Le ombre frastagliate degli alberi di acacia si stagliano sull’erba secca. Tra i rami soffia una pungente brezza invernale. A malapena al riparo dal sole l’attivista namibiano Jephta Nguherimo, 59 anni, una vita dedicata alla giustizia riparativa per il popolo herero, afferra dei pezzi arrugginiti di equipaggiamenti militari, di cui ormai è impossibile indovinare l’uso. Poi li butta di nuovo per terra. “Penso a tutte le donne e ai bambini che sono morti qui”, dice.
Siamo nel posto dove fu combattuta la battaglia di Waterberg. Su quest’altopiano l’11 agosto 1904 l’esercito coloniale tedesco massacrò gli herero che si erano ribellati al dominio straniero e al furto delle loro terre. Le uccisioni facevano parte di una campagna di rappresaglie messa in atto dalla Germania tra il 1904 e il 1908, che oggi è considerata il primo genocidio del novecento.
Gli antenati di Nguherimo non furono semplicemente delle vittime. “La loro guerra fu la prima lotta di resistenza al colonialismo”, spiega.
Jephta Nguherimo è nato in un villaggio namibiano, ma oggi vive negli Stati Uniti. Ha la barba striata di grigio, e parla in modo pacato e attento. Da poeta e persona molto spirituale, crede fortemente nella giustizia per il suo popolo, ma anche nella riconciliazione con i tedeschi che uccisero decine di migliaia di herero, nama e san, le popolazioni indigene di quella che ai tempi era chiamata Africa del Sudovest.
“Ho un grande rispetto per i miei nonni e i miei genitori, per gli sforzi straordinari che hanno compiuto per proteggere noi figli dal trauma transgenerazionale causato dal genocidio”, ha scritto in un articolo pubblicato nel 2020. “Quando parlavano della guerra del 1904 non facevano mai riferimento al genocidio. Parlavano sempre di resistenza”.
Nel 1884, alla conferenza di Berlino, le potenze europee si spartirono i territori africani. La Germania ottenne la Namibia. All’inizio del novecento nel paese arrivarono quasi cinquemila coloni tedeschi che volevano governare su 250mila nativi. Man mano che il controllo esercitato dagli europei si rafforzava, i diritti e le libertà degli africani diminuivano. Gli herero e altre popolazioni furono sistematicamente scacciati dalle loro terre e costretti a vivere in “riserve”.
I nativi riconosciuti colpevoli di aver infranto la legge erano puniti con le frustate, a volte con l’impiccagione, mentre perfino i documenti ufficiali tedeschi registrano numerosi casi in cui ai coloni bianchi che avevano commesso crimini gravi, come stupri e omicidi, s’infliggevano pene minori. Questa continua violenza, insieme alla questione del controllo delle terre, contribuì a diffondere la rabbia e il risentimento tra gli abitanti del posto.
Nel 1904 gli herero, guidati dal capo Samuel Maharero, si ribellarono. Il 12 gennaio i loro soldati a cavallo attaccarono la città di Okahandja, uccidendo più di 120 persone, in gran parte tedesche.
Il conflitto s’intensificò rapidamente. Inizialmente gli herero ebbero successo e riuscirono ad avere la meglio in insediamenti coloniali mal difesi, mentre i tedeschi faticavano a organizzarsi sotto la guida del governatore Theodor Leutwein. A giugno del 1904 l’imperatore Guglielmo II nominò al posto di Leutwein il generale Lothar von Trotha, che istituì immediatamente un governo militare con l’obiettivo non di pacificare, ma di sterminare. In breve gli herero furono sconfitti.
L’11 agosto, mentre l’alba sorgeva sull’altopiano del Waterberg, cinquantamila uomini, donne e bambini herero furono svegliati nelle loro capanne dai colpi d’artiglieria. Gli uomini corsero a prendere le armi, lasciandosi alle spalle le famiglie, che furono poi massacrate da seimila soldati della Schutztruppe (l’esercito tedesco nelle colonie africane). Anche se in inferiorità numerica, i militari tedeschi erano meglio armati e in poco tempo sbaragliarono gli herero.
Nelle prime fasi della battaglia i combattenti indigeni erano quasi riusciti a resistere all’artiglieria tedesca, ma von Trotha ordinò di usare le armi automatiche. Le loro raffiche veloci respinsero gli herero, uccidendone migliaia. I sopravvissuti fuggirono a est, nell’Omaheke, una regione del deserto del Kalahari, inospitale e senz’acqua. In migliaia morirono, molti di sete. Altri furono rastrellati e rinchiusi nei campi di concentramento, dove furono costretti ai lavori forzati.
“Mia nonna mi ha parlato del nostro popolo e della fuga verso est. Mi ha raccontato di come morì la nostra gente, dell’espropriazione delle terre e del bestiame, e di tutte le sofferenze patite nei campi”, afferma Nguherimo, guardandosi intorno con l’aria pensierosa, mentre si sistema i dreadlock sulle spalle. La bianchissima erba invernale ondeggia al vento, trasportando le sue parole.
Ragioni comprensibili
A più di cinquecento chilometri dall’altopiano del Waterberg, nella città costiera di Swakopmund, Anton von Wietersheim, un namibiano tedesco di terza generazione, siede nella sua casa curata, dall’aspetto nostalgicamente europeo. Il sole entra in soggiorno attraverso una grande finestra. Davanti a una tazza di tè, von Wietersheim condivide alcuni ricordi di famiglia. “Il mio primo antenato ad arrivare nell’allora Africa del Sudovest tedesca fu uno zio paterno, che si stabilì in una fattoria a Windhoek nel 1901. Fu tra i primi coloni a essere attaccati durante la rivolta herero e rimase ucciso nel secondo giorno di ostilità, il 13 gennaio 1904. Allo scoppio della guerra l’impero tedesco inviò rinforzi. Mio nonno materno, che all’epoca aveva 19 anni, arrivò nel febbraio 1904. Combatté contro gli herero e i nama, sopravvisse alla guerra e rimase nella colonia a coltivare la terra”, racconta.
“Capisco le ragioni della rivolta”, continua von Wietersheim. “Un fratello di mio zio non trovava strano che gli herero si fossero ribellati, perché gli erano state sottratte le terre e i commercianti erano spietati. Prendevano il bestiame in modo disonesto. Si capisce perché i nativi si siano sollevati. Solo che alla fine la guerra si è trasformata in un’impresa genocidaria”.
Gli herero cercarono di riorganizzarsi durante la fuga a est e speravano che resistendo a Waterberg avrebbero ottenuto la vittoria. I tedeschi gli permisero di scappare nel deserto, ma poi posizionarono le truppe in modo da impedirgli di andarsene da lì.
Jephta Nguherimo è cresciuto senza avere la piena consapevolezza degli orrori subiti dai suoi antenati. Solo quando ha sentito la storia della sua bisnonna e della sua fuga attraverso l’arido Omaheke ha capito di aver trovato la sua missione. “La mia bisnonna era troppo vecchia e stanca, e fu abbandonata. Fu lasciata a morire sotto un albero. Morì senza dignità. Oggi io voglio comprendere la sua vita”, racconta.
Le famiglie furono costrette a scelte impossibili: sacrificare una vita per salvarne altre. Il dolore di quella decisione riecheggia attraverso le generazioni.
Durante la fuga nel deserto la guerra tedesca contro gli herero si trasformò in un’operazione intenzionale di pulizia etnica. Il generale von Trotha ordinò alle truppe di stabilire una linea di avamposti per centinaia di chilometri in modo da impedire agli herero di tornare alle loro fattorie e ai loro villaggi. Inoltre ordinò di bloccare l’accesso all’acqua.
Il 3 ottobre 1904, presso la remota pozza nel deserto di Osombo zo Windimbe, von Trotha lesse il famigerato Vernichtungsbefehl (ordine di sterminio): “Io, il grande generale dei soldati tedeschi, mando questa lettera agli herero. Gli herero non sono più sudditi tedeschi… Qualsiasi herero si trovi entro i confini tedeschi, armato o disarmato, con o senza bestiame, sarà ucciso. Non accetterò più donne e bambini: li rimanderò dalla loro gente o li farò fucilare”.
Gli herero, disperati e stremati, vagavano in cerca di riparo e di sorgenti d’acqua, molte delle quali erano state avvelenate o sigillate dai tedeschi. Morirono in decine di migliaia. Alla fine lo sdegno suscitato in Germania da questo abominio coloniale costrinse l’imperatore a ordinare a von Trotha di ritirare l’ordine l’8 dicembre 1904.
Durante la fuga nel deserto la guerra tedesca contro gli herero si trasformò in un’operazione intenzionale di pulizia etnica
Verso la fine di quell’anno i nama, che in parte si erano alleati con i tedeschi per proteggere le loro terre, ne avevano abbastanza della ferocia degli europei. Temevano la crescente ostilità e l’aperto razzismo dei bianchi nei loro confronti. Il loro leader, Hendrik Witbooi, all’epoca settantenne, convocò un consiglio degli anziani per ascoltare i resoconti delle atrocità. Dopo di che chiamò tutti i nama a combattere contro i tedeschi. Molti clan risposero, compresi quelli di un altro noto leader, Jacob Morenga.
I soldati tedeschi lottarono contro il caldo, la sete e la tensione costante provocata dalle incursioni dei nama. Ci furono circa duecento incursioni e schermaglie prima che Witbooi fosse ferito a morte, alla fine del 1905. Quando morì, l’alleanza da lui guidata si sciolse. I nama furono messi insieme agli ultimi sopravvissuti herero e mandati nei campi di concentramento.
Nella famiglia dell’attivista nama Ida Hoffmann si tramanda una storia raccapricciante: “I tedeschi uccisero la figlia del mio bisnonno, Sara Snewe”, racconta Ida. “Secondo quanto è stato tramandato per via orale, era incinta. I tedeschi le aprirono la pancia, tirarono fuori il feto e lo uccisero a sangue freddo”. Ancora oggi i discendenti commemorano Sara Snewe presso la sua tomba nel deserto.
Nguherimo ricorda la storia di un’altra bisnonna: “Fu catturata nell’Omaheke dopo il ritiro dell’ordine di sterminio, e spedita a Lüderitz, nel campo di Shark island, dove i prigionieri erano costretti a lavorare in condizioni di schiavitù. La maggior parte delle persone morì, ma lei fu tra le poche a sopravvivere”. S’interrompe, pensieroso: “Ecco perché oggi sono qui”.
Shark island, una stretta penisola nella minuscola città portuale di Lüderitz, ospitava uno dei cinque campi di concentramento creati nella regione, il più famigerato. Qui nama ed herero vivevano in condizioni disumane. Si costruirono rifugi di fortuna con coperte, stracci e legname trasportato dalla corrente per proteggersi dai venti gelidi e dalle nebbie provenienti dall’oceano Atlantico. Da mangiare ricevevano razioni alimentari di pochi etti e non c’erano servizi igienici. Così si diffondevano le malattie, soprattutto tra i bambini. Le donne venivano stuprate. Lo sfruttamento sessuale delle africane non solo era ammesso, ma anche entusiasticamente documentato. Molte foto pornografiche di donne diventarono cartoline da spedire in Germania. I detenuti più forti uscivano dai campi per lavorare al porto e sulla vicina ferrovia.
Nessuno sa di preciso quante persone contenessero quei campi. I dati sono incompleti o inesistenti, ma si parla di migliaia di morti tra herero e nama.
Quando visito Shark island insieme a Jephta Nguherimo, il vento è forte e gelido, e spazza le rocce brulle sulle quali è stato costruito un campeggio. Quel giorno è vuoto, ma è evidentemente in attesa di turisti ignari della storia del posto.
Jephta è visibilmente turbato. Parla a fatica: “Qui i miei antenati furono tenuti prigionieri. Gli storici lo definiscono un campo di morte. La mia bisnonna ce l’ha fatta, ma la maggior parte delle persone sono morte di fame. Questa è la nostra Auschwitz, la nostra Dachau. In quei posti c’è un campeggio? No”, dice indicando i luoghi intorno. “È un posto sacro. Qui morirono delle persone e su di loro furono condotti esperimenti scientifici. Avevano paura di andare nel centro medico perché sapevano che non ne sarebbero usciti vivi. Là mettevano a bollire i crani delle persone, poi le donne dovevano staccare la pelle e raschiare via la carne con pezzi di vetro”.
Si conducevano anche altri esperimenti terribili. Molti prigionieri soffrivano di scorbuto, una malattia determinata da una dieta priva di alimenti freschi, e i medici gli iniettavano oppio, arsenico e altre sostanze per vedere che effetto avessero. Poi sezionavano i cadaveri per studiarli.
I teschi e altri resti umani erano spediti in Germania, dove erano usati nella ricerca basata sulla pseudoscienza razzista dell’eugenetica. Molti finirono al Kaiser Wilhelm institute di Berlino, dove agli inizi degli anni quaranta studiò Josef Mengele, che avrebbe condotto esperimenti crudeli sui detenuti di Auschwitz.
Quello che accadde agli africani in Namibia preannunciò le violenze dell’olocausto nazista contro gli ebrei e altri gruppi durante la seconda guerra mondiale. La memoria di questi eventi però è contestata, perfino in Namibia. I primi tentativi di documentare il genocidio risalgono al 1918, quando le autorità sudafricane compilarono un rapporto chiamato Blue book (libro blu), dopo la sconfitta dei tedeschi nella prima guerra mondiale. L’Unione del Sudafrica, all’epoca una colonia britannica, aveva invaso la colonia tedesca dell’Africa del Sudovest nel 1915. All’inizio si era trovata in difficoltà, ma in poco tempo aveva avuto la meglio sulle forze tedesche, che si erano arrese a luglio di quello stesso anno. Il Blue book stimò che erano morti circa 65mila herero su una popolazione complessiva di 80mila. Le vittime tra i nama erano state diecimila, la metà del totale.
Alcuni pensano che questi numeri siano esagerati, ma Nguherimo e altri attivisti sono certi che quelli reali siano molto più alti. “In ogni caso, che importanza hanno i numeri?”, si chiede. “Le azioni commesse erano in sé atti di genocidio”.
Terra e memoria
Quasi 120 anni dopo la riconciliazione tra tedeschi, herero e nama sembra ancora lontana. In Namibia la grande maggioranza della popolazione africana è povera. Alla periferia della cittadina turistica di Swakopmund, Nguherimo mi porta a conoscere Lourens Ndura in un insediamento malandato chiamato Drc. File e file di semplici casette, affiancate a baracche, riempiono gli spazi deserti. Non c’è quasi vegetazione e il vento fa turbinare la sabbia nelle strade deserte. Lourens indossa una maglietta rossa del sindacato, ricordo di tempi migliori, quando aveva un lavoro a tempo pieno come vigile del fuoco in una miniera.
Dieci anni fa la siccità e la fame lo hanno costretto a portare la sua famiglia a Drc, e sono ancora in attesa di risarcimenti. “Il mio bisnonno fu rinchiuso a Shark island. I tedeschi devono pagare per quello che hanno fatto perché per noi è una ferita da tanto, tantissimo tempo”, dichiara. “Solo i soldi possono cambiare le cose. Per comprare terre e animali”. Indica con un gesto la baracca in lamiera, l’unica cosa che è in grado di offrire alla sua famiglia. “Qui viviamo come se fossimo in un campo di concentramento”.
Terra e memoria sono due fili che restano profondamente intrecciati per gli herero e i nama, e per i namibiani di origine tedesca.
Nguherimo incontra Gerd Wölbling, un mite agricoltore namibiano tedesco che possiede un ranch di 15mila ettari vicino al luogo in cui si combatté la battaglia di Waterberg. La sua famiglia è proprietaria della fattoria dal 1907 e Wölbling è cresciuto tra gli herero. Parla fluentemente la loro lingua. Il suo bisnonno ha avuto tre figli con una donna herero.
“Erano fratellastri e sorellastre per mio padre. Abbiamo ancora rapporti molto stretti”, racconta davanti a un caffè e una birra fredda.
Eppure lui e Nguherimo sono divisi quando si parla della tormentata storia del paese. “Quale passato è più importante?”, chiede Wölbling. “La storia dice che un popolo ne ha sostituito un altro. Cent’anni prima del 1907 gli herero non abitavano su quelle terre. Non possiamo rimettere a posto le cose restituendole”.
Nguherimo ascolta con attenzione, non contraddice Wölbling. “Stai negando che c’è stato un genocidio?”, gli chiede mentre si riparano dal sole sotto un albero.
Wölbling alza le mani per spiegare. “Non metto in dubbio le sofferenze inflitte agli herero. Hanno perso gran parte della loro terra, del loro bestiame e ammettiamo pure metà della popolazione”. Nega però il fatto che sia stato un genocidio. “Non era l’intenzione, e secondo me il collegamento con l’olocausto è eccessivo”.
Nel 1985, però, il rapporto Whitaker delle Nazioni Unite classificò come genocidio quello degli herero e dei nama. Nel maggio 2021 anche il governo tedesco l’ha formalmente riconosciuto. In una dichiarazione congiunta con la Namibia, si è impegnato a versare al governo di Windhoek 1,1 miliardi di euro nei prossimi trent’anni, a patto che siano spesi nelle aree dove oggi vivono i discendenti delle vittime.
Fare i conti
Nguherimo e Ida Hoffmann sono delusi dall’accordo. “I negoziati, praticamente unilaterali, condotti dal governo namibiano con quello tedesco sono e restano inaccettabili”, dice Hoffmann.
L’accordo ha suscitato molta insoddisfazione. Gli attivisti nama ed herero hanno chiesto una rinegoziazione, per destinare più fondi alle comunità colpite. Inoltre vogliono essere più coinvolti nelle discussioni. In realtà nessuno dei due governi ha ancora firmato l’accordo. Quello namibiano ha proposto ulteriori negoziati, ma il parlamento tedesco ha respinto la richiesta. E non ci sono segnali di una rapida soluzione dello stallo. “Sembra”, osserva Nguherimo, “che il governo namibiano stia di nuovo partecipando a trattative segrete, nonostante la gente abbia chiesto pubblicamente il coinvolgimento dei leader delle comunità”.
Molti herero e nama ritengono che il partito al governo, la South West Africa people organization (Swapo), non li rappresenti in modo adeguato, perché la sua base di consenso più forte è tra gli ovambo, la popolazione originaria del nord del paese. Il governo sostiene di essere la voce di tutti e di non poter circoscrivere un accordo all’approvazione dei soli herero e nama. Phanuel Kaapama, una delle persone che hanno condotto i negoziati per il governo, ha riferito che al momento è in corso “un processo di consultazioni interne per rafforzare il consenso”.
Ruprecht Polenz, l’inviato speciale del governo tedesco, ha risposto via email che da maggio 2021 “in Namibia si sta parlando della dichiarazione congiunta, ritenuta discutibile. Il governo federale sta seguendo il dibattito ed è in attesa dell’esito”.
A Waterberg, Nguherimo s’inginocchia per raccogliere una manciata di sabbia. Ne mette un po’ in bocca per benedirla, secondo la tradizione insegnatagli dalla nonna, e getta via il resto.
Resta in silenzio a lungo, poi si alza lentamente. “Sto rendendo omaggio, so che i miei antenati sono qui a dirci di ricordare per sempre questi luoghi”.
Ha gli occhi pieni di lacrime. Guarda in silenzio il panorama sotto il sole del mattino. Lentamente riprende a parlare con la sua voce da poeta.
“È dura fare i conti con il destino. I tedeschi che ci hanno sconfitto possiedono questi spazi. Hanno comprato la terra, ma da chi? Lotteremo per avere risarcimenti e dignità. Siamo stati sconfitti ma siamo ancora forti. Un giorno riavremo la nostra terra, le nostre terre ancestrali devono essere condivise con noi. Questo posto, gli alberi, tutto mi parla, proprio adesso. Nel vento sento gli spiriti che mi dicono: ‘Racconta la storia’. Sento l’energia di chi è morto, il vento di chi non ha ricevuto sepoltura, il vento della resistenza, gli uccelli che cantano, tutto mi dice qualcosa se ascolto con attenzione”.
“Non provo rabbia, ma sento il mio spirito profondamente connesso a quello dei miei antenati. Non serve a niente essere arrabbiati”, conclude. “Sono onorato di poter parlare con loro”. ◆ gim
Il gruppo di ricerca Forensic architecture ha lavorato con il Centro europeo per i diritti umani e costituzionali (Ecchr) e la Ovaherero genocide foundation namibiana per ricostruire l’avanzata delle truppe coloniali tedesche nel territorio herero, la posizione dei villaggi dei nativi e la sistematica cancellazione della loro presenza. I ricercatori hanno confrontato le foto d’epoca e i documenti degli archivi coloniali, con il paesaggio attuale. Hanno anche cercato d’individuare, non sempre con successo, i campi di concentramento in cui furono imprigionate le popolazioni ribelli. Su uno di questi, oggi ci sono un parcheggio e un campo sportivo.
La guerra coloniale fu anche l’occasione per un vasto furto di terreni: nel 1902 solo il 6 per cento delle terre namibiane apparteneva a tedeschi, mentre tre anni dopo il genocidio, intorno al 1911, la percentuale era salita al 20 per cento. Oggi 4.500 namibiani d’origine europea, compresi i discendenti dei coloni tedeschi, possiedono la metà delle terre del paese. Gli herero e i nama, che all’inizio del novecento erano la maggioranza della popolazione nativa, oggi sono meno di un decimo dei 2,5 milioni di abitanti della Namibia, e hanno una scarsa rappresentanza politica. Per il presidente Hage Geingob, la commemorazione del genocidio non è mai stata una priorità, scrive Der Spiegel. Per lui e il suo partito – la South West Africa people organization (Swapo) – la storia della Namibia comincia essenzialmente con l’indipendenza dal Sudafrica, nel 1990.
Ma il dibattito sul passato è sempre più presente nella sfera pubblica. Il 23 novembre nella capitale Windhoek è stata rimossa la statua dell’ufficiale coloniale tedesco Curt von François, che era stata eretta nel 1965 e lo celebrava erroneamente come il fondatore della città, scrive The Namibian. La decisione dell’amministrazione comunale è arrivata dopo una petizione online, firmata da più di 1.600 persone, in cui si legge: “Non possiamo cambiare il passato violento della città, ma possiamo scegliere cosa commemorare di quella storia. Lo dobbiamo alle future generazioni”. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati