A poco più di un mese dall’inizio della guerra, dire che l’invasione russa in Ucraina provocherà un cambio di paradigma suona già banale. La Germania che rinuncia al suo pacifismo, il ritorno della minaccia nucleare, le aziende che voltano le spalle a Mosca, l’improvvisa avversione per il gas russo. Ma anche l’Europa che serra i ranghi: tutto a un tratto Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca si trovano d’accordo con gli altri paesi dell’Unione sull’accoglienza dei profughi. S’intravede una linea europea comune sulla protezione dei richiedenti asilo, una cosa che finora tutti consideravano impossibile.
Il 2 marzo la Commissione europea ha attivato la procedura stabilita dalla direttiva per la protezione temporanea dei profughi. Il giorno dopo, i ministri degli stati dell’Unione hanno deciso all’unanimità che chi fugge dall’Ucraina ha diritto alla protezione temporanea nell’Unione. Il fatto che l’Europa abbia tirato fuori questa vecchia norma dalla naftalina è straordinario. La direttiva sulla protezione temporanea era stata stilata dopo le guerre in Jugoslavia e nel Kosovo, quando il flusso di profughi dai Balcani aveva dimostrato che serviva una linea europea comune sulla protezione dei richiedenti asilo in caso di una crisi. I primi colloqui sull’argomento si erano svolti già all’inizio degli anni novanta, ma solo nel 2001 entrò in vigore la direttiva che riguarda specificamente le situazioni in cui in Europa dovessero arrivare, in breve tempo, grandi quantità di profughi, quello che in inglese si definisce mass influx.
Senza dubbio è proprio quello che sta succedendo oggi. Quasi quattro milioni di persone hanno già lasciato l’Ucraina, e si prevede che i numeri possano crescere ancora. In una situazione come questa, l’aspetto cruciale della direttiva è che permette di offrire protezione temporanea a un’intera categoria di persone in un colpo solo, diminuendo la pressione sulle normali procedure d’asilo dei singoli paesi.
È uno strumento perfetto per le emergenze, ma negli ultimi vent’anni non era mai stato usato. Non all’inizio degli anni duemila, quando il numero di profughi da Afghanistan e Iraq crebbe enormemente; non dopo le primavere arabe del 2011, che fecero aumentare gli arrivi dalla Tunisia e dalla Libia; e neanche durante la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015, quando in un solo anno arrivò in Europa più di un milione di persone. Allora nessuno dubitava che il flusso di persone in fuga potesse definirsi “di massa”. Se confrontato con questi precedenti, il cambio di paradigma sembrerebbe evidente.
Secondo il filosofo Thomas Kuhn un cambio di paradigma avviene quando la concezione del mondo prevalente entra in crisi ed è sostituita da una nuova prospettiva. I parametri con cui si pensava a problemi e soluzioni mutano improvvisamente e diventa difficile fare confronti con il passato e trarne conclusioni per il futuro. In questo senso una crisi è anche una frattura temporale. Per capire se nella politica migratoria europea è in corso un cambio di paradigma, quindi, bisogna prima esaminare il vecchio sistema.
Negli ultimi vent’anni la politica europea sull’immigrazione è stata nettamente caratterizzata dal tentativo degli stati di controllare gli spostamenti delle persone. Alcuni gruppi di migranti erano respinti, mentre altri erano incoraggiati. Apolidi, profughi e sfollati appartenevano al gruppo degli indesiderati, mentre per i turisti e i migranti ricchi entrare in Europa e viaggiare liberamente al suo interno diventava sempre più semplice. Il culmine è stato raggiunto con i cosiddetti passaporti d’oro, grazie ai quali molti oligarchi russi sono riusciti a ottenere la cittadinanza europea investendo milioni a Cipro o in altri stati dell’Unione.
Perché il sistema funzioni è necessario distinguere con precisione i migranti ben accetti da quelli che non lo sono. Per questo è stato allestito un vasto apparato di sorveglianza, passaporti biometrici, militarizzazione dei confini ed enormi banche dati. Chi è benvenuto non si accorge di niente: passa i controlli grazie alla scansione oculare e sale in aereo. Chi è indesiderato deve cercare di varcare i confini esterni dell’Europa a bordo di barconi, nel carrello di un aereo o con altri mezzi di fortuna.
Questa politica può essere definita un successo? Dipende dalla prospettiva. Dal punto di vista di un migrante ben accetto lo è di sicuro. All’interno dell’Unione questa categoria ha una libertà di movimento quasi illimitata, e un passaporto europeo permette di spostarsi con facilità anche nel resto del mondo. Dalla prospettiva dei profughi invece il sistema funziona meno bene. Non solo perché migliaia di persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa e altre migliaia vivono in campi ai confini dell’Europa, ma anche perché l’accoglienza è diventata uno dei principali terreni di scontro della politica europea.
La cosa è diventata dolorosamente chiara durante la crisi del 2015, che è stata in gran parte una crisi di solidarietà. L’Europa si è dimostrata fin da subito poco solidale nei confronti dei richiedenti asilo, ma ben presto è emersa anche una grave mancanza di solidarietà tra gli stati del continente. Ormai da anni l’accoglienza dei profughi spetta solo ai paesi del sud, soprattutto Italia, Malta e Grecia.
Il fondamento giuridico di questa ripartizione iniqua è il cosiddetto sistema di Dublino, che assegna la responsabilità dei richiedenti asilo ai paesi attraverso cui entrano in Europa. Gli stati del nord non sono affatto disposti a rivedere questa logica per arrivare a una ridistribuzione più equa. Nel nuovo patto su migrazione e asilo presentato nel 2021, la Commissione europea non ha neanche provato a riformare il regolamento di Dublino.
È nota anche la rigida posizione di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca, che hanno contestato l’obbligo di ridistribuire i richiedenti asilo fino ai più alti gradi della giustizia europea. E anche dopo che il ricorso era stato respinto si sono rifiutate di fare la loro parte.
Benvenuti in Europa
È proprio sul punto della solidarietà verso i rifugiati e tra gli stati dell’Unione che sembra essere cambiato qualcosa. Tutt’a un tratto dei profughi si trovano dalla parte dei migranti desiderati. Il giorno dopo l’attivazione della direttiva di protezione temporanea, la commissaria europea Ylva Johansson ha espresso il suo apprezzamento per questa decisione storica. Chi fugge dall’Ucraina può lavorare, viene aiutato a trovare un alloggio, ha accesso all’assistenza sanitaria, i bambini possono andare a scuola e tutti questi diritti non richiedono alcun tempo d’attesa, ha sottolineato Johansson.
Secondo la direttiva, non solo i cittadini ucraini, ma anche gli apolidi e i rifugiati che vivevano regolarmente in Ucraina e non possono tornare nel loro paese d’origine hanno diritto alla protezione temporanea, così come i loro familiari. Per dirla con le parole della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, “chiunque fugga dalle bombe di Putin è benvenuto in Europa”. Il vicepresidente per la promozione dello stile di vita europeo Margarítis Schinás ha espresso questa nuova generosità sottolineando non solo i diritti dei profughi, ma anche lo sforzo dell’Europa per aiutare loro e i loro animali domestici ad arrivare a destinazione.
Il contrasto rispetto al 2015, quando chiesero asilo 1,3 milioni di persone provenienti soprattutto da Siria, Iraq e Afghanistan, non potrebbe essere più netto. Anche allora l’Europa fu attraversata da un moto di accoglienza, simboleggiato dalla frase “Wir schaffen das” (possiamo farcela) pronunciata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel . Ma la reazione di fronte a quelle persone in difficoltà fu completamente diversa: la Francia decise di chiudere i confini interni, l’Ungheria si affrettò a costruire una recinzione alla frontiera con la Serbia, e Bruxelles concluse il famigerato accordo con la Turchia per impedire ai profughi di arrivare in Europa, rispedendo quelli che ci erano riusciti oltre il confine turco. Anche allora quelle persone ottennero la protezione temporanea, ma non in Europa: la Turchia ospita ancora oggi 3,7 milioni di profughi. Se si confrontano le dichiarazioni di Johansson sugli ucraini con la situazione dei richiedenti asilo nel campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo, è difficile negare che nell’accoglienza europea qualcosa è cambiato.
Anche dal punto di vista della solidarietà tra gli stati la svolta è evidente. Nel 2015 i richiedenti asilo non erano solo indesiderati in Europa nel suo insieme, ma all’interno dell’Unione i singoli stati cercavano in ogni modo di evitare qualunque responsabilità nei loro confronti. I paesi dell’Europa meridionale e orientale furono lasciati soli in nome del regolamento di Dublino. Confrontando tutto questo con il clima attuale non si può che rimanere stupiti. La protezione temporanea agli ucraini è stata approvata all’unanimità dal Consiglio dell’Unione europea. Paesi che in passato chiedevano a Bruxelles di finanziare le barriere di filo spinato alle frontiere esterne dell’Unione oggi permettono che migliaia di migranti varchino i loro confini ogni giorno.
In questa crisi, inoltre, è stata superata la logica di Dublino. Il motivo è che fin dal 2017 i cittadini ucraini possono entrare in Europa senza bisogno del visto e muoversi liberamente all’interno dei suoi confini per novanta giorni. Una bella fortuna per la Polonia, che secondo le Nazioni Unite al 29 marzo ospita circa 2,3 milioni di profughi, ma anche per la Romania (610mila), l’Ungheria (360mila) e la Slovacchia (280mila). Secondo il regolamento di Dublino questi paesi sarebbero gli unici responsabili dell’accoglienza, mentre ora i richiedenti asilo possono “scegliere da soli in quale stato vogliono godere dei propri diritti”. Secondo il consiglio dell’Unione questo favorirà un riequilibrio tra i paesi, diminuendo la pressione sui sistemi di accoglienza nazionali. Si prevede che metà delle persone che fuggono dall’Ucraina raggiungerà dei parenti.
In nessun altro contesto il cambio di paradigma è così evidente. Tutt’a un tratto si prendono in considerazione i desideri dei migranti, e si delinea una solidarietà tra gli stati dell’Unione perché il peso non grava più solo sulle spalle dei paesi periferici.
Ma si può veramente parlare di un cambio di paradigma? Di una trasformazione che scuote le fondamenta del sistema e rende impossibile fare paragoni tra passato e futuro? Alcuni segnali fanno pensare che molte cose resteranno come sono. L’esempio più lampante sono i casi di discriminazione nei confronti degli stranieri che vivevano in Ucraina, soprattutto quelli provenienti dall’Africa e dall’India. In Ucraina c’erano molti studenti internazionali, che ora hanno difficoltà a lasciare il paese. L’organizzazione Human rights watch ha denunciato che in varie occasioni i poliziotti hanno fatto scendere alcune persone dai treni, e che un autista ha ordinato a “tutti i neri” di scendere dal suo autobus.
È difficile evitare l’impressione che la grande differenza tra il 2015 e il 2022 sia che oggi i profughi sono cristiani bianchi che vengono dall’Europa. L’accoglienza e l’asilo non dovrebbero dipendere dalla razza o dalla religione, ma al momento niente suggerisce che in caso di un grande afflusso di siriani, afgani o etiopi la protezione temporanea sarà concessa con altrettanta generosità.
Confini non controllati
Un’altra differenza importante rispetto al 2015 è che l’Ucraina e l’Unione non sono separate geograficamente da uno stato “cuscinetto” – come la Turchia nel caso della Siria. È probabile che se i profughi non avessero cercato rifugio direttamente in un paese dell’Unione europea, l’accoglienza sarebbe stata meno generosa. Inoltre bisogna considerare che è stato proprio il tentativo dell’Ucraina di avvicinarsi all’Unione una delle motivazioni dell’invasione russa.
Ma la differenza più importante tra la situazione del 2015 e quella attuale è che l’Europa aveva rinunciato a controllare i suoi confini con l’Ucraina già dal 2017. Da allora gli ucraini con un passaporto biometrico possono viaggiare liberamente all’interno dell’Europa senza visto per tre mesi. In altre parole, gli ucraini si trovavano già da anni dalla parte dei migranti desiderati. Il fatto che questo dipenda da considerazioni geopolitiche e non economiche non cambia le cose. Al contrario, in questo caso politica migratoria e geopolitica coincidono perfettamente: l’ex presidente ucraino Petro Porošenko aveva definito l’abolizione dell’obbligo del visto per gli ucraini “la scissione dall’impero russo”.
Anche dal punto di vista giuridico non sembra di essere entrati in una nuova era. Ironia vuole che la Commissione europea avesse già deciso di eliminare la direttiva sulla protezione temporanea e di sostituirla con un regolamento su “crisi e force-majeure”. La nuova norma contiene una variante della protezione temporanea (chiamata protezione immediata): la procedura di attivazione viene semplificata, ma dipende ancora dalla solidarietà nei confronti dei profughi e tra gli stati.
Un fatto curioso è che la nuova direttiva permetterebbe di trattenere più a lungo le persone al confine nel caso di un grande afflusso di profughi dovuto a una crisi improvvisa. Gli stati potrebbero respingere i richiedenti asilo al confine e tenerli bloccati, anche se fuggono da paesi i cui cittadini ottengono lo status di rifugiato nella maggior parte dei casi. La stessa Commissione europea che applaude alla protezione temporanea degli ucraini propone di bloccare per più di venti settimane ai confini esterni dell’Europa chi, per paese di provenienza, ha buone probabilità (fino al 20 per cento) di veder accolta la sua richiesta d’asilo. La sorveglianza dei confini, sotto forma di filo spinato e campi profughi sovraffollati, non sembra affatto destinata a sparire.
Torniamo così al nostro atteggiamento discriminatorio sulla libertà di movimento. Niente fa pensare che la fondamentale ambivalenza dell’Unione europea nei confronti di richiedenti asilo, sfollati e apolidi cambierà improvvisamente. Forse l’unica cosa che suggerisce un lento cambiamento di paradigma, una nuova era, è l’importanza delle crisi nella regolazione degli spostamenti, ovvero il passaggio a una gestione emergenziale permanente nel controllo dell’immigrazione. Abbiamo quasi dimenticato che fino a ieri ci trovavamo ancora nella crisi precedente, quella del coronavirus. Anche in quel caso la mobilità è stata rivista drasticamente sulla base di un’emergenza improvvisa. La crisi quindi non è una frattura temporale, come riteneva Thomas Kuhn, ma piuttosto il filo rosso che lega passato e futuro.
La caratteristica di una crisi è che il problema e la sua soluzione sono entrambi immediati: a un avvenimento improvviso segue subito una reazione. In questo eterno presente è difficile prevedere cosa porterà il futuro e capire chi nella prossima crisi sarà benvenuto e chi invece sarà bloccato al confine. Senza contare che molte misure di gestione della crisi sono comunque a breve termine.
Cosa succederà a chi ha ricevuto la protezione temporanea se una volta scaduto il termine di tre anni la situazione in Ucraina non sarà migliorata? E che ne sarebbe della solidarietà tra gli stati europei se tutti i rifugiati ucraini decidessero spontaneamente di andare in un solo paese? Per quanto riguarda la gestione delle migrazioni rischiamo di entrare in un eterno presente. ◆ vf
Galina Cornelisse e Martijn Stronks insegnano diritto dell’immigrazione alla Vrije Universiteit di Amsterdam.
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Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati