Nel 2021, a cento anni dalla creazione dell’Irlanda del Nord, il primo ministro bitannico Boris Johnson ha twittato: “Permettetemi di sottolineare che, oggi e in futuro, il posto dell’Irlanda del Nord all’interno del Regno Unito sarà protetto e rafforzato”. Alle orecchie degli unionisti questa frase sarà suonata come un avvertimento, visto che bisogna inserire automaticamente la parola “non” all’interno di ogni affermazione di Johnson: l’anno 101 dell’Irlanda del Nord sarebbe stato l’equivalente della stanza 101 descritta nel romanzo 1984 di George Orwell, quella in cui ci si ritrova faccia a faccia con i propri incubi peggiori.
Dopo le elezioni del 5 maggio per il rinnovo dell’assemblea unicamerale nordirlandese, l’incubo degli unionisti ha assunto le sembianze amichevoli di Michelle O’Neill, vicepresidente del partito nazionalista di sinistra Sinn féin e adesso first minister (governatrice) in pectore dell’esecutivo nordirlandese. A spaventarli non è tanto O’Neill, ma il momento storico che incarna: il nazionalismo cattolico che supera l’unionismo protestante. Il principale obiettivo del Sinn féin del resto è la riunificazione. Il partito ha preso otto punti percentuali in più degli alleati locali dei conservatori inglesi, il Partito unionista democratico (Dup).
Dopo le elezioni del 5 maggio, l’incubo degli unionisti ha assunto la forma di Michelle O’Neill, vicepresidente del partito Sinn féin
In un posto normale il risultato delle elezioni non avrebbe conseguenze esistenziali. Ma l’Irlanda del Nord non è mai stato un posto normale. Fu creata per consentire al maggior numero possibile di protestanti di restare nel Regno Unito, escludendoli dal nascente stato irlandese. I suoi confini sono stati tracciati per creare un’area all’interno della quale i protestanti sarebbero stati in maggioranza permanente, e ciò naturalmente implicava che la popolazione cattolica sarebbe stata una minoranza permanente.
Era chiaro da tempo che questa scommessa, come qualsiasi altro azzardo del genere nella storia, fosse destinata a fallire. Il monolite politico unionista crollò già nel 1972, quando Edward Heath, all’epoca primo ministro britannico, staccò la spina al parlamento nordirlandese a Stormont. Da quel momento si è consolidata l’idea che sarebbe stato possibile governare l’Irlanda del Nord solo attraverso una condivisione del potere tra il partito nazionalista e quello unionista. Questa intesa è stata istituzionalizzata con gli accordi del Venerdì santo a Belfast nel 1998, con cui ci si avvicinò alla fine delle violenze che avevano segnato per trent’anni la storia del paese, i cosiddetti troubles.
Da questo punto di vista gli unionisti protestanti si sono abituati da tempo al fatto che non avrebbero mai più esercitato il potere in modo unilaterale. Finora però si potevano consolare con il pensiero che, pur essendo costretti ad accettare la coabitazione con i nazionalisti cattolici, erano comunque dei primi tra pari. Per molti versi, si trattava di una questione puramente formale: in base all’accordo di Belfast, il leader del partito con più consensi diventava automaticamente “primo ministro” e il leader del partito con più voti dell’altro schieramento faceva il “vice primo ministro”. In realtà le due cariche hanno sempre avuto uno status identico. Ma in Irlanda del Nord la lingua e i simboli sono cose molto importanti, e quel “primo” era una comoda coperta sotto la quale l’unionismo poteva nascondersi.
Ora quella coperta è stata stracciata. Con le elezioni del 5 maggio sono successe due cose rilevanti. Primo, visto che i simboli sono importanti anche sul fronte nazionalista, la prospettiva che O’Neill potesse diventare first minister ha spinto tanti elettori cattolici ad abbandonare il più moderato Partito socialdemocratico e laburista (Sdlp) a favore dello Sinn féin.
Solo uno sciocco potrebbe pensare che la prospettiva di un’Irlanda unita sia imminente, e solo uno ancora più sciocco potrebbe pensare che non si sia fatta per molti versi più vicina
L’altra cosa da considerare però è che la Brexit ha continuato a dividere e indebolire l’unionismo. Questo secondo fattore è stato in realtà più determinante del primo. La quota di voti dello Sinn féin è aumentata di poco, mentre quella del Dup è crollata.
Alle elezioni per il rinnovo dell’assemblea nordirlandese del maggio 2016, un mese prima del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Europa, il Dup aveva ottenuto il 29 per cento dei voti. Il 5 maggio invece ha preso il 21 per cento. I suoi consensi sono diminuiti nonostante avesse in mano una presunta carta vincente, cioè la paura che, se i protestanti non avessero votato per il Dup, vincendo le elezioni lo Sinn féin avrebbe spinto per avere un referendum sull’Irlanda unita (paradossalmente, mentre il Dup lanciava l’allarme sul referendum, lo Sinn Féin minimizzava questa possibilità, concentrando la sua campagna elettorale su questioni di fondo).
In Irlanda del Nord c’è una lunga storia di voti dati “turandosi il naso”; preferenze espresse non perché si sosteneva un candidato, ma per escludere gli altri. Come mai stavolta questo impulso non ha avuto effetto? Perché la rivoluzione della Brexit sta divorando i suoi figli.
A parte l’Ukip, il Dup è stato l’unico partito rilevante nel Regno Unito a schierarsi compatto a favore dell’uscita dall’Unione europea. Ha pompato soldi nella campagna per il leave in Inghilterra. Ha usato il suo ruolo di ago della bilancia nel parlamento per contribuire ad affossare la premier Theresa May e a far insediare al suo posto Boris Johnson. E, cosa piuttosto sorprendente per un partito con un’altissima proporzione di astemi, si è fatto talmente inebriare dai fumi della Brexit da credere a Johnson quando giurava “sul suo cadavere” che non ci sarebbe stato un confine lungo il mare d’Irlanda.
Alla luce di tutto questo, gli unionisti del Dup hanno fatto la figura degli stupidi. E hanno scontentato due gruppi di elettori molto diversi tra loro. Uno è quello degli intransigenti, che incolpano il partito di aver creato, pur senza volerlo, il protocollo per l’Irlanda del Nord che mantiene la regione all’interno del mercato unico dell’Unione europea nonostante il Regno Unito se ne stia allontanando sempre più. Molte di queste persone, per esempio, hanno votato il piccolo partito Voce tradizionale unionista (Tuv). L’altro elettorato scontento sono i protestanti moderati che non hanno mai voluto uscire dall’Unione.
Gli ultimi eventi però sollevano due grandi questioni: una riguarda il futuro del protocollo e l’altra la possibilità di un’Irlanda unita. La prima questione è stata chiarita dalle elezioni. In parole povere, Johnson sostiene di rappresentare il popolo dell’Irlanda del Nord e usa il protocollo come scusa per rivitalizzare il conflitto con l’Unione, ma mente. I partiti che si oppongono al protocollo – il Dup, gli Unionisti dell’Ulster e la Tuv – hanno raccolto in tutto il 40 per cento dei voti. Quelli a favore del protocollo – lo Sinn féin, il Partito socialdemocratico e laburista, l’Alliance party, europeista e non settario, e altri due partiti più piccoli – hanno ottenuto il 55 per cento. Se i conservatori britannici daranno seguito alla minaccia del vicepremier Dominic Raab di “prendere ogni provvedimento necessario” ad alterare unilateralmente il protocollo, innescando così una guerra commerciale con l’Unione, non sarà per onorare i desideri degli elettori dell’Irlanda del Nord. Sarà solo uno sforzo inutile per salvare la pelle a Johnson.
Per quanto riguarda l’Irlanda unita, solo uno sciocco potrebbe pensare che questa prospettiva sia imminente, e solo uno ancora più sciocco potrebbe pensare che non si sia fatta per molti versi più vicina. L’unificazione non succederà presto, perché la maggior parte degli irlandesi non ha davvero cominciato a immaginare cosa significherebbe in pratica. Tuttavia negli ultimi anni l’identità dell’Irlanda del Nord è stata drasticamente alterata sia dal cambiamento demografico, culminato nei risultati di queste elezioni, sia dall’adesione del Dup all’estremismo della Brexit.
La sensazione è di essere arrivati alla fine di un’epoca. C’è un bisogno urgente di parlare nel modo più generoso e aperto possibile di come potrebbe essere l’aldilà dell’Irlanda del Nord, e di come tutti potrebbero trovare un posto al suo interno. ◆ gim
Questo articolo è uscito sul Guardian di Londra.
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Questo articolo è uscito sul numero 1460 di Internazionale, a pagina 45. Compra questo numero | Abbonati