblicizzano tour balneari: “Una bella vacanza a Lyman, accorrete! Cosa state aspettando, è un’occasione d’oro!”. Oppure: “Rilassatevi a Charkiv! Venite a godervi la natura a Zaporižžja!” (tutte località vicine al fronte e bersaglio degli attacchi russi).

Quando ho visto queste immagini sono stata tentata di mollare l’articolo. Mi pareva che il cinismo di quei due soldati nascondesse disperazione e senso di abbandono. I soldati ucraini – e tra loro ce ne sono tanti che prima della guerra non avevano niente a che fare con l’esercito – si sentono traditi e condannati a combattere. Speravano in una smobilitazione e invece si ritrovano ad aspettare i rinforzi.

Io, però, ne ho abbastanza di dovermi districare tra considerazioni sempre più ingarbugliate, non voglio più provare a esplorare posizioni incompatibili tra loro. Il mio compito è raccontare le vicende private della gente che cerca di fare i conti con la realtà della guerra.

Qualche tempo fa era stato arruolato un mio conoscente, che di mestiere faceva il designer. La moglie mi ha raccontato che l’equipaggiamento se l’erano dovuti procurare da soli, dalle scarpe all’uniforme. Spedito al fronte dopo un mese di addestramento, era stato ucciso in pochi giorni.

Un altro conoscente, che fino a non molto tempo fa gridava ai quattro venti che i diritti umani in Ucraina non esistevano più, oggi sussurra: “Siamo all’anarchia. Consiglio a tutti di nascondersi e aspettare che passi”.

All’orrore collettivo legato al fatto che in Ucraina può capitare letteralmente a chiunque di ritrovarsi in una zona di guerra, in Germania di solito si associano parole come “sopportare” e “resistere”. Le ho sentite in frasi come: “Daremo il nostro sostegno all’Ucraina fino a quando ci saranno ucraini disposti a sopportare la durezza della guerra”, oppure: “Gli ucraini sopportano la guerra e combattono per la loro libertà”. Le frasi che mi sento rivolgere si spingono ancora oltre: “State morendo per noi. Grazie perché sopportate tutto questo”.

Sono affermazioni che tradiscono la volontà di non prendere decisioni: la strategia è restare a guardare. Il sostegno occidentale all’Ucraina si riduce all’invio delle armi necessarie a resistere agli attacchi, senza essere sconfitti né vincere. Come se avessimo dimenticato che in guerra si perde sempre e comunque. Produrre nuove armi è sempre possibile, gli esseri umani, invece, sono insostituibili. Ormai di questa guerra si parla come se da qualche parte ci fossero davvero persone disposte a “sopportare” quest’incredibile quantità di violenza e di morte. ◆ sk

Evgenija Belorusets, nata a Kiev nel 1980, è una scrittrice, fotografa, artista e giornalista ucraina. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta, in una versione più lunga, sulla Berlin Review.

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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati