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Più o meno dieci anni fa la gran parte delle persone che finivano sul sito di un giornale arrivava da Facebook.
Era così per tutti i giornali, in Italia o negli Stati Uniti, per i colossi dell’informazione e per i piccoli quotidiani locali. Un’altra grossa fetta di persone arrivava da Google, dopo aver fatto una ricerca. E solo per una piccolissima parte i visitatori erano lettori interessati proprio a quel giornale di cui avevano digitato direttamente l’indirizzo.
Il peso dei motori di ricerca e dei social media era enorme, ma i meccanismi che regolavano il flusso dei visitatori erano (e sono tutt’oggi) completamente oscuri. A ogni piccolo aggiustamento dell’algoritmo, il traffico precipitava improvvisamente o al contrario esplodeva e nessuno, nelle redazioni, sapeva perché o era in grado di prevederlo.
Negli anni l’opacità delle piattaforme tecnologiche non è cambiata, ma tutto il resto sì. Gli editori hanno chiesto soldi in cambio dei contenuti mostrati su Facebook e Google. E le aziende tecnologiche hanno risposto cominciando a non mostrare più questi contenuti o a ridurne la visibilità.
Per capire quali sono gli effetti dello scontro in corso si può andare in Canada. Da un anno nessun contenuto di nessun mezzo d’informazione è più visibile su Facebook o su Instagram.
I primi risultati sono interessanti. Thomas Baekdal, esperto di mezzi di comunicazione, ha cercato di analizzarli.
Inizialmente i giornali hanno perso visitatori, mentre Facebook non ha risentito minimamente dell’assenza dei loro contenuti. Poi però ci si è accorti che le visite dirette ai siti dei giornali canadesi sono aumentate ed è aumentato anche il tempo di lettura degli articoli. In altre parole, le persone non hanno smesso d’informarsi, hanno semplicemente smesso di farlo attraverso i social media e hanno ricominciato ad andare alla fonte, sui giornali.
Suggerendo, almeno per ora, che dopotutto la vita senza i social media potrebbe non essere così male, per i giornali e non solo. ◆