È incredibile tutto quello che si può proiettare su una vittoria sportiva. Era il 1 agosto 2024 al Parco delle esposizioni di Villepinte quando Imane Khelif ha sferrato un diretto sul naso della sua avversaria italiana, Angela Carini, che si è ritirata dall’incontro dopo appena quarantasei secondi di combattimento. La pugile algerina di 25 anni si è così qualificata ai quarti di finale dei giochi olimpici di Parigi. La storia avrebbe potuto finire lì se Angela Carini, in lacrime, non avesse evocato dal ring una vittoria “ingiusta”, dando risonanza a una voce insistente nata un anno prima, secondo la quale Khelif non sarebbe una donna a tutti gli effetti.

Nei minuti successivi sui social network è nata una grande polemica. La presidente del consiglio italiana, Giorgia Meloni, si è scagliata su X contro una “gara che non era ad armi pari”, indignata che delle atlete con “caratteristiche maschili” siano autorizzate a partecipare alle gare femminili. Dall’imprenditore Elon Musk alla scrittrice J.K. Rowling, i nemici dell’ideologia woke hanno denunciato un combattimento truccato dalla “transgender” Imane Khelif. Il caso è entrato anche nella campagna elettorale statunitense, quando Donald Trump ha scritto sulla sua piattaforma Truth: “Terrò gli uomini fuori dallo sport femminile!”. In seguito a quell’incontro diversi giornalisti sono stati inviati a Biban Mesbah, il villaggio nel nordovest dell’Algeria dove è cresciuta l’atleta. Chiedevano a suo padre, un saldatore disoccupato di 49 anni, di mostrare il certificato di nascita e le foto d’infanzia della figlia. Le associazioni lgbt sono insorte, ma per molto tempo si è continuato a speculare sul presunto iperandrogenismo della pugile. Khelif è diventata, suo malgrado, il catalizzatore di tutte le fantasie che ruotano intorno al genere. Ma il 9 agosto, nella finale della categoria sotto i 66 chili, ha dimostrato ai detrattori di essere prima di tutto una campionessa: ha vinto la medaglia d’oro ed è diventata un orgoglio nazionale in Algeria, prima pugile africana a conquistare un oro olimpico.

Imane Khelif a Parigi, in Francia, il 10 agosto 2024 (Annice Lyn, Anoc/Getty)

Alla fine di ottobre ho preso un appuntamento con l’atleta. Il suo entourage mi ha avvertito: non ama molto le interviste. E mi ha spiegato: “Imane parla soprattutto la lingua della boxe”. Manager e agenti del resto non vedono la necessità di spingerla a una maggiore introspezione. Stava per firmare dei contratti importanti con marchi del lusso e dell’audiovisivo.

Il suo aspetto gender fluid ispira gli stilisti. Così, il direttore artistico di Bottega Veneta Matthieu Blazy, che vede in lei una “campionessa di determinazione e autenticità”, l’ha invitata in prima fila alla sua sfilata in occasione della settimana della moda di Milano a settembre, facendola sedere accanto all’attrice Julianne Moore. Ed è stata anche immortalata sulla copertina della rivista Vogue Arabia, secondo la quale incarna una “nuova era della bellezza”. La sua ascesa sarà raccontata anche da una docuserie per una grande piattaforma di streaming. Per tutti questi motivi, i suoi rapporti con i mezzi d’informazione rimangono delicati. Meglio evitare che una dichiarazione maldestra offuschi la “fiaba” di Imane Khelif.

Acqua passata

In una mattina d’autunno Khelif scende al bar del suo albergo a cinque stelle sugli Champs Elysées con un’ora di ritardo. Ha dimenticato l’appuntamento e si è appena svegliata. Evito di chiederle se questo ritardo tradisce la sua mancanza d’entusiasmo: giaccone scuro e un’aria di sfida nello sguardo, incute una certa soggezione. Parla una mescolanza di darija algerino e di arabo classico, intervallati qua e là da parole in francese. Ordina un pain choco (pain au chocolat), come chiamano questo prodotto da forno nelle regioni occidentali dell’Algeria.

Non si tira indietro quando le chiedo della “polemica basata sul nulla” che l’ha resa famosa al livello globale e ad agosto l’ha spinta a denunciare “cibermolestie aggravate”, facendo aprire un’inchiesta al centro nazionale per la lotta all’odio online della procura di Parigi. La violenza scatenata all’epoca da celebrità e centinaia di persone anonime le sembra acqua passata.

“Persone come Donald Trump o Elon Musk non mi conoscono, non più di quanto io conosca loro”, dice con voce tranquilla. “Sulla base d’informazioni non verificate hanno attaccato una ragazza che era lì solo per realizzare il suo sogno”.

Nei paesi occidentali è diventata suo malgrado un’icona del diritto alla diversità, anche se nel suo paese la legge è ostile alle persone lgbt

Khelif è abituata agli insulti e alle occhiatacce. Non era la prima volta che la attaccavano per la sua presunta mancanza di femminilità. “Ho subìto vessazioni fin da piccola”, confida. “Da bambina mi rimproveravano di essere troppo muscolosa o di camminare come un ragazzo. Questi commenti sono sempre stati presenti nella mia vita, in modo più o meno violento”.

Non è facile essere fuori dagli schemi se cresci a Biban Mesbah, un paese rurale di seimila abitanti. Khelif è la maggiore di sei figli. Suo padre faceva il pastore e la madre era disoccupata. Lei eccelleva negli sport. Voleva fare la calciatrice, era più brava perfino dei ragazzi del posto. Non avrebbe probabilmente mai indossato i guantoni se la boxe femminile non fosse entrata nel programma delle Olimpiadi di Londra nel 2012. Nel 2015 le autorità algerine cercavano di creare una squadra nazionale. Lei aveva solo sedici anni. La sua ruvidezza sui campi di calcio fu notata da Mohamed Chaoua, allenatore del club di boxe della protezione civile di Tiaret, principale città della regione. Chaoua la invitò a unirsi alla squadra che stava mettendo in piedi.

Khelif non era sicura di voler fare pugilato. In quella occasione il suo allenatore le anticipò dei soldi – circa diecimila dinari algerini, l’equivalente di cento euro – per compilare il modulo d’iscrizione. Ma l’a­tleta s’intascò la somma e sparì. Poi cambiò idea e cominciò ad allenarsi. “Dopo essere entrata nella squadra di boxe, il mio desiderio di fare questo sport è cresciuto di giorno in giorno. Mi svegliavo ogni mattina felice e dicevo a me stessa: ‘Sono una pugile, mi alleno per essere una pugile’”.

Pane e rottami

Biban Mesbah si trova a una decina di chilometri da Tiaret, dove si tenevano gli allenamenti. Anche se erano gratuiti, Khelif non aveva i soldi per spostarsi ogni giorno e comprare guanti e abbigliamento. Così cominciò a raccogliere rottami, rame e plastica per venderli in paese. “Per avere un po’ di soldi vendevo perfino il pane a bordo strada”, dice. Ancora una volta, la ragazza si scontrò con i pregiudizi degli abitanti di Biban Mesbah. “La gente cercava di convincere mio padre a non farmi allenare”, racconta. “Gli facevano notare che sua figlia tornava a casa la sera tardi, che una ragazza che fa boxe è una cosa contraria ai costumi algerini”.

La famiglia, però, la sosteneva. Perché Khelif aveva talento e in Algeria collezionava vittorie. Nel 2019 è stata scelta per rappresentare il paese ai mondiali in Russia, dove si è classificata al 33° posto. Nella nazionale algerina con le sue braccia così lunghe Khelif stonava un po’, e la chiamavamo “l’elastico”. “Era la migliore, ha dato un nuovo respiro alla nazionale”, dice la sua amica pugile Roumaysa Boualem, che la descrive come una donna “timida, spiritosa e un po’ ingenua, ancora con un cuore da bambina”.

Candida, e a volte con la testa tra le nuvole. Nel 2020 Khelif si è persa nella foresta di Tikjda, in Cabilia, durante una corsa con le sue compagne di squadra. Per cercarla sono stati mobilitati trecento tra militari, gendarmi e vigili del fuoco. Dopo una notte passata tra sciacalli e scimmie, è stata ritrovata da un pastore.

Niente sembrava in grado di fermare la sua ascesa. Alle Olimpiadi di Tokyo del 2021 si è piazzata al quinto posto e l’anno successivo ha portato a casa la medaglia d’argento dei mondiali femminili di boxe amatoriale a Istanbul. In Algeria la sua fama è andata alle stelle quando nel 2022 ha vinto i Giochi del Mediterraneo nella sua terra, a Orano.

Da allora lavora con Nasser Yefsah, direttore sportivo del club Nice Azur Boxe, che ha cominciato a progettare per lei l’obiettivo Olimpiadi di Parigi. Nasser Yefsah ha circondato la ragazza di un team composto da un nutrizionista, un preparatore atletico e un famoso allenatore cubano-statunitense, Pedro Diaz. Per gli allenamenti la pugile passava la sua vita tra Nizza, Miami (dove vive Pedro Diaz) e Las Vegas.

Tutto sembrava pronto per il sogno olimpico. L’oro era diventato la sua ossessione. “Pedro mi ripeteva fin da quando mi svegliavo: ‘Gold medal! Gold medal! Gold medal!’”. Nel 2023 la pugile ha partecipato ai mondiali a New Delhi, dov’è arrivata in finale. La gara era organizzata dalla International boxing association (Iba), un organismo in declino da quando il Comitato olimpico internazionale (Cio) gli ha sottratto l’organizzazione dei tornei di boxe alle olimpiadi di Tokyo e di Parigi a causa di alcuni scandali e sospetti di corruzione.

Test di femminilità

Imane Khelif era nella sua stanza d’albergo quando un responsabile della federazione internazionale le ha chiesto di scendere per firmare un documento in inglese. È stato così che Khelif ha scoperto di essere stata squalificata a causa di alcuni misteriosi test realizzati dall’Iba. “Nessuno ha capito cosa stava succedendo: l’Iba ci diceva che lei non aveva diritto di salire sul ring, ma rifiutava di comunicarci i risultati dei test”, ricorda Yefsah. “Imane è nata e cresciuta donna, non capiva cosa stava succedendo”. In seguito, nel marzo 2023, il presidente dell’Iba, Umar Kremlev, vicino a Vladimir Putin, ha dichiarato all’agenzia di stampa russa Tass che la pugile si era “spacciata per donna”.

Al centro della questione c’era l’uso dell’Iba di “test di femminilità” molto controversi. Ufficialmente abbandonati dal Cio per i giochi di Sydney del 2000, questi test sono ancora accettati da alcune federazioni sportive. Sviluppati negli anni sessanta, in origine miravano a verificare che solo atlete nate donne potessero partecipare alle competizioni femminili. Ma possono anche portare alla squalifica di atlete le cui caratteristiche fisiche sono fuori norma da un punto di vista cromosomico, ormonale o di organi sessuali. Di recente la mezzofondista sudafricana Caster Semenya, più volte campionessa olimpica e mondiale negli 800 metri, è stata esclusa dalle gare dalla federazione internazionale di atletica leggera perché definita iperandrogina a causa di un tasso di testosterone ritenuto troppo alto.

Nel marzo 2023 per Khelif stava svanendo il lavoro di una vita. Nessuno sapeva se avrebbe potuto partecipare alle Olimpiadi di Parigi. “È tornata in Algeria, triste e depressa”, ricorda Nasser Yefsah. “Allora l’ho chiamata e le ho prenotato un biglietto aereo per farla venire a Nizza e riprendere gli allenamenti”. Un anno dopo la squalifica a New Delhi, Khelif è stata finalmente autorizzata a gareggiare ai giochi olimpici. Due giorni dopo il suo primo incontro, il portavoce del Cio Mark Adams ha difeso questa scelta: “Abbiamo stabilito che è una donna”.

Anche se gli esami effettuati dall’Iba sono coperti dal segreto professionale del medico, la scheda della pugile algerina fornita dal Cio precisa che Khelif è stata squalificata dai campionati del mondo a causa di “tassi elevati di testosterone”. Dati rilevati in test viziati, secondo il Cio, perché “molte donne possono avere un tasso di testosterone uguale a quello degli uomini, pur essendo donne”.

Ma i chiarimenti del comitato olimpico non hanno dissipato i dubbi. Quando è arrivata a Parigi, Khelif si sentiva gli sguardi addosso. Finché non ha vinto gli ottavi di finale contro l’italiana Angela Carini. “Avevo previsto le polemiche perché avevo già ricevuto commenti e critiche da parte di alcuni italiani. Infatti non guardavo più il telefono”, racconta.

Per tutelarsi, la pugile si è fatta aiutare da alcune psicologhe. “Facevamo delle sedute di rilassamento mentale”, racconta. “Le psicologhe mi hanno ricordato che ero arrivata lì con un obiettivo e che dovevo raggiungerlo, anche se tutti avrebbero tentato di distrarmi”. Tuttavia, nonostante questo supporto, chi le stava vicino la vedeva piangere regolarmente. Le sembrava di vivere il ritorno di un incubo.

Khelif ignorava ancora che in ballo c’erano questioni che andavano al di là della sua persona. Decidendo di non seguire la decisione dell’Iba di escluderla, il Cio ha preso posizione in favore dell’inclusione delle atlete con caratteristiche non conformi ai criteri tradizionali, prestando in tal modo il fianco a un processo per cosiddetto wokismo. Per questo ha attirato sulle Olimpiadi di Parigi anche gli strali della Russia, esclusa dai giochi in seguito all’invasione dell’Ucraina. L’Iba, finanziata dalla Gazprom, rientra nella strategia russa di soft power. Vicino al Cremlino, il suo presidente, Umar Kremlev, ha approfittato della polemica per organizzare una conferenza stampa in cui ha accusato il Cio di “distruggere lo sport femminile”.

Questa campagna ostile non ha impedito a Khelif di essere portata in trionfo dalla folla a Tiaret dopo la vittoria. Da quando è scoppiato il caso, il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune ha manifestato il suo sostegno a un’atleta che “onora l’Algeria, le donne e la boxe”. Khelif, che festeggia le sue vittorie con un saluto militare, ha restituito il favore appoggiandolo durante la sua campagna per la rielezione, che il 7 settembre gli ha permesso di essere riconfermato con il 94 per cento dei voti. “È una patriota. Quando vince lo fa per la sua famiglia e per la bandiera”, dice il suo manager.

Questo è uno dei tanti malintesi su Khelif, che è diventata suo malgrado un’icona del diritto alla diversità nei paesi occidentali, anche se in Algeria la legge è ostile alle persone lgbt. In risposta ai suoi critici, convinti di vedere in lei una persona transgender, Khelif, che non ha mai rivendicato la sua appartenenza alla comunità lgbt, ricorda che nel suo paese un cambiamento di sesso sarebbe stato impossibile.

Gioco di gambe

“Be’, la conosci la storia”, dice improvvisamente l’atleta in francese nell’albergo parigino. E si alza di scatto, impaziente di concludere un’intervista di quaranta minuti. Avere un bel gioco di gambe è indubbiamente il modo migliore per schivare le critiche di chi spesso l’ha trattata come un fenomeno da baraccone.

Alcuni giorni dopo la nostra intervista è stata attaccata di nuovo in seguito alla diffusione su un giornale online di un presunto rapporto medico e ha annunciato tramite il Cio l’intenzione di presentare un’altra denuncia.

Ma chi è davvero Imane Khelif? Appena vinte le Olimpiadi l’atleta ha dato la sua risposta, misteriosa e poetica: “Sono una donna forte con dei poteri speciali”. ◆ fdl

Biografia

1999 Nasce a Biban Mesbah, un villaggio nel nordovest dell’Algeria.
2015 Dopo aver giocato a calcio per anni, entra nella squadra di boxe femminile dell’Algeria.
2021 Partecipa alle Olimpiadi di Tokyo.
2024 Dopo aver battuto la pugile italiana ai quarti di finale delle Olimpiadi di Parigi, è accusata di avere “caratteristiche maschili” e di aver vinto ingiustamente l’incontro.


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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati