Era Natale, e stavo andando nel posto più gattesco del mondo. L’isola di Aoshima si trova circa ottocento chilometri a sud di Tokyo, nel mare interno di Seto, che separa tre delle principali isole del Giappone: Honshū, Shikoku e Kyūshū. Quattro anni fa il quotidiano Asahi Shimbum aveva scritto che Aoshima, meno di mezzo chilometro quadrato di superficie, aveva sei abitanti, tutti anziani, e un numero imprecisato di gatti – certamente centinaia, anche se nessuno sa esattamente quanti. Ad Aoshima non ci sono né ristoranti né pensioni. L’unico modo per arrivarci è una traversata di 35 minuti su un traghetto che parte due volte al giorno dalla città portuale di Nagahama, sull’isola di Shikoku, un’ora di macchina a sud del posto in cui alloggiavamo io e la mia amica Mihoko, una cittadina di medie dimensioni che si chiama Matsuyama, che nel periodo Edo (1603-1867) era la casa di un potente daimyō, o signore, e oggi è nota principalmente per la produzione di arance.
C’erano stati forti venti in tutto il paese (all’aeroporto di Tokyo ho sentito un annuncio per i passeggeri di un volo diretto a Fukuoka: “Si prega di comprendere che, a causa dei venti, l’aereo potrebbe dover tornare indietro”) e, quando Mihoko ha chiamato il porto per chiedere conferma che il traghetto sarebbe partito in orario, la capitaneria le ha risposto che una combinazione di neve e vento aveva scatenato correnti molto forti, quindi il traghetto, già annullato durante la settimana , sarebbe stato cancellato anche quel giorno. “E domani?”, ha chiesto Mihoko. “Davvero non glielo so dire”, ha detto la capitaneria, “forse sì, forse no”. Una risposta molto giapponese.
Ero affranta. Ero venuta nello Shikoku solo per vedere l’isola piena di gatti, fare un sacco di foto e mostrarle ai miei amici appassionati di felini. Pregustavo già l’idea di farli morire d’invidia. Anche Mihoko era delusa. Aveva comprato una grossa busta di croccantini e altre leccornie per gatti al negozio di alimentari vicino all’albergo: ora doveva portarseli a Tokyo e darli al suo gatto, Muncheetah.
“Non preoccuparti”, mi ha detto Mihoko, che lavorava in una rivista ed è passata subito in modalità recupero. “Ci sono un sacco di posti in Giappone dove si possono vedere i gatti”.
“Ma io volevo vedere quei gatti”, piagnucolavo.
“Non c’è bisogno di vedere quei gatti”, ha insistito Mihoko. “I gatti non stanno solo ad Aoshima”. Eravamo a cena: la mia disperazione era cominciata a un brunch in una caffetteria in stile americano, di quelle che negli Stati Uniti non esistono più ma che sono diventate popolari da queste parti dopo l’occupazione; poi era proseguita durante la visita al castello di Matsuyama (costruito all’inizio del 17° secolo), uno dei circa dodici castelli giapponesi rimasti, e la sosta in un bar specializzato in spremute d’arancia (si trovavano spremute di diverse varietà della zona, alcune dolci, altre aspre). Infine al ristorante davanti al nostro gyū, un piatto di fettine sottili di manzo marinato, servito crudo su un letto di riso con bardane e porri grigliati.
Per tutta la giornata, mentre io facevo il broncio e inveivo a intermittenza contro gli dei, il tempo e la capitaneria, Mihoko mi ha indicato pazientemente dei gatti – ce n’era uno che si leccava vicino a un sacrario improvvisato; un altro che ci fissava con gli occhi a fessura – e mi ha riempita di curiosità e aneddoti felini. Per esempio mi ha raccontato che Natsume Sōseki, forse il più grande scrittore giapponese moderno, autore di Io sono un gatto (1905), una satira della società del primo novecento attraverso la voce di un gatto, per un periodo insegnò inglese alle scuole medie a Matsuyama. Poco prima, in un negozio di souvenir, avevamo visto dei biscotti con sopra stampata la sua faccia.
Il giorno successivo (niente traghetto) siamo tornate a Tokyo, dove abbiamo passato la serata a scambiarci messaggi sui gatti in Giappone, cercando di capire se c’era un modo semplice di raggiungere una delle altre dieci isole dei gatti del paese, oppure i parchi a tema felino o i santuari dedicati ai gatti, molti dei quali si trovano nella parte occidentale. Ma erano tutti troppo lontani per arrivarci in treno, e i venti continuavano a rendere imprevedibile qualsiasi viaggio.
Mihoko non riusciva a capire la mia disperazione. Tutto il Giappone è ossessionato dai gatti, ha detto. Per i giapponesi i gatti sono talmente fondamentali che hanno inventato i neko café, dove si paga per prendere un caffè e stare insieme ai felini. E allora perché andare ad Aoshima, quando potevamo fare la stessa cosa a Tokyo? A che scopo andare su un’isola piena di gatti quando eravamo già su un’isola di gatti? Stare in Giappone vuol dire essere circondati dai gatti: basta solo rendersene conto.
Icone feline
Come molte cose che i giapponesi considerano la loro quintessenza – la tempura, l’albero di ciliegio e il miso – il gatto è un’importazione. Lo studioso Tadaaki Imaizumi ipotizza che il primo gatto sia comparso nel sesto secolo, una curiosità della Via della seta giunta dall’India attraverso la Cina (secondo altri storici, invece, sarebbe arrivata dalla Corea). È plausibile che l’animale sia stato subito messo al lavoro, in un modo o nell’altro: per secoli il Giappone è stato un paese prevalentemente agricolo, e un gatto era indubbiamente prezioso in una fattoria o in un granaio, vista la sua capacità di allontanare i topi. Ma quella giapponese era anche una cultura di corte, e un gatto poteva essere di grande intrattenimento per le signore del palazzo, che potevano deliziarsi ammirando quello che i gatti fanno da quando esistono: saltare, appostarsi, giocare, lisciarsi.
Nel quattordicesimo secolo, il gatto era già comparso in diversi testi fondativi, tra cui le Note del guanciale di Sei Shōnagon, il Genji monogatari di Murasaki Shikibu e Tsurezuregusa di Yoshida Kenkō (nel Genji, il gatto contribuisce a un importante sviluppo narrativo: mentre scappa sposta lo scuro di una finestra, permettendo a un cortigiano di vedere di sfuggita la giovane principessa e di innamorarsi perdutamente di lei). I gatti tornano anche in importanti opere figurative o letterarie di epoche successive, in particolare del periodo Edo e di quello Meiji (1868-1912): la stampa del 1857 Risaie di Asakusa e La f esta di Torinomachi di Utagawa Hiroshige, una delle immagini più amate della serie Cento famose vedute di Edo, ritrae un paffuto gatto bianco che guarda dalla finestra, dando le spalle allo spettatore. Come la sua padrona, una cortigiana – si evince dagli accessori per capelli finemente smaltati infilati in un telo sul pavimento – il gatto è sia coccolato sia prigioniero, adorato ma schiavo.
Le due icone feline più longeve del paese sono nate a secoli di distanza l’una dall’altra. Hello Kitty, creata nel 1974 come personaggio dei cartoni animati, è diventata l’ambasciatrice della prima ondata della cultura kawaii, con la sua immagine stampata su gomme da cancellare, grembiuli e assorbenti venduti in tutto il mondo (nella storia delle sue origini, Hello Kitty non vive nemmeno in Giappone, ma alla periferia di Londra, e secondo il suo creatore è una bambina, non una gatta). Molto prima di lei, però – e anche del suo predecessore a cartoni animati, Doreamon, un gatto robot blu, ghignante e senza orecchie – c’è stato il maneki neko, il “gatto che saluta”. Il maneki neko è una statuetta di un gatto – di solito bianco, di ceramica, dall’espressione imperscrutabile ma benevola – con una campanella intorno al collo e una zampa sollevata vicino all’orecchio, come se salutasse. Probabilmente ce n’è uno nel ristorante giapponese del vostro quartiere; in Giappone è talmente onnipresente che non ci si fa più caso.
Pochi giorni dopo il nostro ritorno da Matsuyama, io e Mihoko ci siamo date appuntamento per una gita a Setagaya, un quartiere nella zona occidentale di Tokyo dove c’è il Gotokuji, un tempio del periodo Edo dedicato al maneki neko.
Al tempio
Era una giornata splendida, senza una nuvola e fredda, come spesso capita a dicembre, e la parte di Setagaya che abbiamo attraversato a piedi dalla stazione ferroviaria è un promemoria del carattere composito della Tokyo contemporanea.
Nonostante fossero all’aperto, i gatti erano tutti sorprendentemente puliti, con i collari dipinti di rosso che brillavano al sole
A differenza di Londra o New York, gran parte degli edifici sono del dopoguerra, insignificanti e anonimi, costruiti nel periodo della ripresa economica del paese dopo che la capitale fu rasa al suolo dalle bombe. In quasi tutti i quartieri del centro di Tokyo può capitare di voltare l’angolo e passare di colpo da un viale di grattacieli a una strada suburbana, con villette a schiera e piccole utilitarie dai musi tronchi parcheggiate, siepi di camelia dalle foglie cerate e corvi lucenti grossi come galli abbarbicati sugli alberi di cachi. Le loro grida stridule e inquietanti sono la colonna sonora della città.
Dopo una camminata di un quarto d’ora, siamo arrivate davanti all’alto muro di pietra che segna il perimetro del tempio. La struttura occupa quasi un intero isolato. Il Gotokuji non è solo un tempio, ma è anche il luogo di sepoltura di Naosuke Ii, un ministro che servì durante lo shogunato Tokugawa, l’ultimo governo feudale del Giappone. È un luogo associato a un mito: una volta, tanto tempo fa, il tempio era piccolo e spoglio, e il monaco che lo curava si occupava della sua manutenzione. Aveva poco da mangiare, e quel poco lo divideva con il suo gatto, che gli era devoto. Un giorno, il monaco disse al gatto: “Se vuoi aiutarmi, porta un po’ di buona sorte al tempio”. Alcuni mesi dopo si presentarono alcuni samurai. Dissero al monaco che stavano per passare oltre quando avevano visto il gatto che li salutava e, sorpresi, erano entrati nella proprietà. Il monaco li accolse e gli servì del tè. Mentre si riposavano, l’uomo cominciò a intonare i suoi canti; i samurai, sentendo i canti, si convinsero a seguire la via del Budda e a donare terreni e denaro al tempio, così che anche altre persone potessero fare la loro stessa esperienza. Successivamente, quando il gatto morì, il monaco decise di onorare lui e la fortuna che aveva portato al luogo. Così nacquero il maneki neko e il tempio a lui dedicato. Fine. Almeno, questo è il racconto sull’opuscolo che il tempio distribuisce ai visitatori. Ma “non è la storia che ho sentito io”, mi ha detto Mihoko. “La storia che ho sentito io è che un giorno un gruppo di viandanti passò davanti a un tempio. Cominciò a piovere, e notarono un gatto che li chiamava. Entrarono nel tempio e riuscirono a ripararsi, ed è per questo che il maneki neko è un simbolo di fortuna e ospitalità”.
Chiunque sia stato in Giappone sa che praticamente in ogni quartiere di ogni città ci sono almeno un tempio buddista e un santuario shintoista. Sono quasi sempre luoghi umili: un cortile pulito e ordinato e un edificio principale buio, aperto solo il giorno di capodanno. Alcuni, però, sono più opulenti: hanno giardini ben curati, alberi potati, siepi di bambù fresche e verdi. Il Gotokuji è un tempio ricco; a metà della navata centrale c’è un grosso, magnifico braciere d’incenso in ferro con il mon, lo stemma di famiglia (che nel caso degli Ii è un fiore d’arancio) impresso in oro sulla base. Il tempio è ricco perché gli amanti dei gatti vengono qui da decenni in pellegrinaggio per fare donazioni e chiedere buoni auspici, ma soprattutto perché (al pari di altri templi scaltri) vende souvenir irresistibili come i maneki neko di ceramica, proposti al pubblico in cinque formati. Il più grande è alto circa trenta centimetri; il più piccolo tre centimetri scarsi.
Il tempio custodisce in una serie di scaffali le migliaia di maneki neko che i visitatori negli anni hanno comprato e lasciato al Gotokuji come portafortuna dopo aver scritto sopra i loro desideri e i loro nomi.
Vedere tanti gatti tutti insieme nello stesso posto era meraviglioso e anche un po’ inquietante: c’era qualcosa nella quiete assolata del pomeriggio, e nelle loro espressioni indecifrabili, che faceva pensare che di notte prendessero vita tutti insieme trasformandosi in animali veri e aggirandosi per il tempio in silenzio, per poi riprendere la loro forma di ceramica all’alba. Il Giappone aveva ricominciato da poco ad accogliere i turisti dopo gli anni di rigide restrizioni anticovid, e quel giorno il tempio era quasi vuoto: c’erano solo pochi ostinati visitatori coreani e filippini che scattavano selfie con aria quasi professionale.
Mihoko e io abbiamo camminato tra gli scaffali in cerca del posto giusto per lasciare i nostri gatti: alla fine li abbiamo piazzati entrambi sotto il davanzale di una finestra. Nonostante fossero all’aperto, i gatti erano tutti sorprendentemente puliti, con i collari dipinti di rosso che brillavano al sole. Delle piccole foglie d’acero, della varietà che i giapponesi chiamano momiji, si erano posate a mo’ di berretti sulle loro teste, e i gatti più esposti agli elementi avevano lievi tracce di sporcizia sulla fronte, che li facevano sembrare più vivi: le zampe sollevate ricordavano il movimento del gatto che per pulirsi si strofina la zampa anteriore sul muso dopo averla leccata. Probabilmente è quello che tanti anni fa stava facendo il gatto quando i viandanti lo avvistarono: non li stava chiamando; stava egoisticamente provvedendo alle sue esigenze. Questo egoismo è esattamente quello che gli amanti dei gatti adorano.
Al tempio non ho visto gatti in carne e ossa, presumibilmente avrebbero buttato a terra i maneki neko. Tutti questi oggetti inanimati appoggiati senza protezione sugli scaffali sarebbero una tentazione irresistibile anche per il felino più disciplinato. Se un gatto vero riuscisse a intrufolarsi nel tempio, probabilmente il pavimento sarebbe disseminato di cocci rotti; le speranze di migliaia di persone distrutte, ridotte in polvere da una zampata.
Quella giapponese, naturalmente, non è l’unica cultura che venera i gatti, né si può dire che i giapponesi amino i gatti più di altri popoli. Però sono quelli che hanno passato più tempo a mitizzarli. Potremmo addirittura dire che i giapponesi provano per i gatti qualcosa di più complesso e quindi ancora più potente dell’amore: affetto, sì, ma anche paura e soggezione. Ci sono animali sacri in Giappone – in particolare il cervo, che nello shintoismo, il più diffuso tra i culti nativi dal paese, è spesso considerato il messaggero degli dei – ma il gatto è più strettamente collegato a un altro gruppo di animali, di cui fanno parte anche la volpe e il tasso: animali che devono essere placati.
I giapponesi sono cautamente affezionati alle volpi, che sono conosciute in tutta l’Asia orientale per la loro capacità di cambiare forma. Anche se non sono sempre malevole, le volpi sono notoriamente dispettose, e in Giappone si passa parecchio tempo a tenerle buone. Un Inari jinja è un tipo di santuario shintoista molto frequentato dai giapponesi – dagli uomini d’affari come dalle casalinghe – perché è dedicato al kami (dio) Inari, che si dice protegga la salute, il focolare domestico, il riso, il sakè e le volpi. Con il passare del tempo, i vari beneficiari dell’Inari sono stati sintetizzati nella figura della kitsune, la volpe. È alla volpe, non all’Inari, che piace il riso; ed è alla volpe che si chiedono buoni auspici. In uno dei santuari Inari più famosi e belli del paese, il Fushimi Inari Taisha, costruito nel quindicesimo secolo nella parte meridionale di Kyoto, ci sono decine di incisioni su pietra di volpi, ai cui piedi i fedeli lasciano scatole di sushi Inari, un sushi di riso avvolto nel tofu fritto, che si dice sia il cibo preferito dalle volpi. Le volpi sono anche note per prendere la forma di bellissime donne che seducono sventurati uomini per divertimento o per denaro. Una volta sono andata al Fushimi con il mio amico Bitter, che all’epoca viveva a Tokyo: si era convinto che una donna su tre fosse una volpe sotto mentite spoglie. “L’hai vista?”, mi ha sussurrato quando ci è passata accanto una bella ragazza con una gonna lunga a pieghe nera. “Dev’essere una volpe”.
Poi c’è il tasso, o tanuki, che tecnicamente è il cane procione giapponese. Il tanuki è una figura falstaffiana: panciuto, giulivo, beone, giocoso (nella rappresentazione popolare, indossa un cappello di paglia da viaggiatore e stringe nella zampa una bottiglia di sakè), ma tonto e inaffidabile. Anche i tanuki sanno cambiare forma, ma le loro intenzioni sono meno perfide e più egoistiche: più cibo, più sakè, più marachelle innocue.
Nella maggior parte dei casi, questi animali coesistono pacificamente con gli umani (a patto che gli si porti il dovuto rispetto. Mentre andiamo in giro per Matsuyama, io e Mihoko passiamo davanti a un piccolo santuario dedicato a un tanuki, una statuetta di pietra consunta alta circa trenta centimetri con due mazzi di fiori di campo appoggiati ai lati e un fiasco di sakè in miniatura. È una cosetta umile e amatoriale, eppure Mihoko si ferma per un rapido inchino, e così molti altri passanti).
A volte, però, per cause indipendenti dalla volontà degli umani, queste creature diventano rabbiose o sono possedute: improvvisamente, il gatto non è più un gatto, ma un demone.
In Giappone capita molto spesso di parlare di demoni. Quando si tocca l’argomento, il tono è quasi sempre casuale e prosaico. Una volta, mentre scendevamo a valle dopo una visita a un tempio sui boschi sopra Kyoto, Bitter e io abbiamo incrociato una coppia di anziani accompagnati da una guida turistica di mezza età. “È meglio non venire qui di notte”, ha detto allegramente la donna, “perché le colline sono piene di cose”. Bitter, che è un ingegnere informatico e crede appassionatamente nei demoni, è rimasto colpito dalla parola esatta scelta dalla guida – mamono, “cose malvagie” – e dal mormorio con cui la coppia ha annuito.
I gatti tendono facilmente a diventare demoni. Uso la parola “demone” in senso lato, riferendomi sia agli yūrei, che sono fantasmi, sia agli yōkai, che sono spiriti (i demoni veri e propri, e così i mutaforma e gli orchi, sono yōkai). Zack Davisson, autore del divertente Kaibyo: the supernatural cats of Japan (Kaibyo: i gatti soprannaturali del Giappone), uscito nel 2017, individua cinque categorie principali di kaibyō, o gatti strani: il nekomata (ancora gatto) dalla coda biforcuta, il bakeneko mutaforma (gatto mutevole), l’ibrido felino/umano neko musume (figlia gatto), il maneki neko (gatto che invita) e il kasha, ladro di cadaveri. Nessun altro animale, osserva con una certa ammirazione, ha tante varianti demoniache come il gatto.
All’interno della tassonomia ci sono vari gradi di malignità. Il più conosciuto tra questi gatti-demoni è il bakeneko. Ma che cos’è il bakeneko? È un gatto che è diventato simile a un umano? O è semplicemente un gatto che, un giorno, si è alzato in piedi sulle zampe posteriori per annunciare la sua improvvisa possessione? Nelle xilografie tradizionali, è spesso raffigurato come una creatura mostruosamente grande, con denti esagerati come le zanne di un mastodonte e occhi gialli selvaggi e ridenti. Vuole davvero farci del male o vuole solo spaventarci?
Qui entriamo nei limiti del folclore, che è allo stesso tempo inconfutabile e fortemente soggettivo. Questo è vero ovunque, ma forse in maniera più evidente in Giappone. Tutti riconoscono, per esempio, che la maggior parte degli animali e alcune persone possono diventare demoni, ma nessuno concorda su come o perché.
Secondo alcuni, il bakeneko si sarebbe evoluto come una specie di reazione allo zashiki warashi. Un tempo, in alcune regioni del Giappone si ricorreva all’infanticidio quando c’erano troppi figli da sfamare. La pratica era chiamata usugoro, che significa “uccidere con il mortaio”. Spesso, però, il bambino defunto tornava sotto le sembianze di un fantasma, lo zashiki warashi, che scuoteva le pareti della casa e ululava. In teoria, il grido del bakeneko somigliava a quello di un bambino – e soprattutto, era molto più accettabile immaginarsi perseguitati da un gatto che da un bambino morto. Ma “io questo non l’ho mai sentito”, ha commentato Bitter. “Quello che so io è che quando un gatto vive a lungo, più di dieci anni, diventa molto grosso e si trasforma in un demone”.
“Cosa intendi con ‘si trasforma in un demone?’”, ho chiesto.
“Diventa un demone perché è vecchio”, mi ha risposto.
“Cioè mi stai dicendo che ogni gatto che ha più di dieci anni o è un demone o sta per diventarlo?”.
“Sì”. Anche la complicata reputazione del gatto, tuttavia, potrebbe essere interpretata come un’ulteriore prova della sua importanza in una cultura che sembra avere grande rispetto per le creature imprevedibili. I gatti sono spesso accreditati come custodi delle prime scritture buddiste arrivate in Giappone. Eppure, come imparano fin dalla più tenera età i bambini cresciuti nella tradizione buddista giapponese, quando il Budda morì, gli unici due animali che non lo piansero pubblicamente furono il serpente… e il gatto.
Altri paesi o culture avrebbero messo all’indice il gatto per questo, ma il Giappone no. Anzi, questa consapevolezza, secoli dopo la morte del Budda nel 483 aC, sembra aver elevato il gatto agli occhi della gente. Qualsiasi cultura che dà valore alle buone maniere sotto sotto dà valore anche alla ribellione, e nel gatto i giapponesi probabilmente vedono un’invidiabile spavalderia, un’encomiabile padronanza di sé. Il gatto è una creatura che non fa ciò che le viene detto né ciò che ci si aspetta da lei. È una creatura che sceglie la sua strada imperscrutabile. E quindi va apprezzata – ma anche temuta. I gatti non sono stati l’unico elemento a scuotere la cultura giapponese nel sesto secolo. L’altro è stato il buddismo. Prima del buddismo, in Giappone c’era lo shintoismo. Nella maggior parte dei sistemi religiosi, il sacro si limita a poche entità o forme, se non a una sola. Nello shintoismo è l’opposto. A seconda delle prospettiva, questo può essere un segno di grande generosità o motivo di destabilizzazione, perché nello shintoismo tutto può essere divino: persone, animali, persino pietre e alberi. La domanda centrale di Marie Kondo, guru giapponese dell’organizzazione, sugli oggetti da buttare via o no – “mi dà gioia?” – assegna solo agli umani il diritto di prendere questa decisione, quando in realtà, nello shintoismo, ogni cosa dovrebbe poter porre la stessa domanda su ogni altra: “Questo oggetto mi dà gioia? E questa persona?”. Forse è proprio lo shintoismo il motivo per cui in Giappone agli animali viene data tanta importanza. Quando ci si trova in Giappone, ci si accorge di quanto poco spazio occupino gli animali nelle narrazioni del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam; l’unica preoccupazione di queste religioni è l’anima degli umani. Nello shintoismo, invece, le persone sono dentro un universo di cose animate: ammesso che siamo più importanti, non lo siamo di molto.
Una cultura sincretica
Il buddismo si è diffuso rapidamente in tutto il Giappone, ma non ha mai soppiantato lo shintoismo, che in ogni caso è stato abbastanza elastico da lasciargli spazio. I due sistemi – insieme a una tradizione folcloristica vibrante e ricca di immaginazione – si sono influenzati e arricchiti a vicenda dando vita a un’unica cultura sincretica, durata ufficialmente fino al 1868, quando il governo separò formalmente lo shintoismo, eretto a simbolo di una fede etnonazionalista, e il buddismo, di derivazione esterna, e ordinò ai templi buddisti e ai santuari shintoisti di distinguere riti e pratiche. Appena quindici anni prima, il commodoro della marina militare statunitense Matthew Perry aveva costretto il Giappone ad aprirsi all’occidente dopo un millennio d’isolamento autoimposto; il sentimento nazionalista, che avrebbe raggiunto l’apice nel secolo successivo, covava già sotto la cenere.
Nonostante la separazione, nota come shinbutsu bunri, nella vita di tutti i giorni cambiò poco. I monaci e i templi buddisti continuarono a praticare riti funebri e ancestrali; la gente continuò a pregare nei santuari shintoisti. Se in Giappone il buddismo definisce la morte, lo shintoismo definisce la vita.
Lo shintoismo è senza dubbio uno dei motivi per cui esistono luoghi come Aoshima. In Giappone non ci sono solo isole dei gatti (undici, per la precisione): c’è un’isola delle scimmie, un’isola dei conigli e un’isola dei cervi. E ci sono anche città dei cervi, in particolare Nara, che fu capitale del Giappone nell’ottavo secolo e ospita più di mille cervi sika, che dominano il parco principale e ogni tanto provano a prendere a cornate i visitatori (di qui i cartelli che invitano a non importunarli). Incontrare i cervi di Nara è una grande emozione – finché non diventano minacciosi – ma in generale, l’idea dei giapponesi è che gli animali fanno parte del quotidiano e, al di là di qualche sporadico abbattimento selettivo, è compito nostro accontentarli.
In Giappone ho sempre avvertito una specie di strana ambivalenza riguardo alla condizione dell’essere umano, visto ciò che le persone hanno fatto al mondo naturale. Nei suoi film Principessa Mononoke (1997) e La città incantata (2001), Hayao Miyazaki ci presenta la sua visione di un Giappone postumano e di mondi in cui la gerarchia tra esseri umani e animali è instabile. Nella città incantata, ambientato in uno stabilimento termale dei primi del novecento, gli esseri umani vengono trasformati in animali per punizione, ma alcuni animali, spesso dalle sembianze chimeriche, sono anche superiori degli umani, li fanno lavorare e gli impartiscono punizioni. In mezzo a loro, gli dei, alcuni spaventosi, altri allegri, ma tutti desiderosi di fare il bagno, entrano ed escono di scena, osservando i mortali con curiosità.
A differenza della maggior parte degli animali che ci circondano, come pecore, cani e cavalli, i gatti si sono addomesticati da soli
Riguardando recentemente il film, ho pensato agli esseri umani di Aoshima (oggi il loro numero si è ridotto a cinque) che devono dare da mangiare a tutti quei gatti. Fortunatamente non sono da soli; nello Shikoku c’è un gruppo di volontari che portano sull’isola cibo e provviste quando il mare è calmo. Nessuno, però, sembra pensare che questi cinque esseri umani debbano andarsene, anche perché l’isola è casa loro. E poi, dar da mangiare ai gatti è un loro dovere. I gatti, nonostante la loro indipendenza, non sono come le scimmie, le volpi o i cervi; per vivere dipendono da noi e dai rifiuti che creiamo (che, a loro volta, attirano i roditori). Ad Aoshima si assiste a un capovolgimento della moderna catena alimentare: troppo pochi umani, troppo pochi rifiuti, troppo pochi topi, troppi predatori. Il rapporto che produce sembra il frutto di un incubo o una fantasia di Miyazaki, spesso indistinguibili l’uno dall’altra: sono i gatti a tenere le persone in ostaggio, o sono le persone che hanno il privilegio di occuparsi dei gatti? Chi comanda davvero ad Aoshima? Oppure sbagliamo a considerare la situazione dell’isola in termini gerarchici? Siamo di fronte a un perfetto esempio di simbiosi shintoista dove, a seconda del contesto e delle circostanze, un giorno comandano gli esseri umani e poi si svegliano e scoprono di non comandare più? L’età degli esseri umani è agli sgoccioli. Dagli animali discendiamo e agli animali ritorneremo.
Un giro a Yanesen
Dopo il Gotokuji, io e Mihoko abbiamo deciso di metterci di nuovo alla ricerca di una società di gatti e abbiamo preso il treno per Yanaka, un quartiere nella parte nord di Tokyo. Yanaka fa parte di un distretto più grande, Yanesen, che comprende anche i quartieri di Nezu e Sendagi. Un tempo, questa zona era una distesa di risaie, e durante la guerra fu quasi risparmiata dai bombardamenti: oggi è una capsula del tempo vivente, con case in legno e carta di metà novecento e piccoli templi. A Tokyo, questi quartieri vengono chiamati shitamachi, una parola che letteralmente significa “città bassa” ma può essere più romanticamente tradotta con “città vecchia”, in ricordo di un’epoca in cui ogni quartiere aveva il suo piccolo produttore di tofu, la sua bottega che vendeva ombrelli di carta cerata e il suo negozio di senbei pieno di barattoli di vetro di cracker di riso croccanti. Il quartiere, grazioso e tranquillo, con poche auto e tante passerelle e gallerie pedonali, è famoso anche per i gatti: quelli in carne e ossa, naturalmente, ma anche per una serie di negozi che vendono gadget e dolci d’ispirazione felina.
L’ultima volta che ero venuta qui era stato sempre con Bitter, una decina d’anni prima. Stavolta, però, non c’erano gatti. A un certo punto mi sono animata alla vista di un bellissimo esemplare bianco, insolitamente grande, appollaiato sulla tettoia di un fruttivendolo e intento a osservare la strada; poi, man mano che ci avvicinavamo, mi accorgevo che era finto. Passeggiando per le strade strette, abbiamo notato altri gatti di fibra di vetro o di plastica che dalle tettoie o dai balconi scrutavano i banchi di daikon e carote di Kyoto, dello stesso colore dei pomodori. Chiunque li avesse fatti era stato bravissimo a cogliere la loro essenza, il modo in cui i gatti fanno capire che sono sempre sul punto di scatenare il caos, e che dovremmo essergli riconoscenti per non cedere all’impulso.
Il sole stava calando, e io e Mihoko ci siamo sedute in un caffé per discutere dell’assenza di gatti. Fino al 2014 il governo metropolitano di Tokyo ha optato per una politica di soppressione “dai contorni umani”, o almeno così ha tentato di sostenere: se i gatti fossero stati lasciati liberi di riprodursi non ci sarebbe stato cibo per tutti e molti sarebbero morti di fame facendo una fine lenta, triste e dolorosa. Riflettendoci, penso che la relativa scarsità dei gatti li renda più preziosi. Fino a un certo numero sono una curiosità; oltre quel numero, diventano infestanti. Lo stesso vale per i cervi a Nara: è come se il governo avesse capito che per continuare a dare valore a quegli animali bisognava in qualche modo gestirli, e che anche noi, di riflesso, dovevamo essere gestiti. Quando abbiamo chiesto alla cameriera dov’erano i gatti, non si è scomposta. “Ora fa freddo”, ha detto. “Sono da qualche altra parte”. Però non ci ha spiegato dove, e noi non abbiamo insistito; era più confortante pensare che se ne fossero andati solo temporaneamente, che si nascondessero come fanno sempre i gatti, un po’ come attori in congedo, e che in una casa accogliente, non lontana da lì, ci fossero stati tutti i gatti di Yanesen che dormivano, facevano le fusa e aspettavano la primavera, quando finalmente sarebbero tornati a sdraiarsi sulle passerelle di mattoni circondati dagli ammiratori.
O forse, magari, i gatti sapevano qualcosa che noi non sapevamo. Anche se Tokyo, con i suoi 14 milioni di abitanti, è ancora una delle città più grandi del mondo, altre parti del Giappone si stanno svuotando. Ogni anno, sui mezzi d’informazione occidentali, esce un articolo dai toni apocalittici su come i giovani stanno abbandonando le piccole città e i villaggi del Giappone per trasferirsi nelle metropoli; uno dei più struggenti è stato pubblicato nel 2015 su Foreign Affairs e parlava di Nagoro, un villaggio sperduto nello Shikoku. Se n’erano andate talmente tante persone – al tempo c’erano solo 35 abitanti, quasi tutti anziani – che una delle poche residenti rimaste si era messa in testa di ripopolare il villaggio con bambole di pezza a grandezza naturale: le cuciva, le vestiva e poi le sistemava nei giardini, nelle case e per le strade dove un tempo la gente lavorava, cucinava e giocava. Alla fine, la storia – quasi maestosa nella sua rassegnazione, nel suo dolore e nel suo pathos – è stata presa come un’ulteriore prova della stramberia dei giapponesi, come spesso succede in occidente di fronte a questi esempi di solitudine trascendente.
Le statistiche, però, sono più difficili da ignorare. Il Giappone è il paese più anziano del mondo industrializzato: i dati pubblicati nel 2022 dal ministero degli affari interni e le comunicazioni mostrano che il 29,1 per cento della popolazione ha più di 65 anni; secondo le stime, nel 2040 la percentuale salirà al 35 per cento. Prima della fine di questo secolo il Giappone diventerà davvero molto vecchio, e anche se ogni anno nasceranno nuove creature, sempre meno di queste creature saranno umane. Saremo noi a diventare demoni; anziché farci spaventare dai bakeneko, saremo noi che spaventeremo – o proveremo a spaventare – loro. Aoshima, in fondo, non è stata sempre un’isola di gatti; una volta era popolata soprattutto di persone, pescatori che avevano portato i gatti per scacciare i topi. Ma mentre gli umani a un certo punto non sono più riusciti a riprodursi, i gatti non hanno avuto questo problema. I vecchi nativi sono stati sostituiti dagli intrusi.
Solo l’inizio
Una settimana dopo, sull’aereo che mi avrebbe riportato a New York, ho guardato dal finestrino mentre decollavamo. Tokyo è talmente vasta che, dall’angolo giusto, sembra infinita: una griglia di cemento che si estende a perdita d’occhio. Da qualche parte, lì in basso, c’era Aoshima con i suoi cinque esseri umani e il suo numero imprecisato di gatti, e da qualche altra parte c’erano pure i gatti di Yanesen e tutti gli altri gatti del Giappone. Ad Aoshima aspettano che qualcuno gli dia da mangiare; a Yanesen aspettano che cambi il tempo, o almeno così mi piace pensare. Un gatto sa come aspettare, e anche se preferisce essere sfamato da noi, sa anche come sopravvivere.
Mi è venuto il dubbio di aver sopravvalutato la nostra importanza nella vita dei gatti: non solo di quei gatti, come li chiamava Mihoko, ma di tutti i gatti. Uno studio sul dna mitocondriale dei gatti pubblicato nel 2017 mostra che, a differenza della maggior parte degli animali che ci circondano, come pecore, cani e cavalli, i gatti si sono addomesticati da soli: ci sono pochissime differenze genetiche tra il gatto domestico moderno e il suo parente selvatico. Questo significa che sono stati loro a decidere di tollerare noi; loro hanno deciso di vivere tra noi. A farci pensare che siamo stati noi a decidere per loro è la hybris – una caratteristica tipicamente umana. Significa anche che un giorno i gatti potrebbero prendere la decisione opposta; che non ci considereranno più dei compagni divertenti e che la loro comunione con noi finirà. E poi se ne andranno. Dove? Su un altro pianeta che conoscono solo loro? Su un’isola che deve ancora affiorare dal mare?
Forse un giorno, tra molti anni, nell’arcipelago giapponese non ci saranno più creature umane. Ci saranno solo scimmie, cervi e conigli. E tutto intorno, su isolotti vuoti e ventosi e in villaggi disabitati ci saranno gatti, milioni di gatti, uno per ogni persona scomparsa. Si nasconderanno nei boschi, si arrampicheranno sui cedri giganti e miagoleranno perché avranno paura di scendere da soli. Chissà se gli mancheranno i nostri grandi corpi impacciati, il nostro chiacchiericcio incessante, la nostra cattiva vista al buio e il nostro pessimo olfatto, i nostri tentativi millenari di decifrarli. Chissà se gli mancherà il nostro amore. Ai gatti non importa nulla dei miti, dell’arte e delle storie che abbiamo costruito per provare a spiegare la nostra fascinazione nei loro confronti; la cronaca delle nostre relazioni è a senso unico.
Forse ci dimenticheranno come visitatori temporanei, e troveranno un’altra specie con cui sceglieranno di vivere. Molti proprietari di gatti misurano la loro esistenza in base al numero di gatti che possono avere: un gatto vive in media dai dodici ai quattordici anni, perciò, se siamo fortunati, in una vita possiamo avere sei gatti, uno dopo l’altro, dallo svezzamento alla morte.
Ma i gatti come misurerebbero il tempo se potessero farlo? Certamente non dal numero di esseri umani nella loro vita, ma forse (speriamo) dalle vite umane che gli passano davanti: una, due, tre, quattro. Un secolo, due secoli, tre secoli, quattro. Continuerebbero a contare e a strizzare gli occhi, a contare e a strizzare gli occhi, fino ad annoiarsi. Poi se ne andrebbero da qualche altra parte. Non importa il luogo: dovunque sarebbero dei re. Dove posano le loro zampe, una nuova mitologia. Dove strofinano i loro baffi, una nuova stirpe di supplici. Il Giappone non sarebbe la fine, sarebbe solo l’inizio. ◆ fas
Hanya Yanagihara è la direttrice di T – The New York Times Style Magazine. In Italia ha pubblicato Una vita come tante (Sellerio 2016).
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Questo articolo è uscito sul numero 1522 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati