Il mio primo sguardo alla Icon of the Seas della Royal Caribbean, dal finestrino di un taxi da Miami, mi procura una sensazione di vertigine mista a nausea, angoscia e meraviglia. Chiudo istintivamente gli occhi, mentre il mio cervello ordina al nervo ottico di fare un secondo tentativo. La nave è priva di senso, che sia orizzontale o verticale. Non ha senso in mare, sulla terraferma o nello spazio. Si presenta come un’accozzaglia di cupole e minareti, tubi e tettoie, come una Istanbul progettata da idioti. Colori squillanti ed esagerati affastellati su colori simili, ponti accatastati su altri ponti. L’unico elemento rassicurante è la fila di scialuppe di salvataggio che circonda il perimetro. Non c’è nessun ordine implicito, nessun solido ragionamento sottinteso e, a meno di apprezzare il gigantismo totalitario, nessuna pietà per gli occhi. È la più grande nave da crociera mai costruita, e mi è stato chiesto di partecipare al viaggio inaugurale.

“Scrittore s’imbarca per la prima volta su una nave da crociera” è uno dei grandi classici della saggistica statunitense degli ultimi trent’anni, a cominciare da Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace (inizialmente pubblicato su Harper’s Magazine nel 1996 con il titolo “Shipping out”, e uscito in Italia per minimum fax nel 1998). Da allora molti ottimi autori hanno ampliato e diversificato il genere. Di solito sono persone che cavalcano la prima o la seconda onda della giovinezza, e sono pronte ad affilare la loro arguzia contro lo scafo dell’oltraggioso bastimento. Io ho 51 anni, sono vecchio e stanco dopo aver girato mezzo mondo da giornalista di viaggio, e ormai dedico gran parte del mio tempo e della mia scrittura ad alzare le spalle e borbottare “supereremo anche questo” al mio bassotto immaginario. Ma la Icon of the Seas non tollera alzate di spalle. La Icon of the Seas è la Linda Loman delle navi da crociera, richiede attenzioni. E così alla fine di gennaio del 2024, con un unico bagaglio, un inutile giaccone invernale grigio e il mio passaporto, sfreccio nel porto di Miami verso la passerella che mi separerà dalla terraferma nordamericana per più di sette giorni, pronto a ogni evenienza.

La passerella sbuca direttamente su un’animata area commerciale (chiamata imperiosamente Royal Promenade), piena di passeggeri che chiacchierano sotto un soffitto carico di palloncini pronti a essere sganciati. Componenti dell’equipaggio provenienti da ogni angolo del sud del mondo (e, in misura minore, dai Balcani) ci guidano e contemporaneamente ci mettono dei calici di champagne tra le mani. Mi fermo vicino a un affollato Starbucks per tracannarne più che posso, prima di mettermi alla ricerca della mia cabina. Mostro la mia tessera Suite Sky SeaPass (seguiranno spiegazioni dettagliate) a una sorridente signora filippina, che mi dice di andare a poppa. Essendo raramente salito su imbarcazioni più imponenti del traghetto di Staten Island, ho un attimo di esitazione. Mi viene spiegato che la poppa è la parte posteriore della nave, in altre parole il suo sedere. Il naso della nave, a cui tocca il compito di fendere le onde, è anche detto prua. “A mezza nave” c’è la parte in cui si concentrano le aree commerciali. Spero abbiate apprezzato questa lezione di terminologia nautica.

Con l’ascensore raggiungo la mia suite sul ponte 11. E qui m’imbatto nel primo, sgradevole imprevisto. La finestra e il balcone della mia suite non danno sull’oceano ma su un’altra area commerciale, chiamata Central Park, forse in onore dell’angolo di vegetazione ideato da Frederick Law Olmsted nel cuore della mia città, New York. Sulla terraferma sarei felicissimo di avere una suite con vista su Central park. Qui vengo assalito da un profondo sconforto. Prendere il largo e non aprire gli occhi al mattino su una vasta distesa di acqua azzurra? Inconcepibile.

Concedetemi una breve premessa. Questo articolo mi è stato commissionato quando quasi tutte le cabine erano già prenotate. La Icon of the Seas può ospitare fino a 7.600 passeggeri, ma per limitare l’affollamento durante il viaggio inaugurale sono stati venduti cinquemila biglietti. L’entusiasmo tra gli irriducibili del mare era così grande che i posti sono andati subito esauriti. L’Atlantic si è dovuto quindi rassegnare a pagare la sconvolgente somma di diciannovemila dollari (bevande escluse) per offrire al vostro fedelissimo viaggiatore solitario un’intera suite, solo per assicurarvi il privilegio di leggere questo articolo. Una suite senza vista mare! Mi accascio sul letto. Diciannovemila dollari per questo.

Ma la suite senza vista offre anche dei vantaggi: l’accesso alla zona lounge riservata ai passeggeri che hanno una suite; l’accesso all’altrettanto esclusivo ristorante gourmet Coastal Kitchen; l’uso gratuito del Voom Surf & Stream (“l’internet più rapido del mare”) “su un dispositivo a persona per tutta la durata della crociera”; due accappatoi (uno dei quali ha una macchia che ricorda le secrezioni di un anfibio molto verde); l’accesso al Grove Suite Sun, un’area sui ponti 18 e 19 con sdraio e cibo, riservata ai passeggeri delle suite; dei posti omaggio per il Mago di Oz, per uno spettacolo di pattinaggio su ghiaccio ispirato alla tavola periodica e per altre provocazioni simili. Perfino il colore della mia tessera Suite Sky SeaPass – un blu oceano in netto contrasto con lo stucchevole viola riservato alle persone senza suite – susciterà ben presto invidia e ammirazione. Ma anche se il mio rango può essere alto, a bordo c’è chi si colloca molto più in alto di me, e imparerò presto a inchinarmi al suo cospetto.

Primo giorno

Prima di partire mi sono preparato alla possibilità che gli altri passeggeri provengano da un mondo diverso dal mio. Senza voler cadere in stereotipi e preconcetti, diciamo che nei discorsi dei miei compagni di viaggio mi aspettavo di cogliere un’affabile inosservanza di valori moderni come la diversità, l’uguaglianza e l’inclusione. Poiché credo nell’importanza di venire incontro al prossimo, il giorno prima del mio volo per Miami sono andato in quel che resta di Little Italy, a New York, per comprare una maglietta con la famosa scritta “Daddy’s little meatball” (polpettina di papà), fatta con i colori della bandiera italiana. Mia moglie mi aveva consigliato di portare una delle mie tante magliette dei Peanuts, dato che gli americani vanno pazzi per Snoopy e la sua banda di amici. Ma, nella mia ingenuità, mi sono detto che la maglietta a tema polpetta avrebbe funzionato meglio per far partire una conversazione. “E chi sarebbe il tuo ‘papà’?”, mi avrebbero chiesto. “E da quanto tempo sei la sua ‘polpettina’?”. E così via.

Indosso la maglietta a tema polpetta e mi dirigo verso uno dei ristoranti per pranzare. Gonfio il petto per consentire a tutti di leggere l’esilarante scritta, ma devo constatare che, nonostante lo sfavillante tricolore, nessuno ci fa caso. Per essere più precisi, nessuno si accorge di me. Per quanto io mi sforzi di creare una connessione, il mio aspetto (basso, faccia da straniero, senza cappellino con il nome di una squadra di football) non suscita nessuna reazione. Spesso gli altri cominciano a scambiarsi banalità sorvolandomi come se non esistessi. Mi torna in mente il calvario di David Foster Wallace, che si era sentito così ostracizzato dai suoi compagni di crociera da trascorrere gran parte del viaggio ritirato nella sua cabina. E Wallace era una polpetta cresciuta principalmente nel midwest, molto più grossa e dall’aspetto molto più americano di me. Se lui non era riuscito ad attaccare bottone con questa gente, come potrei riuscirci io? E se dovessi scendere da questa nave senza essermi fatto nemmeno un amico, nonostante la mia maglietta? Sono una creatura sociale, e la prospettiva di sette giorni di esclusione e isolamento mi sconforta. Almeno Wallace aveva la cabina con vista sull’oceano, un piccolo assaggio di eternità.

Il peggio mi aspetta nella sala da pranzo, un ambiente spazioso e punteggiato di lampadari dove ho seguito la formazione sulla sicurezza (mi è stato mostrato come indossare un giubbotto salvagente, una procedura tutto sommato semplice). Il responsabile di sala mi spiega educatamente, in un inglese che rasenta un’altra lingua, che non posso entrare. Mi sembra che dica: “Mi scusi, ma questa sala è riservata ai pendejos” (coglioni). Protesto altrettanto educatamente, e lui ripete la stessa frase, con quella parola che comincia con la p e che non riesco a decifrare. Nel frattempo dei passeggeri anziani mi scorrono accanto, alcuni camminando, altri con il deambulatore o in carrozzina elettrica. “Oggi il pranzo è riservato ai pendejos, signore”. “Ma io ho una suite!”, ribatto, mostrando di aver cominciato ad assimilare il sistema di classe in vigore sulla nave. Lui osserva di nuovo la mia tessera. “Sì, ma non è un pendejo”. Vorrei fargli notare che indosso una maglietta a tema polpetta di papà. Io sono la quintessenza del pendejo.

Alla fine cedo e mi dirigo verso il buffet plebeo sul ponte 15. Prima di poter accedere a questo sterminato tripudio di cibo riscaldato, bisogna passare da una postazione di lavaggio che comprende una serie di lavandini, distributori di sapone e il personaggio forse più intrigante dell’intera nave: Mister Washy Washy o, come si legge sulla sua targhetta, Nielbert dalle Filippine. Indossa un costume da taco (in altre occasioni lo vedrò vestito da hamburger) e in un inglese spumeggiante, per non dire abbagliante, si esibisce nella canzone “Washy, washy, wash your hands, WASHY WASHY!”. I rischi legati a un’epidemia di norovirus o covid su una nave di queste dimensioni fanno di Mister Washy Washy un componente essenziale dell’equipaggio (una nave altrettanto gigantesca sarà colpita da un’epidemia di norovirus poco dopo il mio viaggio).

I problemi cominciano quando ci si mette a mangiare. Il buffet è sommerso di piatti ricercati – polpo marinato, uova sode con acciughe, chele di astice – ma il sapore di ogni animale è tragicamente identico, come se il mercato offrisse un’unica creatura, allevata appositamente per i pasti della Royal Caribbean. Le “verdure” non sono meglio. Prendo una fetta di pomodoro e riesco a vederci attraverso. Sa di cellofan. Mangio solo, lontano da coppie e genitori con branchi di ragazzini, mentre We are family riecheggia nella sala.

Non ho ancora precisato che, per tutto questo tempo, la Icon of the Seas è rimasta nel porto. Al tramonto, mentre un sole color mango infuocato rende lo skyline di Miami ancora più apocalittico, la nave scivola via, tra i fuochi d’artificio, verso il mare. Quando è ormai buio, in lontananza davanti a noi vediamo un’altra nave da crociera, illuminata come un circo. La osserviamo con pietà, sapendo che è più piccola della nostra. Sono vicino alla sala buffet, sul ponte 15, che dà su un complesso di piscine (in tutto sono sette), e bevo un cocktail preso a uno dei bar (in tutto sono quindici). Mi sento ancora troppo timido per parlare con qualcuno, anche se le Sister Sledge assicurano che su questa nave siamo tutti un po’ imparentati.

Allontanarsi dalla Florida del governatore Ron DeSantis non porta nessun brivido, nessun principio di “piede marino”, perché la nave è troppo grande per rilevare la presenza di onde, a meno che il vento non crei un po’ di maretta. È il momento di prendere atto della presenza di cinquemila passeggeri intorno a me, anche se loro rifiutano di prendere atto della mia. Per celebrare l’importanza di questo viaggio, i miei compagni di avventura si sono procurati delle magliette personalizzate. Le più semplici hanno la scritta “Primo viaggio della Icon 2024” dietro e il cognome davanti. Altre testimoniano un amore sfegatato per le crociere: “Attenzione! Parlo spesso di crociere”. Altre ancora, più artigianali, sono un omaggio a una vita da sposati trascorsa esplorando il mondo (su una nave da crociera, ovviamente). Una coppia di probabili novantenni indossa una maglietta che dietro ha i disegni di due fenicotteri con attributi maschili e femminili e la scritta: “Marito e moglie – compagni di crociera per sempre – forse non possiamo avere tutto insieme ma insieme abbiamo tutto”. Un vero giornalista, o un conversatore più intrepido, avvicinerebbe la coppia chiedendo di spiegare il rapporto tra la longevità del loro matrimonio e l’amore per le crociere. Invece mi dirigo verso la mia suite, dove mi tolgo la maglietta a tema polpetta e lascio scorrere lente le prime lacrime, cadendo in un breve sonno, umido e salato.

Secondo giorno

Mi sveglio dopo una sbornia colossale. Oddio. Ora ricordo. Possibile che ieri sera sia successo tutto questo? Un nome affiora debolmente dalle ragnatele del mio cervello nauseato. “Ayn Rand”. Cristo santo.

Sulla Icon of the Seas, il 27 gennaio 2024 (The New York Times/Contrasto)

Faccio colazione da solo al Coastal Kitchen. Il caffè è buono e le uova provengono da un volatile. Stamattina la nave ondeggia lievemente: lo sento nelle cosce e nell’uccello, le parti del mio corpo che percepiscono di più il pericolo.

Ieri sera ho avuto una conversazione pericolosa. Con il sole ormai tramontato e a più di cinquanta miglia dalla costa (la maggiore parte delle navi da crociera moderne percorre 23 miglia all’ora), ero a letto che singhiozzavo sommessamente, con le braccia aperte come Gesù in croce, privato del rumore delle onde nella mia suite con vista sull’area commerciale, esposto invece al ronzio dei condizionatori e, attraverso le bocchette dei miei due bagni, alle urla in spagnolo di alcuni bambini. Mi sono detto che la mia passività era inaccettabile. Da immigrato, sentivo il dovere di portare a termine gli incarichi per i quali ero pagato, in quel caso farmi avanti e cercare di capire i miei compagni di crociera. Così ho indossato una normalissima maglietta James Perse e mi sono diretto verso uno dei bar della Royal Promenade. Se la memoria non mi tradisce, lo Schooner bar.

Ho preso posto al bancone per bere un martini e due negroni. Vicino a me era seduto un signore anziano con le braccia grosse e villose, molto silenzioso e simile a Hemingway, mentre un pianista con i dreadlock eseguiva impeccabili cover di Elton John. Alla mia destra una coppia giovane – lui in pantaloncini a fiori, lei con una svolazzante minigonna estiva e uno spaventoso brillante al dito – chiacchierava con una coppia più anziana. “Fallo”, ho intimato a me stesso. “Apri la bocca. Parla! Parla senza che nessuno ti abbia rivolto la parola. Dai il via”. Ho colto un frammento di frase della ragazza, “Cherry Hill”, un quartiere periferico di Filadelfia dove una volta sono andato per una conferenza in una sinagoga. “Mi scusi”, le ho detto garbatamente. “Sbaglio o ha appena parlato di Cherry Hill? È un posto incantevole”.

È uscito fuori che la coppia ora vive a Fort Lauderdale (la quantità di persone originarie della Florida su questa nave mi ha stupito, dato che la stessa Florida del sud sembra una nave da crociera, solo che sta lentamente affondando). Nel giro di poco i due avevano dimenticato i vecchietti e parlavano esclusivamente con me, lui panciuto e con il mento che pareva un uovo sodo, lei slanciata come una delle tante ucraine dell’equipaggio. È stato un momento epocale, come la prima volta in cui osai rivolgermi a uno statunitense nella sua madrelingua, su un autobus nel Queens (“Sul mio piede lei sta, signore”).

“Non per parlare di politica”, ha detto il tizio, “ma cacceranno Biden e al suo posto metteranno Michelle”. Come inizio di conversazione era abbastanza contraddittorio, ma ho deciso di starci. “Quelli come Michelle”, ho ribattuto per tastare il terreno. Il marito ha fatto un’espressione sprezzante, mentre la moglie ha osservato con indulgenza che l’ex first lady è “più presentabile” di Joe Biden. “Cacceranno Biden”, ha ripetuto il marito. “Non sa dire una frase di senso compiuto”.

Una delle piscine della nave, il 27 gennaio 2024 (The New York Times/Contrasto)

Dopo che ho detto di essere uno scrittore – mi sono presentato come autore per la televisione – il marito ha dichiarato che la sua scrittrice preferita era Ayn Rand. “Ayn Rand è arrivata qui senza un soldo”, ha detto. “Io lavoro spesso con i cubani, quindi…”. Mi sono chiesto se fosse il caso di tirar fuori l’informazione che uso di solito per ingraziarmi repubblicani e libertari: lo stato delle mie finanze è migliorato dopo i tagli alle tasse voluti da Trump. Ho preferito ordinare un altro cocktail, seguito a ruota dalla coppia, e ho detto che io e Rand eravamo nati nella stessa città, San Pietroburgo/Leningrado, e che anche la mia famiglia era arrivata qui senza un soldo. A quel punto abbiamo cominciato a legare e a bere sul serio, un giro dopo l’altro. Finché tutto è finito malissimo.

Il mio nuovo amico, che chiamerò Ayn, ha fatto cenno di raggiungerci a un suo amico che era dall’altro lato del bar, e all’improvviso una coppia di giovani interamente coperti di tatuaggi si è materializzata vicino a noi. “Mi prendi per il culo!”, ha esclamato con fare cameratesco l’amico di Ayn passandogli un braccio attorno alle spalle, mentre la sua abbondante compagna si avvicinava lascivamente alla signora Rand. Avevano entrambi un tipo di sguardo in cui non mi ero mai imbattuto sulla terraferma, uno sguardo assente e ostile allo stesso tempo. Negli anni novanta mi ero ritrovato a bere con dei soldati appena tornati dalla Cecenia e a girare per Zagabria in piena guerra, ma non avevo mai incontrato un’ostilità tanto palese nei miei confronti, e forse verso l’intero universo. Sono stato presentato alla coppia di psicopatici, ma nessuno dei due voleva avere nulla a che fare con me. La donna tatuata si è perfino rifiutata di rivelare il suo nome di battesimo (sosteneva di chiamarsi signora Rand). Per far colpo sui suoi amici tatuati, Ayn mi ha sfottuto perché avevo lavorato alla sceneggiatura di Succession (serie che praticamente nessuno sulla nave ha visto) e non sul ben più appassionante, a suo dire, film di zombi uscito l’anno prima. Dopo di che i miei nuovi amici si sono lanciati in una burrascosa conversazione privata – “Mi pigli per il culo!” – e io mi sono ordinato un’altra cosa da bere, terrorizzato dagli ultimi arrivati con i loro occhi spenti, lo sguardo inerte nella fioca luce dello Schooner bar, le loro voci agghiaccianti e le risate cavernose che stridevano come congegni arrugginiti contro la dolce melodia di Goodbye yellow brick road.

Ma oggi io e la mia sbornia siamo pronti a voltare pagina. Dopo la colazione esploro i cosiddetti quartieri della nave. C’è l’AquaDome, con un’area gastronomica e uno spettacolo di luci e suoni acquatici. Central park offre una bisteccheria di alto livello, un sushi bar e un Rolex usato che sulla terraferma trovi a ottomila dollari e qui ti vendono orgogliosamente a diciassettemila. C’è la Royal Promenade, dove avevo bevuto con i Rand e dove due pianoforti duellano fino a tarda notte. Il Surfside, una zona bambini piena di schifezze zuccherate, con vista sulla scia schiumosa che il nostro mastodonte si lascia dietro. Thrill Island – così è chiamato l’intrico di tubi che ingombrano il culo della nave – propone ai passeggeri sei scivoli acquatici e un simulatore di surf. C’è lo Hideaway, uno spazio per adulti con musica in stile club di Alicante anni novanta impiastricciato di vomito e pieno d’inglesi, che riscuote un grande successo presso gruppi di giovani latinoamericani. E – culmine della sofferenza – c’è la zona Suite.

Parlo di sofferenza perché, in quanto occupante di una suite (anche se la mia è lontana dalle altre), è lì che dovrei stare, sugli altolocati ponti 16 e 17. E invece sono intrappolato tra la plebaglia del ponte 11. Passando nel corridoio della zona Suite, do una sbirciatina alle spaziose cabine dal soffitto alto, rimanendo abbagliato dallo scintillio delle onde e del sole. Per 75mila dollari si può avere una suite su più livelli che ha perfino uno scivolo tra due piani, in modo che una famiglia possa vivere privatamente quest’esperienza da brivido. Qui tutto è sontuoso, ma senza ostentazione. Noto che ci sono meno adesivi, cartelli e disegni rispetto alla mia zona (dove invece capita di leggere cose come “Mike e Diana orgogliosamente ex marine”). Qui nessuno ha bisogno di precisare il proprio rango o settore di attività: sono tutti semplicemente Suite, e questo è il loro mondo. Ancora una volta, nonostante il mio impegno e la mia perseveranza, sono respinto dalla vera élite americana. Ancora una volta mi tocca il “non sei dei nostri, caro”. Mi torna in mente quando da piccolo guardavo la serie Love boat sul televisore Zenith di mia nonna, che le era stato regalato o avevamo trovato tra i rifiuti (tendo a confondere i nostri vari, scassatissimi Zenith). Il tubo catodico si scaldava a tal punto che ci appoggiavo dei fazzoletti con sopra dei pezzettini di government cheese (formaggio fuso distribuito nei pacchi alimentari del governo statunitense), rendendo piacevolmente appiccicosa quella nostra leccornia di epoca reaganiana. Il mio inglese non era abbastanza buono da permettermi di cogliere le sfumature di quel programma marinaresco, ma capivo che esistevano differenze di status tra i passeggeri, e che questo a volte li rattristava. Eppure il tipo di nave, l’ abbondanza – qui a ogni angolo ti offrono nachos, frullati o gyros – erano il burroso motore dei miei sogni infantili. Se solo fossi rimasto bambino.

Anche se il mio rango può essere alto, a bordo c’è chi si colloca molto più in alto di me, e imparerò presto a inchinarmi al suo cospetto

Esco a passeggiare sui ponti esterni in cerca di compagnia. Ci sono due afroamericani di mezza età che sembrano sempre dormire l’uno nelle braccia dell’altra, probabilmente sfiancati dal tardo-capitalismo in cui s’imbatttono nella loro vita quotidiana sulla terraferma. Mi aspettavo molta meno diversità su questa nave. Ci sono numerose coppie miste e c’è un grosso gruppo che sfoggia una maglietta con la scritta “Melanina al mare, melanina da amare”. Mi mettono di buon umore, ma poi vedo alcuni ragazzini del gruppo costringere Mister Washy Washy a eseguire una versione crudelmente caricaturale della “Burger dance” (oggi sfoggia la sua tenuta da hamburger) e penso: “Alla faccia dell’intersezionalità”.

Sul ponte 17, intorno alla piscina a sfioro, noto alcune signore di una certa età che potrebbero avere le mie stesse origini. Mi lancio. Ci ho visto giusto! Molte di loro vivevano nel Queens (“Corona era tutta un’altra cosa quando c’erano solo gli italiani”), ma ora si sono trasferite in varie parti di New York, del Connecticut e del New Jersey. Sentendoci complici, commentiamo il modo in cui alla stazione Penn annunciano la fermata “Ron-kom-koma”.

“Siamo tutti qui per ragioni diverse”, mi dice una di loro. Lei e l’ex marito hanno fatto l’ultima crociera insieme quattro anni fa, per provare a loro stessi che il matrimonio era davvero finito. Il figlio quindicenne ha perso la verginità con una “giovane donna irlandese” mentre la nave era ormeggiata a Ravenna. La schiera di attempate viaggiatrici fa a gara per condividere aneddoti e consigli legati alle crociere. “Un tizio ha fatto la sua proposta di matrimonio a Central park” (a quanto pare molte navi della Royal Caribbean hanno un’area comune con questo nome ridicolo) “e lei è corsa via urlando!”. “Se fai parte della classe ‘diamante’, hai diritto a quattro drink omaggio”. “A Bayonne imbarcano passeggeri di un altro tipo” (questa potrebbe essere un’osservazione a sfondo razziale). “A volte, se dai cinque dollari di mancia al cameriere, poi ti offrono un altro drink”.

“Siamo tutti qui per ragioni diverse”, mi ripete la signora che ha concluso il suo matrimonio durante una crociera. “Alcuni sono qui per le ragioni sbagliate: chi beve e chi gioca. Altri per ragioni mediche”. In giro ho visto diverse bombole di ossigeno e almeno una donna alle prese con una chemioterapia pesante. Delle magliette celebrano una buona notizia sull’evoluzione di un tumore. Per qualcuno potrebbe essere l’ultima crociera, o l’ultima settimana di vita. Per queste donne, che hanno trascorso settimane, se non addirittura anni, in mare, la crociera è un rito ma anche un ciclo vitale: primo amore, ultimo amore, matrimonio, divorzio, morte.

Sono stato presentato alla coppia di psicopatici, ma nessuno dei due voleva avere nulla a che fare con me

Ho parlato con loro così a lungo che la sera mi sono ripromesso, dopo una triste cena solitaria, di non cercare compagnia nei bar dell’area commerciale o nella zona per adulti Hideaway. Ho abbastanza materiale per soddisfare i miei obblighi editoriali. Camminando verso la mia suite, m’imbatto nella coppia truce che la sera prima si è portata via Ayn Rand e signora. Gli spettri tatuati mi passano accanto senza degnarmi di uno sguardo. La donna canta qualcosa di violento su tale Stuttering Stanley (il personaggio di un noto film dell’orrore, come scopro grazie al mio internet del mare Voom Surf & Stream), mentre lui va sbraitando di “tutti i soldi che ho perso”, presumo al casinò che si trova nelle viscere della nave.

E così questi schizzati usciti da un romanzo di Cormac McCarthy alloggiano rabbiosamente sul mio stesso ponte. Mentre cerco di prendere sonno tra i lamenti, immagino una miniserie per la Hbo, o qualche altra piattaforma di streaming, in cui varie coppie sinistre complottano per scaraventare in mare un timido intellettuale guastafeste. Butto giù il soggetto sul mio cellulare. Addormentandomi, ripenso alla signora che si è da poco separata dal marito e il cui figlio è diventato un uomo grazie ai buoni uffici della Repubblica d’Irlanda. Mi torna in mente quello che mi ha detto mentre uscivo dalla piscina. “Io sono qui perché sono un’esploratrice. Sono qui per provare qualcosa di nuovo”. E se mi concedessi di credere a questa sua illusione?

Terzo giorno

“Sei partito dal massimo”, mi dicono. Sono venuto al Coastal Kitchen per mangiare uova e fagioli, e il responsabile di sala mi ha infilato tra due coppie. Eccitati dal caffè o forse intrigati dalla mia relativa giovinezza, attaccano bottone. Come tutti, sono sconvolti quando scoprono che sono alla prima crociera. Sulla Icon hanno un giudizio più favorevole che sul resto della flotta della Royal Caribbean. Sottolineano l’efficienza degli ascensori che ci sballottano da un ponte all’altro (come nei palazzi con uffici di grosse aziende, devi indicare a che piano vuoi andare e poi t’indirizzano verso un ascensore in particolare). La coppia alla mia destra è originaria di Palo Alto, California. Lui sostiene di avere un “baffo porno” e chiama la moglie “la mia giaguara” perché ha due anni più di lui. Si definiscono due “Pinnacle da pandemia”.

Il terzo giorno si squarcia il velo. Come mi viene spiegato attraverso una fetta traslucida di melone cantalupo, pinnacles (cima, apice) è il nome dato ai passeggeri che raggiungono l’ultimo livello del programma fedeltà della Royal Caribbean, quelli che hanno viaggiato per settecento insensate notti. Per catapultarsi in questa categoria, alcune persone hanno approfittato dell’offerta due-per-uno per accumulare punti durante la pandemia, quando fare una crociera era un’idea ancora più malsana del solito.

Data l’importanza del viaggio inaugurale della più grande nave da crociera del mondo, sulla Icon ci sono più di duecento Pinnacle, un numero sensazionale. La signora Palo Alto tira fuori un cartellino dorato, che ho visto appuntato su non pochi petti, con la scritta “Crown and anchor society”, seguita dal suo nome. È l’ambito cartellino dei Pinnacle. “Dovresti sentire quante lamentele all’ufficio clienti”, mi dice il marito. A quanto pare, i Pinnacle che non sono anche Suite stanno cercando di sfruttare il loro status per entrare al Coastal Kitchen, il nostro esclusivo ristorante. Anche i Pinnacle devono essere Suite per accedere a fagioli stufati di questo livello.

“Noi siamo dei Pinnacle novellini”, spiega la signora Pinnacle, evocando una lotta di classe intestina all’élite per la conquista di uno status ancora più alto. Ora capisco cosa mi stava dicendo il responsabile di sala il primo giorno della crociera. Non parlava di pendejo ma di pinnacle. La sala ristorante era riservata ai Pinnacle, tutte quelle persone anziane che procedevano come una marea sui loro scooter elettrici.

E capisco anche qualcos’altro: tutto questo è un culto. E come la maggior parte dei culti, non può fare a meno di rispecchiare l’infinita lotta americana per lo status. Proprio come nella setta Nxivm guidata da Keith Raniere, dove i seguaci ricevevano fasce di colori diversi a seconda del loro rango, questa è una gara senza fine tra Pinnacle, Suite, Diamanti e Plebei (per non parlare della tante sottoclassi in ogni categoria). Più viaggi e più sali nella scala sociale. Non a caso una sezione della Royal Promenade ha lo scopo di convincere chi in teoria si sta gustando la crociera a prenotare la prossima. Non a caso, nelle settimane precedenti la mia partenza, la Royal Caribbean mi ha tempestato di email promozionali dai toni accorati (“ULTIMISSIME ORE”). Non a caso la gioielleria della Icon, chiamata Royal Bling, vende un calice d’oro del valore di centomila dollari, il cui acquirente avrà diritto a bere gratis su qualunque crociera della Royal Caribbean per il resto della sua vita (una passeggera si chiedeva se, per il figlio ventottenne, il gioco valesse ancora la candela o se ormai fosse troppo vecchio). Non stupisce che i posti su questa nave fossero esauriti mesi prima della partenza, e che ci sia toccato pagare diciannovemila dollari per un’orrida suite isolata. Non stupisce che, nella mitologia della Royal Caribbean, il sommo eroe sia un tizio chiamato Super Mario, che ha fatto talmente tante crociere da avere una sua scrivania personale su varie navi. Tutta quest’esperienza è un incrocio tra una setta e uno schema nautico-piramidale.

“I bagni sono pazzeschi”, assicurano i signori Palo Alto. “Scarichi una volta ed è fatta”. “La gente non capisce quanto queste navi siano efficienti sul piano energetico”, spiega il marito dell’altra coppia. “Funzionano con il gnl”, il gas naturale liquefatto, il che dovrebbe fare della Icon un toccasana per l’ambiente (un concetto ampiamente contestato, e a volte anche deriso, dagli ambientalisti).

Ma io sto pensando a un’altra linea di attacco mentre infilzo la mia ultima, pallida fetta di melone. Per la mia serie in streaming, un Pinnacle dovrebbe essere fatto fuori da un Plebeo o da un Suite senza vista sull’oceano. Condivido la mia idea con i miei compagni di prima colazione. “Sì, assolutamente, bisognerebbe far fuori un Pinnacle”, concorda il signor Palo Alto, cioè il Pinnacle da pandemia, toccandosi con aria pensierosa il baffo porno mentre la moglie annuisce.

L’area per famiglie Surfside, il 27 gennaio 2024 (Scott McIntyre, The New York Times/Contrasto)

“E vai, fratello, è arrivato il tuo momento!”, esclama Hubert, il gioviale inserviente panamense che si occupa della mia suite, vedendomi uscire in accappatoio. “Rilassati, fratello!”. Sono passato a una nuova strategia di abbigliamento. Invece di provare a fare colpo con la mia collezione di magliette, ho deciso di andare in giro in accappatoio, come si fa nei resort sulla terraferma dotati di spa e hammam degni di questo nome. La reazione dei miei compagni di crociera è entusiasta. “Eccolo con il suo accappatoio!”, esclama il signor Rand quando ci incrociamo al parco acquatico Thrill Island. “Stai vivendo la vita da crociera! Comunque l’altra sera mi hai fatto sbronzare di brutto”. Rido mentre ci salutiamo, ma dentro di me lo imploro: “Vi prego, signori Rand, passiamo più tempo insieme: ho bisogno di compagnia”.

Nel mio accappatoio bianco sono una presenza maestosa, uno sfollato da una serie limitata , un crossover fatto persona (tanto per cominciare, solo i Suite hanno diritto a questi accappatoi). Oggi proverò varie attività tra quelle proposte su queste navi per regalare ai passeggeri una sensazione di moto incessante. Trovandomi a Thrill Island, decido di arrampicarmi (in preda al terrore, perché soffro di vertigini) per una scala fino a quello che sembra l’albero di una nave antica. Voglio provare un’attrazione chiamata “Cacciatori di cicloni”, che fa parte del parco acquatico Category 6, così chiamato in onore di uno dei cicloni che in futuro potrebbero spazzare via l’intero porto di Miami. L’attrazione consiste nel lasciarsi cadere dall’albero attraverso un lungo tubo pieno di acqua e di curve (un po’ come essere la telecamera della propria colonscopia), reggendosi alle maniglie di un tappetino e pregando di non morire. Dal tubo si finisce in una conca d’acqua, in una sorta di battesimo alla Royal Caribbean. L’esperienza mi lascia al tempo stesso afflitto e senza fiato.

Per restare in tema, vado a vedere uno spettacolo all’AquaDome. Sulle note di Live and let die, un uomo imbracato si dimena avanti e indietro nell’aria soffocante. Nei primi anni duemila ho assistito a scene molto simili nelle dark room del noto locale berlinese Berghain. Poco dopo appare un secondo uomo imbracato, che comincia a dimenarsi accanto al primo. Penso tra me e me: “Ora so come va a finire. È il momento del fisting”. Ma lo spettacolo vira rapidamente verso il solito nonsense da film Marvel, pieno di luci e rumore, che non significano nulla. Se c’è del fisting in corso, è probabilmente nella zona Suite, in una cabina contrassegnata dall’immagine di un ananas rovesciato che, a quanto ho capito, sta a indicare una coppia aperta al divertimento. La cosa non fa per me.

Passo allo spettacolo di pattinaggio su ghiaccio, un omaggio – ammesso che ciò sia possibile – alla tavola periodica eseguito con uno stile, uno sfarzo e una precisione che manderebbero in visibilio il dittatore coreano Kim Jong-un, se solo si potesse permettere i talenti della Royal Caribbean. A un certo punto i ballerini cominciano a pattinare sulle note della sigla di Succession. “Visto?”, vorrei dire agli altri Suite (agli eventi “culturali” abbiamo dei posti riservati, lontani dalla plebe) , “Succession! È perfino meglio del film sugli zombi! Aprite la vostra mente”.

Penso tra me e me: “Ora so come va a finire. È il momento del fisting”. Ma lo spettacolo vira presto verso il solito nonsense da film Marvel

Infine vado a vedere lo spettacolo di un comico, in una sala enorme e troppo illuminata, ispirata, a detta della Royal Caribbean, “all’intimità dei comedy club di Manhattan”. Molte battute riguardano le crociere. “Sono vent’anni che vivo sulle navi”, dice un comico di mezza età, “e c’è un limite al numero di omosessuali filippini vestiti da taco che posso vedere”. Fa una pausa mentre il pubblico ride. “Qualcosa mi dice che stasera è la mia ultima sera”, aggiunge. Quindi fa un’imitazione di Trump, poi una di Biden che si addormenta al microfono, scatenando le risate più forti. “C’è qualcuno qui che viene da Fort Leonard Wood?”, chiede un altro comico. Metà sala va in delirio. Prendendo sonno, quella sera faccio un nuovo collegamento, che potrebbe in parte spiegare la diversità presente su questa nave: molti hanno prestato servizio nell’esercito.

Da passeggero coccolato con tanto di suite, comincio a capire cosa vuol dire appartenere a un certo rango e avere qualcuno che te lo ricorda in continuazione. “Ci sono molte macchinette per fare l’espresso”, penso, lasciando vagare lo sguardo nell’immensità del mio alloggio da ufficiale, “ma questa è solo mia”.

Quarto giorno

La mattina dopo, mentre cammino con calma verso il Coastal Kitchen per le mie dosi mattutine e leggermente amare di caffè americano, sono accolto da uno spettacolo sconvolgente oltre le piscine del ponte 17: una città in miniatura ai piedi di una catena di montagne verdi perfettamente allineate. Terra! La nave ha attraccato per una breve pausa a Basseterre, la capitale di Saint Kitts e Nevis. Trangugio in un attimo le mie uova strapazzate per essere tra i primi a sbarcare. Superata la passerella, per poco non bacio la terra. Mi precipito a esplorare le attrazioni di questa città-isola scalcagnata, assaporando curry di molluschi e litri di caffè che non sia di Starbucks. Che meraviglia essere lì dove dio ha voluto che stessero gli esseri umani: sulla terraferma. In fondo non sono né un pesce né un fanatico dei centri commerciali. Il mio ambiente naturale è questo. Basseterre non sarà L’Avana, ma ovunque si scorgono tracce di umano desiderio e umano ingegno. “Il Black Table Grill si è spostato al Soho village, su Market street, proprio dietro al negozio di frutta e fiori di Gary. Firmato: Pork Man”. Ecco, questo è quello che io chiamo un cartello. Uno vero, non quei messaggi adescanti su Rolex esosi che lampeggiano sugli schermi della Royal Promenade.

“Ehi, hai una scarpa slacciata!”, mi avvertono ridendo due signore dall’altro lato della strada.

“Grazie!”, rispondo. Questi lacci! “Grazie mille!”.

Nei giardini di Independence square un signore si avvicina e mi propone di giocare con la sua scimmietta. L’ultima volta che sono stato abbordato con questa frase ero alla Penn station di New York negli anni ottanta. Ma poi il tizio estrae una vera scimmia dalla borsa. La scimmia ha un pannolino e sembra pazza. “Stupendo”, penso, “semplicemente stupendo!”. C’è così tanta vita qui. Scrivo al mio editor chiedendogli se posso rimanere a Saint Kitts lasciando che la Icon salpi verso nuovi orizzonti senza di me. Ho perfino trovato un volo di ritorno per meno di trecento dollari, e ho raccolto abbastanza materiale in questi quattro giorni per scrivere l’articolo. “Potrebbe essere divertente…”, risponde. “Ora sali su quella nave”.

Torno furtivamente a bordo dopo la mia breve evasione, mentre sul molo gli abitanti del posto, da sotto i loro ombrelli, osservano e fotografano la nave che incombe sulla loro piccola capitale. La limousine del primo ministro è parcheggiata accanto alla passerella. Saint Kitts – così mi è stato detto – è tra le poche isole che permettono a navi così grandi di attraccare.

“Abbiamo sentito parlare degli scivoli acquatici”, mi ha detto una giovane e tenera cameriera in un bar. “Ci piacerebbe salire sulla nave, ma dobbiamo lavorare”.

“Io voglio restare sulla vostra isola”, le ho risposto. “È meravigliosa”.

Sulla mia isola, Mannahatta, come la chiamava Walt Whitman, sono una persona interessante che frequenta un affascinante giro artistico

Non capiva come potessi parlare sul serio.

Quinto giorno

“Lava ancor di più / così non puzzi più!”, cantano alcuni bambini davanti all’AquaDome, sotto lo sguardo di disapprovazione degli adulti, forse preoccupati che Mister Washy Washy possa traviarli e condurli verso un futuro di omosessualità. Ho sentito di una coppia del sud degli Stati Uniti che ha rinunciato al buffet per paura di Mister Washy Washy.

Nel frattempo mi sono trovato un nuovo angolino acquatico, lo Swim & Tonic, il più grande bar sull’acqua mai visto su una nave da crociera. Bere accanto ad americani a grandezza naturale e quasi completamente nudi ti fa dimenticare qualunque insicurezza. Gli uomini hanno corpi dalle curve morbide. Le donne sono altrettanto disinvolte nell’esibire il loro fisico debordante.

Oggi ho fatto amicizia con un signore calvo che ha tanti figli. Sostiene che i numerosi omaggi lasciati dalla Royal Caribbean nelle nostre cabine e suite valgono una fortuna su eBay. “Ottanta dollari per una bottiglia d’acqua, sessanta per un cordoncino”, mi dice. “È un culto”.

“Questo è poco ma sicuro”, commento. Eppure c’è una categoria di viaggiatori per i quali la crociera è una scelta ragionevole. Per una famiglia numerosa della classe media (l’uomo lavora nella “grande distribuzione”), sette giorni in una cabina economica (prezzi a partire da 1.800 dollari a persona) vogliono dire mollare i figli al Surfside, dove immagino siano spupazzati da giovani impiegate filippine, mentre i genitori sono liberi di sbronzarsi al bar della piscina e magari perfino trastullarsi in cabina. Per un certo tipo di famiglia lavoratrice, le navi da crociera sono diventate una forma alternativa di assistenza all’infanzia.

C’è un altro tizio con cui vorrei fare amicizia allo Swim & Tonic: alto, pelato e perennemente alticcio, porta una collana fatta di paperelle di plastica con gli occhiali da sole, una sorta di messaggio in codice per gli aficionados delle crociere (così mi è stato detto). Domani mi dedicherò a lui, ma prima c’è il porto di Saint Thomas, nelle isole Vergini americane. La capitale, Charlotte Amalie, non è graziosa come suggerirebbe il nome, ma salto comunque giù dalla nave per spararmi una succosa coda di bue con contorno di banane al celebre Petite Pump Room, sul porto. Da uno dei punti più alti della cittadina, la Icon of the Seas appare più grande delle colline circostanti.

Di solito mi abbronzo senza esagerare, ma lo scombussolamento della vita in mare mi ha fatto trascurare l’applicazione regolare della crema solare. Mentre passeggio per le strade di Charlotte Amalie con il mio berretto fluorescente “Icon of the Seas”, un vecchio rastafari mi lancia uno sguardo sprezzante. “Redneck”, lo sento sibilare.

“No”, vorrei dirgli, toccandomi il collo arrossato con la mano, “non sono affatto un redneck, uno zoticone bianco. Sulla mia isola, Mannahatta, come la chiamava Walt Whitman, sono una persona interessante che frequenta un affascinante giro artistico. Non ho intenzione di usare i Caraibi come discarica per l’industria delle crociere. Sono un grande ammiratore dell’opera di Derek Walcott. Tu non capisci. Io non sono un redneck. O forse lo sono diventato, ma per colpa loro”. E chi sarebbero loro? La Royal Caribbean? I passeggeri? I signori Rand?

“È colpa loro!”.

Quando torno sulla Icon, alcune vecchie matrone parlano a bassa voce di un alterco con dei passeggeri della nave da crociera ormeggiata accanto alla nostra, la Celebrity Apex, della compagnia Celebrity Cruises. Anche se fa parte del gruppo Royal Caribbean, mi viene fatto capire che tra i passeggeri delle due compagnie c’è un conflitto fratricida. “Abbiamo incontrato una donna dell’Apex”, dice una matrona. “Ci ha detto che la nave è piccola e non c’è niente da fare. Aveva la faccia tirata come quella di una diciannovenne, era tutta rifatta”. Su queste parole, sotto un cielo nuvoloso e umido, con i visi segnati e i colli arrossati, salpiamo di nuovo, questa volta diretti – se dio vuole – verso casa.

Sesto giorno

Mancano solo quarantott’ore alla fine della crociera, e i passeggeri della Icon of the Seas ormai sono esperti. Sanno come usare gli ascensori. Conoscono a memoria la canzone di Mister Washy Washy. Hanno capito che il gyros di pollo del Feta mediterranean, all’AquaDome, è il meno problematico dei piatti di pollo proposti su questa nave.

Hanno messo da parte le magliette da crociera e cominciano a manifestare le loro opinioni politiche. Ci sono cappellini che promettono di “rendere di nuovo grande l’America” e magliette che celebrano una frase attribuita da alcuni a Patrick Henry, uno dei protagonisti della rivoluzione americana: “La costituzione non è uno strumento nelle mani del governo per limitare il popolo. È uno strumento nelle mani del popolo per limitare il governo”. Con il loro trionfo di t-shirt a tema famiglia/bandiera/fede/amici/armi, i tavoli alla creperia a volte ricordano le aule del Campidoglio il 6 gennaio 2021. Il vero Anthony Fauci. Bill Gates, Big Pharma e la guerra globale contro la democrazia e la salute pubblica di Robert F. Kennedy Jr (candidato complottista alle elezioni presidenziali) sembra andare per la maggiore, soprattutto tra i giovani uomini che indossano magliette con complicate variazioni della bandiera statunitense. Altre persone tendono a mischiare questioni personali e opinioni politiche. “Qualcuno deve far fuori Washy, siamo d’accordo?”, mi dice nell’ascensore un signore ben vestito, con due occhi grigi che non sprigionano nulla. “Bisogna prenderlo e ammazzarlo di botte. Giusto?”. “Guarda, c’è lo sfigato”, sento un ragazzo bisbigliare alla fidanzata mentre passeggio rilassato con il mio accappatoio bianco. Decido di non usarlo più fino alla fine della crociera.

Vado al Royal Bling per vedere da vicino il calice d’oro da centomila dollari che dà diritto a bere gratis per sempre sulle navi della Royal Caribbean. La commessa serba mi spiega che il calice in realtà è placcato oro e che non è tempestato di diamanti ma di zirconi bianchi, perché altrimenti costerebbe un milione di dollari. “Se uno ha già tutto”, dice, “può prendersi anche questo”.

Un’area giochi sulla nave, il 27 gennaio 2024 (Scott McIntyre, The New York Times/Contrasto)

Penso che chiunque lavori per la Royal Caribbean dovrebbe poter ottenere automaticamente la cittadinanza statunitense. Queste persone parlano inglese meglio della maggior parte dei passeggeri e, come si deduce dalla battuta della commessa serba di cui sopra, capiscono meglio il paese. I membri dell’equipaggio, come l’inserviente panamense che si occupa della mia suite, sembrano lavorare ventiquattr’ore al giorno. Un cameriere di New Delhi mi spiega che il suo contratto dura sei mesi e tre settimane. Quando finisce una crociera, dice, “dopo poche ore ne cominciamo un’altra”. Dopo sei mesi in mare, ha diritto a una pausa di due o tre mesi per tornare dalla famiglia. Secondo un’importante rivista economica, nel 2019 il salario medio dei membri dell’equipaggio era sui ventimila dollari. Royal Caribbean non ha voluto comunicare il salario medio attuale, ma sono certo che equivale a una frazione minima del costo del calice placcato oro e ricoperto di zirconi.

Durante la crociera si tende a dimenticare che sulla nave ci sono dei veri marinai, che hanno l’erculeo compito di farla attraccare. “Pur avendo guidato portaerei da centomila tonnellate durante tutta la mia carriera”, mi scrive l’ammiraglio in pensione James G. Stavridis, ex comandante supremo delle forze alleate della Nato in Europa, “non saprei nemmeno da dove cominciare se dovessi provare a guidare un mostro marino come quello, che è tre volte più grande” (ho conosciuto Stavridis una decina d’anni fa, mentre visitavo alcune basi dell’esercito statunitense in Germania).

Oggi decido di esplorare la vasca idromassaggio vicino allo Swim & Tonic, che sembra essere il punto di ritrovo di alcuni dei personaggi più ubriachi e dissoluti della nave (le altre vasche idromassaggio sono piene di coppie e di famiglie). Come sul resto della Icon, il principale argomento di conversazione è il football, uno sport di cui non so nulla. Evidentemente quattro squadre hanno da poco partecipato a una qualche finale, e ora due di loro si sfideranno per il titolo. Spesso, quando parlo con i passeggeri, ripeto l’ultima cosa che hanno detto aggiungendo una risata o scuotendo la testa con aria incredula: “Esatto, la linea delle venti iarde!”, “Certo, come no, uno scrimmage”.

Poco dopo nella vasca arriva l’ubriacone di mezza età con la collana di paperelle. Porta un cappello da pescatore con la scritta “Hawkeyes”: deduco rapidamente che è il nome di un’altra squadra di foot­ball. “Allora, chi ha fatto la spia?”, chiede Paparella lasciandosi cadere nella vasca. “Stamattina ricevo una chiamata. Era la sicurezza. ‘Può venire in sala da pranzo entro le dieci? Deve stare alla larga dai componenti di questa famiglia religiosa’”. A quanto pare Paperella è stato troppo espansivo con le persone sbagliate. Sulla nave ci sono varie famiglie che si presentano come cristiani evangelici o musulmani praticanti. Evidentemente un padre non aveva apprezzato che Paperella entrasse in contatto con la sua famiglia. “È tutta una roba religiosa. Il tizio si è stranito. Io abbraccio almeno venti persone al giorno”. Risata generale. “Mi hanno chiesto tre volte se mi servivano dei farmaci”, dice, parlando del personale di sicurezza, che a quanto pare lo ha interrogato davanti a gente che stava facendo colazione.

Prima della fine della crociera vado a parlare con Mister Washy Washy, o Nielbert delle Filippine. È un uomo gentile e affabile

Un altro passeggero nella vasca idromassaggio suggerisce che avrebbe dovuto chiedere del fentanyl. Dopo aver bevuto ancora, Paperella attacca a disquisire della possibilità di cadere dalla nave. “Ho 62 anni e sono pronto ad andarmene”, dice. “Ma non vorrei essere mangiato da uno squalo. Sono legato a Dio. Anche alla Bibbia. I maya avevano trovato una teoria per tenere insieme scienza e religione. La vita sulla Terra è molto più di quello che crediamo”. Annuiamo tutti stringendo le nostre birre Red Stripe.

“Non scendo mai quando la nave attracca”, aggiunge. Ci racconta di aver perso seimila dollari al casinò. Più tardi lo cerco su internet e scopro che è un consulente finanziario con l’abito grigio fresco di tintoria, probabilmente un pilastro della sua comunità del nord di Chicago.

Settimo giorno

L’oceano brulica di vita affascinante, ma sulla superficie ha poco da insegnarci. Le onde vanno e vengono. L’orizzonte rimane invariabilmente lontano.

I miei compagni di viaggio continuano a ripetermi che “tutti qui hanno una storia”. Vorrei rispondere che sì, certo, ma ovunque tutti hanno una storia. Anche tu, lettore o lettrice di questo pezzo, hai una storia, eppure non pensi di saltare su una nave da crociera e, come Paperella, sbandierarla al prossimo. Forse quello che intendono è che tutti su questa nave vorrebbero avere una storia più importante, più sensata, più interessante di quella che gli è capitata. Forse è per questo che sulle porte vedo così tanti cartelli che evocano “matrimoni trascorsi in mare”. Forse è per questo che il bollettino della Royal Caribbean infilato sotto la mia porta mi annuncia che “non è solo una settimana di crociera, è un’esperienza di cui vantarsi per una vita intera”. Forse è per questo che sono così solo.

Oggi è un giorno importante per i passeggeri della Icon. La nave attracca a Perfect Day at CocoCay (si chiama proprio così), un’isola delle Bahamas di proprietà della Royal Caribbean. Un comico che si esibiva al night club ha descritto quella che per lui sarebbe una giornata perfetta su CocoCay: farsi fare un pompino e scoprire nello stesso momento che l’ex moglie è morta in un incidente d’auto (risate generali). Ma la realtà sull’isola è molto meno divertente.

Una delle signore che vivono tra New York, il Connecticut e il New Jersey incontrate in piscina mi aveva detto che CocoCay le piaceva perché aveva tutto quello che c’era anche a bordo. È proprio così. L’isola è come la Icon, ma con la sabbia. Gli stessi hamburger tristi, gli stessi tubi colorati che trasportano acqua e bambini da qui a lì. Lo stesso bar sull’acqua nel suo Hideway (140 dollari per l’ingresso, vietato ai bambini). “Per poco non scoppiava una rissa al Mago di Oz”, sento un’anziana signora dire a un’amica stesa su un lettino. A quanto pare uno dei passeggeri si era messo a riprendere la proprietà intellettuale della Royal Caribbean e “tre tizi lo hanno rincorso”.

Prendo un sentiero che porta al centro dell’isola, dove trovo un cartello “Ingresso vietato: l’avventura finisce qui”. Sento un animale che saltella nei cespugli. Vengo rapidamente raggiunto da un impiegato della Royal Caribbean su un’enorme auto da golf, che mi riporta all’Hideaway, dove m’imbatto nella signora Rand in bikini. Verde di rabbia, mi racconta di un alterco avuto giorni prima con una tizia per una storia di sdraio e asciugamani. Noi Suite siamo dei privilegiati: non dobbiamo lasciare la nostra tessera SeaPass per ricevere un asciugamano. Ma i Rand non sono a quel livello. “La gente qui pensa di avere tutti i diritti”, commenta la signora Rand. “È come l’aeroporto, con tutte le sue classi”. “Vedi”, vorrei dirle, “qui è dove l’amore di tuo marito per Ayn Rand si scontra con la crudeltà e gli affronti arbitrari del capitalismo senza freni”. Invece ci mettiamo d’accordo per bere un’ultima cosa la sera allo Schooner bar (mi daranno buca). Di ritorno sulla nave, provo a fare qualche vasca, ma la piscina (la più grande di qualunque altra nave da crociera, ovvio) è cosparsa di detriti dello stile di vita americano: carte di caramelle, fazzoletti, una patatina mezza squagliata. Mi faccio una doccia particolarmente lunga nella mia suite, poi segno il perimetro della nave come fosse un percorso di allenamento, superando le scialuppe di salvataggio con le loro seducenti sagome bianche e gialle. Forse la serie tv a cui sto pensando potrebbe avere un taglio distopico, con accenni a Wall-E e Snowpiercer. In un mondo al collasso, una nave da crociera che ricorda quelle della Royal Caribbean salpa da un porto all’altro, caricando passeggeri e rifornimenti in cambio della preziosa energia che trasporta (la vera Icon usa una nuova tecnologia che trasforma la cacca dei passeggeri nell’energia necessaria per alimentare gli scivoli acquatici; nella serie, questa tecnologia di merda sarebbe ampiamente estesa). Una donna molto giovane (diciotto anni? diciannove?), brillante e solitaria, che ha conosciuto solo la vita sulla nave, cammina lungo il mio stesso percorso, considerando l’ipotesi di gettarsi tra i fiotti spumosi. Mi dico che potrei riciclare le parole di Paperella nella sequenza iniziale dell’episodio pilota. La ragazza cammina con gli occhi fissi sull’orizzonte. Forse è di alto lignaggio – una Suite – e si sente una voce fuori campo: “Ho diciannove anni e sono pronta ad andarmene. Però non vorrei essere mangiata da uno squalo”.

Prima della fine della crociera vado a parlare con Mister Washy Washy, o Nielbert delle Filippine. È un uomo gentile e affabile. Lo ringrazio per il tormentone che mi ha fatto entrare in testa e per averci tenuti al riparo dal tanto temuto norovirus. “Per me è molto importante riuscire a far lavare le mani alle persone”, dice nella sua tenuta da hamburger. Come artista e performer ha un sogno, non particolarmente ambizioso: spera che un giorno potrà vestirsi da fetta di bacon per il turno del mattino.

Epilogo

Il viaggio inaugurale del Titanic (la Icon of the Seas è cinque volte più grande della sventurata nave) offrì almeno ai suoi passeggeri un finale emozionante. Quando mi sveglio, l’ottavo giorno, vedo solo i grigi spettri che abitano nella selva di grattacieli di Miami. Durante il viaggio ho ricevuto messaggi di commiserazione da parte di amici scrittori. Sloane Crosley, che per Vogue ha scritto su una mini-crociera spa di tre giorni, ricorda di essersi sentita “molto sola. L’ho trovata un’esperienza molto dissociante”. Gideon Lewis-Kraus ha scritto su Instagram: “Quando Gary finisce, propongo di far fuori questo genere una volta per tutte”.

Ha ragione. Per dirla (male) con Adorno: dopo questo, non è più possibile scrivere di crociere. È ingiusto mettere un essere pensante su una nave da crociera. Gli scrittori in genere hanno avuto un’infanzia difficile, ed è crudele ricordargli l’intrinseca solitudine che li ha spinti a darsi alla scrittura. Inoltre è sconveniente scrivere delle persone che fanno le crociere. Il nostro paese non offre ai suoi cittadini l’educazione e l’istruzione necessarie per sviluppare una vita interiore. Per la classe creativa, prendere di mira i grossi e formosi individui che vanno alla deriva dentro piscine tappezzate di patatine è come raccogliere senza sforzi un frutto molto acerbo.

Un paio di giorni prima di sbarcare, ho pensato di uscire sul mio balcone. Fin lì avevo evitato, temendo che la vista mi avrebbe fatto sentire ancora più depresso. Invece mi ha sconvolto. La mia suite in realtà non dava su Central park. Per tutto il tempo avevo vissuto nella Disneyland della nave, Surfside, la zona piena di marmocchi urlanti con la bocca piena di caramelle e milkshake. E, sporgendomi dal balcone, sono riuscito a scorgere uno spicchio di mare e spuma che pensavo mi fosse precluso. Era sempre stato lì. Il mare si stendeva, verdeazzurro, schiumoso e infinito, sotto l’ala di un gabbiano. E pur essendo stato malamente calpestato dalla nave da crociera più grande del mondo, era ancora lì. ◆ fs

Gary Shteyngart è giornalista, scrittore satirico e sceneggiatore. Nato a Leningrado nel 1972, vive negli Stati Uniti dal 1979. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La casa sulla collina (Guanda 2022).

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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati