Nel 1990, poco dopo che Jean-Marie Robine e Michel Allard avevano avviato uno studio nazionale sui centenari francesi, uno dei loro soft­ware diede un messaggio di errore. Tra le persone prese in esame c’era una donna, il suo nome era Jeanne Calment, che risultava avere 115 anni, un’età al di fuori della gamma di valori accettati dal programma. Allard, che all’epoca dirigeva l’istituto di ricerca Ipsen, ricorda di aver chiamato i collaboratori di Arles, dove viveva l’anziana, per chiedere di controllare le informazioni che avevano fornito. Forse avevano trascritto male la data di nascita? Impossibile, risposero: abbiamo visto il suo certificato di nascita, i dati sono corretti.

Calment era già molto conosciuta nella sua città. Negli anni successivi, quando si diffusero le voci sulla sua longevità, diventò una celebrità. I suoi compleanni, che per un po’ erano stati una festività locale, catturarono l’attenzione della stampa nazionale e poi di quella internazionale. Giornalisti, medici e scienziati cominciarono ad affollare la stanza della casa di riposo dove viveva, ansiosi d’incontrare la decana dell’umanità. Tutti volevano conoscere la sua storia.

Calment aveva vissuto tutta la vita ad Arles, nel sud della Francia. Lì aveva sposato un cugino di secondo grado e si era trasferita in uno spazioso appartamento sopra il negozio di sua proprietà. Non aveva mai avuto bisogno di lavorare, e riempiva le giornate con attività piacevoli come cacciare, andare in bicicletta, dipingere e pattinare. Si concedeva un bicchiere di Porto, una sigaretta e un po’ di cioccolato quasi ogni giorno. In città era nota per il suo ottimismo, il carattere allegro e il senso dell’umorismo (“Non ho mai avuto più di una ruga, e ci sto seduta sopra”, aveva detto una volta).

A 88 anni Calment era sopravvissuta ai suoi genitori, al marito, all’unica figlia, al genero e al nipote. Mentre si avvicinava a compiere 110 anni, viveva ancora da sola nel suo amato appartamento. Un giorno, durante un inverno particolarmente rigido, le tubature si erano gelate. Aveva cercato di scongelarle con una fiamma, ma aveva dato fuoco al materiale isolante. I vicini avevano notato il fumo e avevano chiamato i vigili del fuoco, che l’avevano portata in ospedale. Dopo l’incidente si era trasferita a La Maison du Lac, la casa di riposo nel campus dell’ospedale, dove sarebbe morta nel 1997, a 122 anni.

Nel 1992, quando Calment cominciava a essere famosa, Robine e Allard ripresero in mano il suo caso. Chiaramente era una persona speciale, che meritava uno studio specifico. Robine, un demografo dell’Istituto nazionale francese per la salute e la ricerca medica, viveva in un villaggio ad appena un’ora da Arles. Decise di farle una visita. Arrivato alla casa di riposo si presentò al direttore medico, Victor Lèbre, e gli disse che voleva intervistarla. Lèbre rispose che era troppo tardi, perché Calment era completamente sorda, ma accettò comunque di fargli incontrare la grande dame. Percorsero un lungo corridoio di cemento ed entrarono in una piccola stanza.

“Buongiorno, madame Calment”, disse Lèbre.

Phillip Toledano, Trunk

“Buongiorno, dottore”, rispose lei senza esitazione.

Lèbre era così sconvolto che afferrò Robine per un braccio e lo riportò di corsa nel suo ufficio, dove interrogò le infermiere sull’udito di Calment. A quanto pare, a volte sentiva abbastanza bene, ma attraversava periodi di quasi sordità. Molto probabilmente Lèbre aveva scambiato uno di quei periodi per una condizione permanente. Tornato nella stanza di Calment, Robine la vide bene per la prima volta. Era seduta vicino alla finestra su una poltrona che faceva apparire ancora più piccolo il suo corpo rinsecchito. I suoi occhi, lattiginosi per la cataratta, potevano distinguere la luce dal buio, ma non si concentravano su nessun punto in particolare. Il suo abito grigio sembrava avere diversi decenni.

Durante quel primo incontro, Robine e Calment si scambiarono dei convenevoli e parlarono del più e del meno. Ma negli anni successivi lo studioso, insieme ad Allard e ad altri ricercatori e archivisti, la intervistò decine di volte e documentò accuratamente la sua vita, verificandone l’età e consolidando la sua reputazione di persona più anziana mai esistita. Da allora Calment è un emblema del continuo tentativo di rispondere a una delle domande più controverse della storia: qual è esattamente il limite della durata della vita umana?

Pessimisti e ottimisti

Visto che oggi i progressi medici e sociali riescono a mitigare le malattie della vecchiaia e a prolungare la vita, il numero di persone eccezionalmente longeve è in forte aumento. Secondo stime delle Nazioni Unite, nel 1990 c’erano circa 95mila centenari, nel 2015 erano più di 450mila. Entro il 2100 saranno 25 milioni. Anche se il numero di persone che vivono oltre i 110 anni è decisamente più basso, in molti paesi ricchi il traguardo un tempo leggendario è raggiunto sempre più spesso. I primi casi accertati di “supercentenari” emersero negli anni sessanta. Da allora il loro numero globale si è moltiplicato di almeno dieci volte, anche se nessuno sa esattamente quanti siano. Solo in Giappone tra il 2005 e il 2015 la popolazione dei supercentenari è cresciuta da 22 a 146, cioè di quasi sette volte.

Alla luce di queste statistiche, ci si potrebbe aspettare che anche il record di longevità sia stato battuto. E invece, quasi un quarto di secolo dopo la morte di Calment, non sappiamo se qualcuno ha eguagliato, e meno che mai superato, i suoi 122 anni. Ad andarci più vicina è stata Sarah Knauss, una donna statunitense morta a 119 anni. La persona più anziana attualmente in vita è Kane Tanaka, 118 anni, che risiede a Fukuoka, in Giappone. Pochissimi riescono a superare i 115 anni.

Di recente sono stati fatti grandi progressi sulle origini evolutive della longevità

Mentre la popolazione mondiale si avvicina agli otto miliardi e la scienza scopre modi sempre più promettenti per rallentare o invertire l’invecchiamento in laboratorio, la questione dei potenziali limiti della longevità umana è più attuale che mai. Esaminando da vicino il loro lavoro, si capisce che gli scienziati della longevità hanno una vasta gamma d’ipotesi sul futuro dell’umanità. Ma storicamente sono divisi – secondo alcuni in modo un po’ approssimativo – in due grandi correnti: i pessimisti e gli ottimisti. I primi vedono la durata della vita come uno stoppino che può bruciare solo per un certo tempo. In genere queste persone pensano che ci stiamo rapidamente avvicinando, o abbiamo già raggiunto, il tetto della durata della vita, e che ancora per un bel po’ di tempo non incontreremo nessuno più vecchio di Calment.

Gli ottimisti invece vedono la durata della vita come una fascia estremamente, forse anche infinitamente, elastica. Prevedono notevoli aumenti della speranza di vita in tutto il mondo, un numero crescente di individui straordinariamente longevi e, infine, alcuni supercentenari che supereranno Calment, portando il record a 125, 150, 200 anni e oltre. Anche se irrisolto, questo dibattito cominciato tanto tempo fa ha già permesso di avere una comprensione molto più profonda di ciò che definisce e limita la durata della vita e degli interventi che potrebbero un giorno estenderla in modo significativo.

Studi a confronto

Da sempre scienziati e filosofi s’interrogano sui confini teorici della vita umana, ma per la maggior parte della storia le loro discussioni sono state in gran parte basate su riflessioni e osservazioni personali. Tuttavia, nel 1825 lo statistico britannico Benjamin Gompertz pubblicò un nuovo modello matematico della mortalità, con il quale dimostrava che il rischio di morte aumentava esponenzialmente con l’avanzare dell’età. Se questo rischio avesse continuato ad accelerare per tutta la vita, le persone alla fine avrebbero raggiunto un punto in cui sostanzialmente non avrebbero avuto nessuna possibilità di sopravvivere all’anno successivo. In altre parole, avrebbero raggiunto il limite effettivo della durata della vita.

Ma Gompertz osservava anche che, quando le persone entravano nella vecchiaia, il rischio di morte si stabilizzava. “Il limite alla possibile durata della vita probabilmente non sarà mai stabilito”, scriveva, “se mai dovesse esistere”. In seguito gli scienziati hanno usato nuovi dati e modelli matematici più sofisticati per trovare ulteriori prove dell’accelerazione dei tassi di mortalità seguita da un appiattimento della curva, non solo negli esseri umani ma anche in numerose altre specie, tra cui ratti, topi, gamberetti, nematodi, moscerini della frutta e coleotteri.

“La biologia non ha ancora trovato prove dell’inevitabilità della morte”

Nel 2016 la rivista Nature ha pubblicato uno studio particolarmente provocatorio, in cui si lasciava intendere che gli autori avessero trovato il limite alla durata della vita umana. Jan Vijg, genetista dell’Albert Einstein college of medicine di New York, aveva analizzato decenni di dati sulla mortalità raccolti in diversi paesi. E aveva concluso che, anche se in quei paesi l’età più alta riportata alla morte era aumentata rapidamente tra gli anni settanta e gli anni novanta, poi non era più salita, fermandosi a una media di 114,9 anni. La durata della vita umana sembrava essere arrivata al limite. Alcune persone, come Jeanne Calment, potevano raggiungere età sbalorditive, ma erano casi anomali e non dimostravano un continuo allungamento della vita.

Mentre alcuni scienziati della corrente pessimista hanno applaudito lo studio, altri hanno criticato i suoi metodi. Su Nature e su altre riviste sono stati pubblicati studi che confutavano quello di Vijg.
James Vaupel, direttore del Max Planck institute for demographic research, non crede che la durata della vita umana abbia raggiunto il suo limite. Ha definito lo studio di Vijg una farsa e ha detto alla giornalista Hester van Santen che gli autori “hanno immesso dati nel computer come si rimpinza una mucca di cibo”.

Robine ricorda bene lo scalpore sollevato da quella ricerca. Era uno degli scienziati incaricati da Nature di valutare lo studio prima della pubblicazione. La prima bozza non l’aveva convinto, perché si concentrava solo sugli Stati Uniti e si basava su dati incompleti. Aveva raccomandato di usare il database internazionale più completo sulla longevità, che lui e Vaupel avevano realizzato con i loro colleghi. Ma dopo che Vijg e i suoi coautori avevano mandato una versione completamente rivista, Robine aveva ammesso che lo studio era abbastanza solido da poter essere pubblicato, anche se restava in disaccordo con le sue conclusioni.

Due anni dopo, nel 2018, la rivista Science ha pubblicato un articolo che contraddiceva quello di Nature. I demografi Elisabetta Barbi, dell’università di Roma, e Kenneth Wachter, dell’università della California a Berkeley, avevano esaminato le traiettorie di sopravvivenza di quasi quattromila italiani e concluso che fino all’età di ottant’anni il rischio di morte aumentava esponenzialmente, ma poi rallentava e infine si stabilizzava. Una persona di 105 anni aveva circa il 50 per cento di possibilità di vivere fino all’anno successivo. Lo stesso valeva per chi ne aveva 106, 107, 108 e 109. I risultati, scrivevano gli autori, “suggeriscono che la longevità continua ad aumentare nel tempo e che un limite, se esiste, non è stato raggiunto”.

Molte discussioni a proposito degli studi sulla longevità umana sono focalizzate sulla completezza dei diversi insiemi di dati e sui differenti metodi statistici usati dai ricercatori per analizzarli. Dove un gruppo di scienziati vede una tendenza chiara, un altro pensa a un abbaglio. Robine trova il dibattito emozionante e fondamentale. “Non mi convince chi dice che la vita sia limitata e nemmeno chi dice che non lo sia. Per me la questione è ancora aperta. Non sappiamo ancora quale sia il miglior tipo di analisi o di studio da usare per rispondere a questa domanda. La cosa più importante da fare oggi è continuare a raccogliere dati”.

Phillip Toledano, Trunk

Ma le statistiche sulla durata della vita non possono dirci di più. Questi dati sono disponibili da secoli e chiaramente non hanno risolto il problema. Forse il numero dei supercentenari è ancora troppo limitato per arrivare a conclusioni inequivocabili sui tassi di mortalità in età avanzata. Ma negli ultimi decenni gli scienziati hanno fatto progressi importanti nella comprensione delle origini evolutive della longevità e della biologia dell’invecchiamento. Invece di concentrarsi sulla demografia umana, questo filone di ricerca prende in considerazione tutte le specie del pianeta e cerca di dedurre i princìpi generali sulla durata della vita e sui tempi della morte.

“Sono un po’ sorpreso che qualcuno oggi si chieda se c’è o no un limite”, mi dice S. Jay Olshansky, un esperto di longevità che insegna alla School of public health dell’università dell’Illinois, a Chicago. “Non importa se c’è un plateau di mortalità o no nella vecchiaia estrema. Ci sono così poche persone che ci arrivano, e il rischio di morte a quel punto è così alto, che la maggior parte di loro non vivrà molto oltre i limiti che vediamo oggi”. Olshansky, 67 anni, sostiene da tempo che la durata della vita sia limitata e che i modelli matematici in conflitto tra loro siano irrilevanti rispetto alla realtà biologica dell’invecchiamento. Gli piace fare un’analogia con l’atletica: “Un giorno qualcuno potrebbe correre un miglio in due minuti? No. Il corpo umano non è in grado di muoversi così velocemente a causa dei suoi limiti anatomici. La stessa cosa vale per la longevità”.

È così convinto della sua posizione che ci ha investito dei soldi. Nel 2000 Steven Austad, un biologo che oggi insegna all’università dell’Alabama, dichiarò alla rivista Scientific American: “La prima persona di 150 anni probabilmente esiste già”. Quando Olshansky disse che non era d’accordo, i due fecero una scommessa: misero entrambi 150 dollari in un fondo di investimento e firmarono un contratto che stabiliva che il vincitore o i suoi discendenti ne avrebbero potuto rivendicare i guadagni nel 2150. Dopo la pubblicazione dello studio di Vijg raddoppiarono la posta. Olshansky calcola che, quando arriverà il momento d’incassare, il fondo varrà più di un miliardo di dollari. “E vincerò io”, ha detto quando gli ho chiesto cosa ne pensa ora della scommessa. “Alla fine, la biologia stabilirà chi di noi due ha ragione. Ecco perché sono così fiducioso”.

Il circolo degli immortali

La questione dei limiti dell’estensione della vita umana contiene un enigma fondamentale: perché ogni organismo invecchia e muore? Come l’eminente fisico Richard Feynman affermò in una conferenza del 1964, “la biologia non ha ancora trovato nulla che indichi l’inevitabilità della morte”.

Un numero alto di superanziani soffocherebbe le nuove generazioni

Alcuni organismi sembrano essere la prova vivente di questa affermazione. Di recente gli scienziati hanno scavato in profondità nei sedimenti di un fondale marino e hanno portato alla luce microbi che probabilmente erano sopravvissuti “in una forma metabolicamente attiva” per più di cento milioni di anni. Si pensa che Pando, nello Utah, una colonia clonale di 42 ettari di pioppi geneticamente identici collegati da un unico sistema di radici, abbia più di quattordicimila anni.

Alcune creature sono così longeve che gli scienziati le considerano biologicamente immortali. L’idra, una minuscola parente delle meduse e dei coralli, non sembra invecchiare affatto, e quando viene tagliata a pezzi può rigenerare un corpo completamente nuovo. Quando viene ferita o minacciata, una _Turritopsis dohrnii _sessualmente matura, la cosiddetta medusa immortale, può tornare al suo stadio giovanile, maturare e ricominciare da capo, potenzialmente all’infinito. Gli organismi biologicamente immortali possono perire – per predazione, lesioni letali o infezioni – ma non sembrano morire spontaneamente. In teoria qualsiasi organismo che riceve un apporto continuo di energia, che ha una sufficiente capacità di auto-manutenzione e la fortuna di eludere tutti i rischi ambientali potrebbe sopravvivere fino alla fine dell’universo.

Ma allora perché tante specie “scadono”? La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che l’invecchiamento, l’insieme dei processi fisici di danneggiamento e decadimento che provoca la morte, non è un tratto adattativo modellato dalla selezione naturale. È piuttosto il risultato del graduale calo del potere della selezione nel corso della vita di un organismo. La selezione agisce soprattutto sui geni e sui tratti che aiutano le creature viventi a sopravvivere all’adolescenza e a riprodursi. In molte specie, i pochi individui che arrivano alla vecchiaia sono praticamente invisibili alla selezione naturale perché non trasmettono più i loro geni, né contribuiscono ad allevare la progenie dei loro parenti.

Come osservava il biologo britannico Peter Medawar negli anni cinquanta, mutazioni genetiche dannose che non si manifestano fino a tarda età forse si accumulano attraverso le generazioni perché la selezione è troppo debole per rimuoverle, con il conseguente invecchiamento di tutta la specie. Il biologo statunitense George C. Williams elaborò le idee di Medawar e aggiunse che alcuni geni possono essere utili in gioventù ma dannosi in seguito, quando la selezione ne trascura gli svantaggi. Sulla stessa linea, negli anni settanta, il biologo britannico Thomas Kirk­wood affermava che l’invecchiamento era dovuto in parte a un compromesso evolutivo tra due opposti: crescita e riproduzione da una parte e mantenimento quotidiano dall’altro. Dedicare risorse alla manutenzione è vantaggioso solo se è probabile che un organismo continui a sopravvivere e a riprodursi. Per molti organismi, le minacce esterne sono così grandi e numerose che non c’è molta pressione evolutiva per preservare i corpi nella vecchiaia, che finiscono per deteriorarsi.

Animali complessi

Ma questo non spiega perché c’è una variazione così grande nella durata della vita tra le specie. I biologi pensano che la longevità sia in gran parte determinata dall’anatomia e dallo stile di vita di una specie. Gli animali piccoli e molto vulnerabili tendono a riprodursi rapidamente e muoiono non molto tempo dopo, mentre gli animali più grandi e quelli con difese più sofisticate di solito si riproducono più tardi e vivono complessivamente più a lungo. Gli uccelli terrestri, per esempio, vivono spesso di meno rispetto alle specie che hanno ali più forti e nidificano, e quindi sono meno esposte ai predatori. Alcune specie, come gli alberi clonali robusti con sistemi di radici resilienti, sono così ben protette dai rischi ambientali che non devono dare priorità alla crescita e alla riproduzione precoce rispetto alla manutenzione a lungo termine, e questo gli consente di vivere per un tempo straordinariamente lungo. Altri, come la medusa immortale e l’idra, sono potenzialmente illimitati, perché hanno mantenuto capacità primordiali di ringiovanimento che nella maggior parte dei vertebrati adulti sono state relegate nelle cellule staminali.

Gli esseri umani non sono mai entrati nel ristretto circolo degli immortali. Molto probabilmente abbiamo ereditato cicli di vita abbastanza lunghi dal nostro ultimo antenato comune con gli scimpanzé, forse una grande scimmia sociale intelligente che viveva sugli alberi lontano dai predatori di terra. Ma non abbiamo mai superato la senescenza che fa parte dell’essere un animale complesso con adattamenti e abbellimenti costosi dal punto di vista metabolico.

Con il passare degli anni, i nostri cromosomi si contraggono e si fratturano, i geni si attivano e disattivano a caso, i mitocondri si disgregano, le proteine si disfano o si aggregano, le riserve di cellule staminali rigenerative diminuiscono, le cellule del corpo smettono di dividersi, le ossa si assottigliano, i muscoli si raggrinziscono, i neuroni si spengono, gli organi diventano pigri e cominciano a presentare disfunzioni, il sistema immunitario si indebolisce e i meccanismi di autoriparazione non funzionano più. Non esiste un orologio della morte programmato che ticchetta dentro di noi, ma alla fine il corpo umano non può più andare avanti.

I progressi sociali e il miglioramento della salute pubblica possono aumentare ulteriormente la speranza di vita e produrre supercentenari che superino il record di Calment. Ma anche gli scienziati della longevità più ottimisti ammettono che a un certo punto i guadagni prodotti dall’ambiente andranno a scontrarsi con i limiti della biologia umana. A meno che non decidiamo di modificare drasticamente la nostra biologia.

Molti scienziati che studiano l’invecchiamento pensano che solo le scoperte biomediche possano allungare in modo sostanziale la durata della vita umana. Ma alcuni non credono che chi è in vita oggi vedrà risultati radicali su questo fronte, e qualcuno dubita perfino che questi risultati arriveranno mai. In ogni caso, tutti concordano sul fatto che sia inutile allungare la durata della vita senza garantire benessere, e che bisogna preoccuparsi della vitalità nella vecchiaia, indipendentemente dalla longevità.

Uno dei tanti ostacoli a questi obiettivi è la straordinaria complessità dell’invecchiamento nei mammiferi e in altri vertebrati. I ricercatori hanno fatto scoperte sorprendenti: hanno modificato il genoma del verme nematode Caenorhabditis elegans, moltiplicandone la durata della vita di quasi dieci volte, l’equivalente di mille anni nell’esistenza di un essere umano. Anche se gli scienziati hanno usato la restrizione calorica, l’ingegneria genetica e vari farmaci per allungare la vita in specie più complesse – tra cui pesci, roditori e scimmie – i guadagni non sono mai stati così significativi come nei nematodi, e i meccanismi alla base di questi cambiamenti rimangono poco chiari.

Tuttavia, di recente i ricercatori hanno testato tecniche particolarmente innovative per invertire e posticipare alcuni aspetti dell’invecchiamento, con risultati incerti ma promettenti. L’équipe di James Kirkland, esperto di invecchiamento della Mayo Clinic di Rochester, nel Minnesota, ha dimostrato che nei topi anziani si possono eliminare le cellule senescenti usando dei cocktail di farmaci, e in questo modo concedere agli animali un mese di vita sana in più. La loro ricerca ha portato altri studiosi a fare studi clinici sugli esseri umani. All’università della California a Berkeley i bioingegneri Irina e Michael Conboy stanno studiando modi per filtrare o diluire il sangue invecchiato dei roditori al fine di rimuovere le molecole che inibiscono la guarigione, cosa che a sua volta stimola la rigenerazione cellulare e la produzione di composti rivitalizzanti.

Da sapere
Un nuovo orologio

◆ Un gruppo di ricercatori dell’università di Stanford, negli Stati Uniti, ha sviluppato un nuovo strumento per misurare l’età biologica sulla base del livello d’infiammazione cronica. “È una scoperta importante”, scrive Nature, “perché consente di prevedere il rischio di patologie legate all’invecchiamento, come disturbi cardiovascolari e malattie neurodegenerative”. L’orologio si chiama iAge ed è basato su un algoritmo di apprendimento automatico che, combinato all’età anagrafica e alle informazioni sulle condizioni di salute, consente d’individuare i biomarcatori più strettamente legati agli stati infiammatori. I ricercatori l’hanno testato raccogliendo il sangue di 19 persone che hanno vissuto almeno fino a 99 anni. Hanno scoperto che l’orologio biologico dei centenari era di 40 anni inferiore rispetto all’età anagrafica, confermando che le persone con un sistema immunitario sano tendono a vivere più a lungo.


Elisir

David Sinclair, che dirige il Paul F. Glenn center for the biology of aging research della facoltà di medicina di Harvard, ha in parte ripristinato la vista in topi di mezza età malati riprogrammando la loro espressione genica. Lo studio è stato pubblicato su Nature nel dicembre 2020. I ricercatori hanno iniettato negli occhi dei topi un virus benigno portatore dei geni che riportano le cellule mature a uno stato più elastico, simile a quello delle cellule staminali. Questo ha permesso ai loro neuroni di rigenerarsi, mostrando una capacità che i mammiferi di solito perdono dopo l’infanzia. “Abbiamo capito che l’invecchiamento è molto più reversibile di quanto pensassimo”, dice Sinclair. “Usando questo processo di ripristino per attivare i geni giovanili, le cellule possono ripulirsi, possono sbarazzarsi delle vecchie proteine e ringiovanire”.

Sinclair ha 51 anni ma ne dimostra meno, ed è noto per le sue previsioni ottimistiche. Insieme a molti dei suoi familiari (e anche ai suoi cani), segue una versione del suo regime di prolungamento della vita, che include esercizio fisico regolare, sauna a vapore e bagni nel ghiaccio, una dieta prevalentemente vegetariana di due pasti al giorno, il farmaco per il diabete metformina (che secondo lui ha proprietà anti-invecchiamento) e diverse vitamine e integratori, come il resveratrolo, una molecola presente nel vino rosso (per un periodo molto pubblicizzata, ma alla fine si è rivelata deludente). Sinclair ha fondato almeno dodici aziende di biotecnologia e siede nei consigli d’amministrazione di molte altre, una delle quali sta sperimentando sugli esseri umani una terapia genica basata sul suo studio di Nature.

In una presentazione che ha fatto per Google, Sinclair ha immaginato un futuro in cui le persone riceveranno trattamenti simili ogni dieci anni per annullare gli effetti dell’invecchiamento su tutto il corpo. “Non sappiamo quante volte sia possibile resettarlo”, ha detto. “Potrebbero essere tre o tremila. E se riesci a ripristinare il tuo corpo tremila volte, le cose si fanno interessanti. Non so se qualcuno di voi vuole vivere mille anni, e non so nemmeno se sarà possibile, ma queste sono le domande a cui dobbiamo cominciare a pensare. Perché non è più una questione di se ma di quando succederà”.

Da sapere
Arrivano i centenari
Popolazione centenaria e ultracentenaria in Giappone - Fonte: Yasuhiko Saito, Futoshi Ishii e Jean-Marie Robine (Exceptional Lifespans)
Popolazione centenaria e ultracentenaria in Giappone (Fonte: Yasuhiko Saito, Futoshi Ishii e Jean-Marie Robine (Exceptional Lifespans))

Gli scienziati della longevità favorevoli all’idea di vivere per secoli tendono a parlare con entusiasmo di prosperità e possibilità. Secondo loro, sostenere la vita e promuovere la salute sono obiettivi intrinsecamente positivi e, quindi, lo sono anche tutti gli interventi medici che servono a realizzarli. La longevità estesa dal punto di vista biomedico non solo rivoluzionerebbe il benessere generale, riducendo al minimo o prevenendo le malattie dell’invecchiamento, ma arricchirebbe notevolmente l’esperienza umana. Permetterebbe di avere carriere lavorative soddisfacenti e diversificate, di esplorare di più il mondo, di giocare con i bis-bis-bis-nipoti, di stare seduti davvero all’ombra dell’albero che abbiamo piantato tanto tempo fa. Immaginate cosa potrebbero realizzare le menti più brillanti del mondo con tutto quel tempo.

In netto contrasto con loro, altri esperti sostengono che estendere la durata della vita, anche in nome della salute, è un progetto destinato a fallire. La preoccupazione più comune riguarda la sovrappopolazione del pianeta, soprattutto considerando la tendenza dell’umanità ad accaparrarsi e sperperare risorse, e le enormi disuguaglianze socioeconomiche che già dividono un mondo di quasi otto miliardi di abitanti. Ci sono ancora decine di paesi in cui l’aspettativa di vita è inferiore a 65 anni, principalmente a causa di problemi legati alla povertà, alle carestie, alla mancanza di istruzione, alla subalternità delle donne, alle carenze dei sistemi sanitari e a malattie come la malaria e l’hiv/aids, che i nuovi e costosi trattamenti per prolungare la vita non possono risolvere.

Un gran numero di superanziani, aggiungono alcuni esperti, soffocherebbe le nuove generazioni e ostacolerebbe il progresso sociale. “Il processo evolutivo è saggio perché fa scomparire le vecchie generazioni”, ha detto Paul Root Wolpe, che dirige il Centro per l’etica della Emory university di Atlanta, in Georgia, durante un dibattito pubblico. “Se la generazione della prima guerra mondiale, quella della seconda guerra mondiale e, magari, anche quella della guerra civile statunitense fossero ancora vive, pensate davvero che avremmo i diritti civili in questo paese? O i matrimoni gay?”.

Alterazione psicologica

Jeanne Calment, che era stata una donna sportiva, passò i suoi ultimi anni nella residenza per anziani praticamente immobile, confinata nel suo letto o sulla sedia a rotelle. Continuava a perdere l’udito, era quasi cieca e aveva difficoltà a parlare. A volte non era chiaro se fosse consapevole di ciò che la circondava. Secondo alcuni, le persone che l’avevano in cura non sono riuscite a proteggerla da agitazioni inopportune e interazioni discutibili quando nella sua stanza hanno cominciato a entrare giornalisti, turisti e curiosi. Dopo l’uscita di un documentario sul caso, il direttore della residenza ha bloccato tutte le visite. L’ultima volta che Robine l’ha vista è stato poco dopo il suo 120° compleanno. Circa due anni dopo, nel bel mezzo di un’estate particolarmente calda, Jeanne Calment è morta da sola nella sua stanza per cause sconosciute, ed è stata subito sepolta. Solo poche persone sono state autorizzate a partecipare al funerale. Robine e Allard non erano tra queste. E nemmeno i familiari: tutti i parenti stretti erano morti da più di trent’anni.

“Oggi più persone sopravvivono alle principali malattie della vecchiaia ed entrano in una fase della loro vita in cui diventano molto deboli”, ha detto Robine. “Non sappiamo come evitare la fragilità”.

Sganciare la durata della vita dalla biologia che abbiamo ereditato potrebbe avere conseguenze imprevedibili, una in particolare: l’alterazione della nostra psicologia. Tutta la cultura umana si è evoluta sapendo che la vita terrena ha un limite e, in rapporto alla storia, è relativamente breve. Se un giorno nascessimo sapendo che possiamo ragionevolmente aspettarci di vivere duecento anni o più, la nostra mente si adatterebbe facilmente a questa durata della vita senza precedenti? O la nostra architettura neurale, che si è evoluta tra i pericoli del pleistocene, è intrinsecamente inadatta per orizzonti così vasti?

Scienziati, filosofi e scrittori hanno sempre temuto che una vita troppo lunga toglierebbe significato a ogni esperienza importante, creando malinconia e svogliatezza. Forse il desiderio di tutti quegli anni in più maschera un bisogno profondo di qualcosa di irraggiungibile: non una vita semplicemente più lunga ma una vita abbastanza lunga da sembrarci perfetta e completa.

Nel racconto L’immortale, di Jorge
Luis Borges, un ufficiale romano scopre un “fiume segreto che purifica gli uomini dalla morte”. Dopo aver bevuto da quella fonte e aver trascorso millenni a riflettere, si rende conto che la morte infonde valore alla vita, mentre, per gli immortali, “nulla può accadere solo una volta, nulla di prezioso rischia di andare perso”. Determinato a trovare l’antidoto alla vita eterna, vaga per il pianeta per quasi un millennio. Un giorno beve da una sorgente di acqua limpida sulla costa eritrea e poco dopo si graffia il dorso della mano su un albero. Sorpreso da una strana fitta di dolore, cerca il segno di una ferita. Mentre una goccia di sangue si accumula lentamente sulla sua pelle – a riprova della sua restaurata mortalità – si limita a osservarla, “incredulo, attonito e pieno di gioia”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati