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Codice

Milano, 28 gennaio 2022. Gli scontri con la polizia durante la manifestazione studentesca per la morte di Lorenzo Parelli.

Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria. È la lista dei paesi europei che prevedono misure di identificazione degli agenti di polizia. L’Italia non c’è.

Se n’è tornato a parlare dopo le cariche della polizia, brutali e ingiustificate, contro gruppi di studenti a Roma, Milano e Torino. Ma è da almeno vent’anni che se ne discute, dal G8 di Genova del 2001. E dieci anni fa il parlamento europeo ha approvato una raccomandazione (la 192 del 12 dicembre 2012) con cui si esortano gli stati dell’Unione europea “a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”.

Non è una campagna contro la polizia, ricorda Amnesty international. Anzi, dovrebbe essere nell’interesse degli stessi agenti poter risalire alle eventuali responsabilità dei singoli ed evitare accuse indiscriminate.

In ogni caso si tratterebbe ovviamente di un codice alfanumerico, non di una targhetta con nome e cognome, e solo l’autorità giudiziaria potrebbe risalire all’identità dell’agente.

Tra l’altro andrebbe esposto unicamente quando gli agenti sono impegnati in attività di “ordine pubblico”: un messaggio di trasparenza che mostrerebbe la volontà delle forze di polizia di rispondere delle proprie azioni e allo stesso tempo aumenterebbe la fiducia dei cittadini. Sarebbe interessante capire quali sono gli argomenti di chi si oppone a questa norma di civiltà.

Il 26 gennaio una delegazione di Amnesty ha consegnato al capo della polizia, Lamberto Giannini, le 150mila firme della petizione che chiede l’introduzione di questo codice. Oggi alla camera e al senato ci sono tanti parlamentari sicuramente favorevoli. È arrivato il momento che facciano sentire la loro voce. ◆

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