Nell’estate del 2012, mentre prendeva un taxi all’aeroporto di Firenze, Emmanuel Carrère era preoccupato. Pensava al libro che doveva finire, un’indagine intima sugli inizi della cristianità a cui lavorava da anni. E in particolare a questo esordio nel campo autobiografico che gli dava tanti problemi. Un conto è parlare di sé quando si fa il ritratto del nonno o del vecchio amico Ėduard Limonov, lo scrittore russo, e un altro è farlo riprendendo la storia dei primi apostoli di Gesù, nati più di venti secoli fa. Una sfida decisamente più complicata.
Nel frattempo il taxi era entrato a Donnini, una frazione nel comune di Reggello, in provincia di Firenze, che ha le facciate delle case color ocra e un caffè deserto. Attraverso il finestrino Carrère osservava gli stretti tornanti che lo avrebbero portato alla fondazione Santa Maddalena. Era la prima volta che l’autore di Un romanzo russo (Adelphi, 2018) si isolava in una residenza di scrittori, e questa prospettiva era un’altra fonte di preoccupazione. Il suo amico e scrittore statunitense Edmund White gli aveva rivelato il nome di questo luogo come si confida un segreto: “Emmanuel, dovresti andarci”. Prima di lui il premio Pulitzer Michael Cunningham, autore di Le ore (Bompiani, 2001), la scrittrice Zadie Smith e molti altri erano rimasti piacevolmente sorpresi dal loro soggiorno toscano.
Sulla proprietaria, Beatrice Monti della Corte von Rezzori, gli erano arrivate le voci più diverse. La baronessa aveva avuto una vita molto avventurosa, ma era anche di carattere difficile. Aveva sentito diversi racconti di scrittori che avevano fatto le valigie dopo pochi giorni, colti di sorpresa dall’improvvisa indifferenza o dai duri commenti della padrona di casa.
Il taxi era arrivato a destinazione. Carrère aveva trascinato la sua valigia verso la ex casa colonica con la facciata coperta di edera. Era stato subito portato nella sua camera in fondo al giardino. La baronessa era seduta all’aperto con il suo cane Giulietta, un griffone, che aveva subito eletto Carrère a suo preferito leccandogli la mano. Nei giorni successivi Carrère non ci ha messo molto per sentirsi come a casa. Era affascinato dalla compagnia di Beatrice Monti. Gli piaceva moltissimo ascoltarla raccontare dei suoi viaggi in Etiopia con lo scrittore Curzio Malaparte quando aveva dieci anni o come il poeta Henri Michaux le facesse la corte quando era una giovane gallerista a Milano. E poi il lavoro era andato più veloce del previsto. “Alla fine del soggiorno la prima parte di Il regno (Adelphi 2016) era stata scritta”, racconta oggi Carrère.
Al servizio della scrittura
Da questo primo soggiorno sono passati dodici anni e lo scrittore francese è tornato molte volte a lavorare alla fondazione, diventando amico intimo di Beatrice Monti. “Non solo ha conosciuto molte persone interessanti, lei stessa lo è”, spiega lo scrittore. Quando ho parlato con Carrère, alla fine di aprile, aveva appena trascorso una decina di giorni in questa residenza di scrittori per finire il suo prossimo libro, ambientato in Russia e in Georgia, dove è nata parte della sua famiglia.
Come ogni volta, ci ha lavorato “due volte di più e due volte meglio”, dice Carrère con la sua voce così particolare, calda e graffiante. Santa Maddalena è un po’ più di un semplice falansterio segreto dei migliori scrittori mondiali, è una fonte di ispirazione, un acceleratore di particelle, il fluido che permette la combustione letteraria.
In Storia di un romanzo (Fazi, 1997), breve e bellissimo racconto sulle difficoltà della creazione, lo scrittore statunitense Thomas Wolfe afferma che non esiste un buon posto per scrivere. La ricerca di questo eden è solo un abbaglio, una scusa di fronte alla necessità “di separarsi da se stessi” sulla pagina. Cosa ne pensa Beatrice Monti, che ha fondato nel 2000 la più originale e ambita residenza di scrittori?
La “baronessa”, come tutti la chiamano qui, ci offre il caffè nel salone al primo piano. Si allaccia l’ultimo bottone di una giacca di velluto a coste. Un domestico rimette un pezzo di legna nel camino. Questo inizio di primavera toscana è freddo e incostante, è “un aprile pazzo”.
Alla domanda su cosa cercano qui gli autori, esita un istante, evoca l’assenza di vincoli materiali o logistici, i due pasti al giorno serviti a ora fissa. “Mi fa piacere essere al servizio della scrittura”, dice in un eccellente francese. Scruta gli interlocutori con i suoi occhi verdi e uno sguardo acuto che mette soggezione. Poi, dopo una breve pausa, continua: “Molti scrittori mi dicono di aver superato i loro blocchi creativi proprio venendo qui. Questo è probabilmente dovuto a qualcosa nell’aria”.
Il luogo merita di essere visitato. A 98 anni la baronessa si sposta con difficoltà e sempre con il suo bastone. Così è il suo amico, il traduttore cubano José Aníbal Campos, a guidarci nel giro della casa. Lui stesso viene qui regolarmente: “Un’idea vaga nella mia testa diventa chiara non appena varco la soglia di questa casa”. Lungo un corridoio si passa davanti a una serie di manifesti di mostre disegnati da artisti come David Hockney o Alexander Calder.
Sono i ricordi di un’epoca in cui Beatrice Monti gestiva una sfavillante galleria a Milano ed esponeva i pittori dell’avanguardia americana, da Robert Rauschenberg a Jasper Johns, da Cy Twombly a Mark Rothko. Beatrice Monti era amica intima di Leo Castelli, il collezionista morto nel 1999 che ha fatto conoscere una nuova generazione di artisti statunitensi.
La visita continua, facciamo una seconda sosta davanti al bagno della padrona di casa, che si affaccia sulla sua camera. Un dettaglio commovente: due vasche da bagno una accanto all’altra. La casa, infatti, prima di diventare una residenza di artisti, era stata un nido d’amore. Qui Beatrice Monti ha vissuto a lungo con lo scrittore austriaco Gregor von Rezzori. I suoi libri sono ovunque e il suo studio è rimasto intatto dopo la morte nel 1998.
Beatrice e Gregor s’incontrarono a una festa sul lago di Garda verso la metà degli anni sessanta. Rezzori, che aveva vent’anni in più della baronessa, era appena tornato dal Messico dove aveva recitato in un film di Louis Malle con Brigitte Bardot, Viva Maria!
Con Grisha, come era chiamato, un dandy famoso per la sua collezione di scarpe, è stato subito amore a prima vista. Al loro matrimonio, nel 1967, tra gli invitati c’era anche Salvador Dalí.
Una mecenate
Bisogna attraversare il giardino per arrivare a un torrione del trecento che ospita diverse camere e studi per i pochi eletti ammessi a lavorare alla fondazione. Visitandone una l’occhio cade su una tela di Joan Miró, appesa con semplicità sopra un termosifone come se fosse un poster dell’Ikea. Poco più lontano ecco un disegno di Alberto Giacometti.
Il resto dell’arredamento è in sintonia con la casa, un insieme di opere d’arte e di oggetti raccolti nel corso dei viaggi: maschere africane, tappeti catalani o un sottosella di dromedario usato come tavolo basso nel salone.
Beatrice Monti può contare sul parere dei suoi amici, il regista Pedro Almodóvar, l’attrice Isabella Rossellini o l’attore e regista Ralph Fiennes
In casa aleggia un odore al tempo stesso rustico e fresco, si sente la vecchia carta da parati, il letto che cigola e l’aria pulita. Internet c’è da poco e la rete telefonica è capricciosa. L’impressione di isolamento è quasi totale. Il tempo sembra essersi fermato alla fine degli anni sessanta, quando Beatrice e Grisha avevano messo gli occhi su questa casa colonica in rovina, che dei contadini del posto avevano abbandonato per trasferirsi in città. Uno dei loro amici aveva una casa non lontano, che oggi appartiene al cantante Sting.
Ma l’anima di questo posto è lei, Beatrice Monti, diventata per molti una nuova Peggy Guggenheim, grande mecenate e gallerista dei surrealisti. “Questa donna ha un’aura incredibile, una presenza nel senso spirituale del termine”, si entusiasma lo scrittore franco-afgano Atiq Rahimi, premio Goncourt del 2008 con Pietra di pazienza (Einaudi, 2009), un altro fedele ospite della fondazione. Nella baronessa lo scrittore vede un incrocio tra una “grande dama del rinascimento fiorentino, per il suo modo di promuovere e di proteggere gli artisti ospitandoli nella sua corte”, e “una donna illuminista per la sua libertà di pensiero”.
Il primo soggiorno di Rahimi risale all’inizio del 2003. Come Carrère, era arrivato alla fondazione in pieno tormento intellettuale. Era appena tornato dall’Afghanistan, dov’è nato, e dopo diciotto anni di esilio aveva trovato un paese devastato e impoverito. Era rientrato in Francia “deluso e depresso”. Faceva fatica a trovare le parole per raccontare quello che aveva visto. Durante il loro primo pranzo, mentre stava per raccontare quel viaggio difficile, Beatrice Monti si era alzata per cercare un album di fotografie di uno dei suoi viaggi in Afghanistan fatti negli anni sessanta. La donna si era soffermata con piacere su una foto in bianco e nero di un levriero.
Rahimi aveva sospirato: “Questo cane è bello ma stupido, è di una pigrizia incredibile”. La risposta della baronessa era stata fulminea: “Questo cane ha il diritto di essere stupido perché ha l’intelligenza di essere bello!”. Come farebbe una psicoanalista per animare una seduta, Beatrice Monti aveva colto nel segno. “Di colpo dentro di me tutto si è chiarito”, ricorda Rahimi, che ripete questa frase come un mantra. Di fatto quel primo soggiorno a Santa Maddalena l’ha aiutato a “riconciliarsi con l’Afghanistan” e a finire il suo libro, dice oggi lo scrittore.
Grande lettrice
Torno nel salotto al primo piano dove c’è Rosina, il carlino preferito di Beatrice Monti, che russa sonoramente con il muso incollato alla gamba della sua padrona. Gli animali da compagnia sono l’altro grande interesse della sua vita: il giardino è pieno di pietre tombali dove sono sepolti i cani e i gatti importanti.
Beatrice Monti racconta come ha trasformato questa casa in rifugio di artisti. Nata in una colta famiglia aristocratica, è cresciuta a Capri, dove è tornata spesso. Fin da giovane è stata amica di Alberto Moravia e di Elsa Morante. “Ho sempre visto gli scrittori come degli esseri superiori che incarnano la libertà e la curiosità”, dice. Lei non ha mai voluto scrivere, ma ha sempre avuto come principale ambizione quella di “non annoiarsi”. E i primi anni a Donnini sono stati allegri e vivaci. “Grisha era molto ospitale, c’erano sempre colleghi scrittori che volevano scappare da una famiglia troppo rumorosa”, racconta.
Nel 1982, stanca dei suoi viaggi tra Milano e Donnini, Beatrice Monti ha chiuso la galleria. Tanto più che la coppia passava metà del suo tempo a New York, dove possiede un piccolo appartamento al 63 di Madison avenue. L’amicizia di Beatrice Monti con il responsabile del gruppo editoriale Condé Nast, Alexander Liberman, le aveva permesso di lavorare all’edizione statunitense di Vanity Fair; con cui ha collaborato facendo pubblicare artisti come Cy Twombly e Robert Rauschenberg.
Nel 1998 Gregor von Rezzori ha avuto un malore durante un pranzo con sua moglie. È morto qualche giorno dopo. Beatrice Monti non ha figli. Il lutto l’ha conosciuto molto presto: sua madre, una principessa armena, era morta di tifo quando lei aveva sei anni. All’epoca si era consolata leggendo “tutti i grandi russi in inglese” e accompagnando suo padre, responsabile degli affari culturali in Etiopia per lo stato italiano, nei suoi viaggi in quella che all’epoca era una colonia. “Non diventare una vedova triste”, le aveva ordinato suo marito prima di morire.
Così ha deciso di superare la morte di Grisha, le cui ceneri riposano in una piramide in fondo al giardino, continuando a vivere circondata da scrittori. E molto presto è nata l’idea di una fondazione. Il luogo, gratuito per gli scrittori, è interamente finanziato dalla baronessa. “Appena ho bisogno di denaro, vendo un quadro”, dice la donna. Per essere invitati non bisogna riempire un formulario o sedurre una giuria. Lei, grande lettrice, sceglie personalmente i suoi invitati. Alcuni autori, le sue “guardie del corpo” come dice Carrère che ne fa parte (insieme a Colm Tóibín, Zadie Smith, Edmund White e Maylis de Kerangal), sono sempre i benvenuti. Gli basta chiamare e chiederle: “Hai un posto libero per me?”.
Per gli altri Beatrice Monti può contare sul parere dei suoi amici, il regista Pedro Almodóvar, l’attrice Isabella Rossellini o l’attore e regista Ralph Fiennes, che ha interpretato diverse scene del film Il paziente inglese, del regista Anthony Minghella, nei giardini della fondazione. Di fatto Beatrice Monti resiste raramente a un po’ di name-dropping (nominare come per caso persone importanti con cui si dà a intendere di essere in rapporti d’amicizia): “I lettori penseranno che sono un’orribile snob”, dice arrossendo. “Mi sono abituata presto a circondarmi di persone di qualità, e alla qualità ci si abitua”. Il New York Times ritiene che un soggiorno presso la fondazione Santa Maddalena sia di buono augurio per vincere un Man Booker Prize, un Nobel o un Goncourt.
La stanza di Bruce Chatwin
Beatrice Monti sceglie il suo cast con attenzione, cercando possibili affinità, mescolando grandi nomi e giovani autori promettenti. Così la scrittrice e giornalista Isabelle Mayault è venuta qui per scrivere nell’inverno 2019, spinta dalla sua editor presso Gallimard, Maylis de Kerangal. Al suo arrivo le era stata assegnata la camera rosa, che era stata a lungo dello scrittore di viaggi Bruce Chatwin. “All’inizio del mio soggiorno ho passato diverse notti in bianco”, ricorda Mayault. “Porte che sbattevano, apparizioni, era la prima volta che da adulta facevo un’esperienza paranormale così intensa”.
Dopo qualche giorno la scrittrice ha chiesto di poter cambiare camera. Ma la richiesta è stata accolta freddamente. “Solo dopo ho capito che si trattava della camera regina e che era un onore avermela assegnata”, sorride la donna. Alla fine è riuscita discretamente a spostarsi nella stanza al piano di sopra “che non era abitata da fantasmi”. Ma Isabelle Mayault ha continuato a sentire le grida delle civette nel bosco che la facevano rabbrividire. Di fatto l’atmosfera le ha ispirato la prima scena del secondo romanzo La chouette d’or (Gallimard 2023), che comincia con l’apparizione di un fantasma. “In seguito mi sono detta che non solo la camera rosa era abitata da fantasmi, ma che Santa Maddalena era riuscita addirittura a mettere dei fantasmi nel mio libro!”.
L’ultima particolarità del luogo sta nella sua assoluta assenza di vincoli per gli ospiti. Nessun libro deve essere terminato alla fine del soggiorno, nessun lavoro deve essere presentato, come quasi sempre avviene nelle residenze d’artista. Del resto Beatrice Monti ha il buon gusto di non citare alcun libro che potrebbe essere stato scritto qui. “Un libro ha sempre diverse nascite”, dice carinamente. E si accontenta di accompagnare la scrittura con pazienza e fiducia, come farebbe una brava editor. “A parte essere gentili, puliti e di apprezzare il luogo, ai miei ospiti non chiedo altro”, sintetizza.
Gli ospiti sono invitati a partecipare ai due pasti. Dolci profumi di pasta alla norma, con melanzane e ricotta, salgono regolarmente dalla cucina, dove lavora Rasika, la cuoca srilanchese. Le pietanze servite sono semplici ma deliziose: pasta alle verdure, insalate, frutta, tutto accompagnato da un po’ di vino. Non siamo molto lontani dall’immagine stereotipata della parentesi italiana di Chiamami col tuo nome, il film di Luca Guadagnino sul primo amore estivo di un adolescente interpretato da Timothée Chalamet: cosmopolitismo, erudizione, piatti semplici e saporiti serviti su una terrazza ombreggiata.
A tavola Beatrice Monti rivela il suo talento oratorio passando da una conversazione in francese sull’Iliade e l’Odissea, all’articolo di una rivista in inglese sugli ultimi pettegolezzi del mondo editoriale statunitense. La donna parla così come scrivono i bravi autori: mai uno stereotipo o una banalità. Le battute sono numerose, comprese quelle più cattive. In un lungo ritratto pubblicato nel 2006 il New York Magazine dice che ha una lingua molto velenosa, capace di criticare sia Juliette Binoche (“un’attrice francese viziata e per niente simpatica”) sia Salman Rushdie (“che non ha scritto niente di importante dopo I figli della mezzanotte”).
Oggi il pranzo è in compagnia del traduttore cubano José Aníbal Campos e dello scrittore inglese Andrew Miller, che è già al suo quarto soggiorno qui. “La pura bellezza di Santa Maddalena è qualcosa alla quale non ci si abitua mai veramente”, scriveva alla fine del suo primo soggiorno nel 2007. “Una forza sensuale che a poco a poco scorre nel vostro sangue e riesce ineluttabilmente a farsi strada nel vostro lavoro”.
Un passo alla volta
In questa atmosfera molto libera che riunisce tante menti brillanti esiste però un argomento quasi tabù, quello del futuro della fondazione dopo la morte di Beatrice Monti, ben presto centenaria. “Conto sulla fortuna”, elude la questione la diretta interessata. “Ho sempre fatto il primo passo, e poi è arrivato il secondo”, continua senza argomentare la baronessa, che ammette però che sarebbe molto contenta di vedere Zadie Smith, “che è come una figlia per me”, alla presidenza di Santa Maddalena.
Nel frattempo all’esterno le gru e gli operai sono al lavoro, impegnati a costruire una grande “biblioteca nel bosco”, come Beatrice Monti chiama questo progetto concepito da Pietro Cicognani, architetto italiano che vive a New York. Oltre a una sala conferenze e a tre nuove camere, l’edificio di quattrocento metri quadrati dovrà ospitare su tre piani tutti i libri degli autori passati per la fondazione. E testimoniare per molto tempo ancora la vitalità letteraria di questo luogo. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati