Nel 2002 la statunitense Lydia Fairchild rischiò di perdere la custodia dei suoi tre figli dopo che un test aveva rivelato che nessuno di loro condivideva il suo dna. Risultò che il corpo di Fairchild era popolato da cellule di un gemello non omozigote che lei aveva assorbito prima di nascere, e questo ne faceva, in pratica, la zia biologica dei suoi figli.

Il termine tecnico per descrivere questi casi è “chimera umana”: un essere umano composto da cellule geneticamente distinte. Il fenomeno può avere cause artificiali, come una trasfusione o un trapianto, o naturali, come nel caso di Fairchild, tramite l’assorbimento di uno zigote gemello. Sono documentati solo cento casi di chimerismo naturale, ma potrebbero essercene molti di più. Gli scienziati stimano che nel 36 per cento delle gravidanze gemellari uno degli embrioni scompare. La maggior parte di questi embrioni probabilmente non lascia traccia, ma alcuni sono in parte assorbiti dall’altro. È improbabile che il sopravvissuto scopra la presenza genetica del fratello perduto, a meno che un test o un esame non lo riveli casualmente. Vai a fare un tampone e ti ritrovi con un gemello.

Molti trovano inquietante l’idea di portare inconsapevolmente dentro di sé i resti del proprio gemello. Una persona a cui ho parlato di Fairchild è scoppiata in lacrime. Io sono meno turbata da questo fenomeno, probabilmente perché so da decine di anni di avere una gemella. Julia è sopravvissuta alla nostra gestazione congiunta (non l’ho mangiata). E se scoprissi di averne un’altra da qualche parte, la cosa non mi sconvolgerebbe.

Quello che mi interessa principalmente delle chimere umane sono le implicazioni filosofiche, non personali. Cosa dovremmo pensare, sul piano metafisico, di Fairchild e dei suoi simili? I giornalisti che si sono occupati del caso non sapevano bene come farlo. “È la gemella di se stessa”, proclamava Abc News. “I molti te dentro di te”, scriveva Ed Yong sul National Geographic. “Come diventare due persone contemporaneamente”, suggeriva Interesting Engineering nel 2021. Questi titoli attirano l’attenzione perché mettono in discussione un presupposto basilare della cultura occidentale moderna: che ogni persona sia fisicamente distinta, nettamente diversa da tutte le altre, all’interno di un continuum ininterrotto di pelle.

In realtà, però, le chimere umane non smentiscono questa idea. Fairchild non è due persone in una, perché la semplice presenza di dna umano non indica quella di una persona. Tutti i capelli che lasciamo sul cuscino durante la notte sono biologicamente umani, ma ciò non significa che ogni volta che li perdiamo stiamo moltiplicando il numero di persone nella stanza. Essere una persona implica qualcosa di più che possedere un particolare tipo di materiale genetico: richiede l’organizzazione strutturale su larga scala di quel materiale, che produce tratti come la coscienza, il pensiero e l’azione morale. Da questo punto di vista, Fairchild è una sola persona.

Tuttavia, vale la pena riflettere sul presupposto secondo cui a ogni corpo corrisponde una sola persona, e c’è un caso molto più convincente della sua violazione. I gemelli siamesi, a differenza delle chimere, contengono un’unica linea cellulare genetica. Ma (quando hanno due teste) sono considerati due esseri unici e distinti, nonostante condividano un corpo. Spesso parlano di se stessi come individui e sviluppano personalità e gusti diversi. Anche la loro famiglia e i loro amici li vedono come due persone che si dà il caso sono fisicamente unite.

Il caso dei gemelli siamesi rivela la falsità dell’assunto che i corpi siano correlati uno a uno con le persone. E ammettere che non è così comporta serie implicazioni. Se un corpo può contenere due persone, perché una persona non potrebbe essere distribuita su due corpi?

Mai più bionde

Molti pensano che i gemelli non siano persone del tutto distinte, ma piuttosto un’unica entità, divisa o duplicata. Nella Dodicesima notte di Shakespeare, Antonio chiede a Sebastian e Viola: “Che diavolo di sdoppiamento è questo? Una mela spaccata per metà non offrirebbe due metà più identiche di queste due creature”. Il popolo nuer del Sud Sudan non celebra un funerale quando muore un gemello, perché crede che il defunto continui a vivere nell’altro. E ogni coppia di gemelli che conosciamo potrà raccontare di quando gli è stato dato un unico regalo di compleanno da condividere, o di essere stati chiamati “i gemelli” piuttosto che con i loro nomi individuali o ancora di essere stati trattati come essenzialmente intercambiabili da insegnanti, amici e parenti.

Per gran parte della mia vita mi sono opposta a questo atteggiamento. Certo, ci sono vari modi in cui un gemello può essere una controfigura, un sostituto, un accessorio o uno strumento di controllo per l’altro. Io e Julia non ci siamo mai sostituite in classe o con un partner sessuale, ma una volta abbiamo sconvolto un cliente della catena di librerie in cui lavoravamo entrambe, quando l’ho mandato al negozio di Julia dopo che aveva visitato il mio. Arrivato nell’altro negozio gli sembrò che io lo stessi aspettando lì. Da bambine e adolescenti, Julia e io eravamo bravissime a condividere le risorse mentali e materiali. Collaboravamo nei progetti creativi, studiavamo insieme per gli esami e ognuna di noi vedeva il proprio guardaroba crescere magicamente quando l’altra comprava un vestito. Ho affidato molti esperimenti di vita a Julia, la mia controparte più audace: ha provato prima di me la guida, il sesso e la chirurgia spinale, e la sua esperienza con l’ossigenatura ha fatto abbandonare per sempre a entrambe l’idea di diventare bionde.

Ma era una vera fusione metafisica? Assolutamente no, pensavo. Io e Julia abbiamo personalità distinte: lei è estroversa e assertiva, la Susan di Il cowboy con il velo da sposa. Io sono Sharon, docile e introversa, interessata soprattutto ai libri e al proprio gatto. Oggi viviamo in paesi diversi, distanti 19 ore di volo. Non so cosa fa Julia, per non parlare di cosa pensa. Se qualcuno le pesta un piede, non provo dolore. Se c’è un motivo per credere che siamo un’unica persona, ho sempre pensato, deve essere una qualche idea incoerente o mistica che sarebbe inutile prendere in considerazione.

Agenti plurali

Ultimamente però ho riflettuto di più sui gemelli, e non ne sono più così sicura. Adesso mi sembra che ci siano almeno tre modi in cui i gemelli possono veramente funzionare come una singola persona.

Prima di tutto, possono condividere una mente. Non mi riferisco alla telepatia, ma al fatto che usano la mente l’uno dell’altro, o meglio, usano la propria mente ma al di fuori del cranio che normalmente è associato a loro.

La mia gemella avrebbe aderito con entusiasmo a qualsiasi mia proposta

Nel loro articolo del 1998 The extended mind, i filosofi Andy Clark e David Chalmers sostenevano che, per identificare qualcosa come pensiero, basta individuare un processo che svolga lo stesso ruolo funzionale del pensiero. Non importa dove avviene il processo. Per esempio, se usare la calcolatrice del telefono svolge lo stesso ruolo del calcolo mentale, dovremmo considerare entrambi gli atti come forme di pensiero, e il telefono e il cervello dovrebbero essere classificati come un unico sistema cognitivo.

Se la nostra mente può estendersi a un oggetto inanimato, perché non a una persona? Alcune ricerche empiriche di psicologia sociale supportano questa ipotesi. Gli studi di Daniel Wegner su quella che l’autore definisce memoria transattiva esplorano il modo in cui le coppie o i gruppi si usano a vicenda come depositari di certi tipi di informazioni, consentendo a ognuno di ricordare più di quanto farebbe singolarmente. Le coppie “incrociano i ricordi”, lanciando suggerimenti fino a quando non innescano quello giusto. “In un certo senso si googlano a vicenda”, ha suggerito Clive Thompson su Slate.

Qualsiasi coppia può pensare in questo modo, ma i gemelli ne sono di certo l’esempio migliore. Io e Julia abbiamo fatto praticamente tutto insieme finché non mi sono trasferita all’estero a 21 anni: abbiamo frequentato le stesse scuole, eravamo interessate alle stesse materie, abbiamo vissuto a casa con i nostri genitori durante l’università, avevamo molti degli stessi amici e facevamo tutte le vacanze insieme. Io ho poca memoria per i dettagli, quindi mi fa comodo avere Julia a portata di mano per ricordare tutto questo. Mi fido dei suoi ricordi del nostro lontano passato quanto dei miei, se non di più, e quando cerco di riportare a galla i segreti più remoti della mia storia personale, non mi sembra poi così diverso dal chiedere a lei di farlo.

Un secondo modo in cui i gemelli possono condividere la loro persona è comportarsi come agenti plurali. I filosofi hanno definito il concetto di agire plurale in modi diversi, ma secondo Bennett Helm il punto cruciale è che due o più persone abbiano scopi e valori genuinamente comuni. Riconoscono di avere una serie di obiettivi condivisi, si impegnano ad agire in gruppo per perseguirli e si prendono cura del gruppo stesso, considerandolo parte della propria azione. In questo modo, creano una nuova entità unificata oltre ai loro sé individuali. I gemelli sono un ottimo esempio di agente plurale. Come ha scritto Laura Spinney su Aeon, “nei casi migliori” i gemelli hanno “un’assoluta fiducia reciproca, un’idea altamente sviluppata della mente dell’altro e una capacità di lavorare insieme che supera quella di qualsiasi altra diade umana”.

Io e Julia eravamo così da bambine, tanto da fare probabilmente invidia ai nostri amici. Potevo contare sul fatto che la mia gemella avrebbe aderito con entusiasmo a qualsiasi mia proposta, che si trattasse di scrivere insieme un romanzo (io scrivevo, Julia disegnava le illustrazioni), organizzare una festa, o rendere qualcuno fico come noi (chi può resistere al potere seduttivo dei gemelli?). Eseguivamo le nostre varie missioni insieme, quasi senza attrito. Era come avere una marcia in più per la nostra volontà.

Dalla serie About face (Susan Swihart)

Infine, i gemelli possono condividere non solo la cognizione e l’azione, ma anche l’identità. Le persone che formano regolarmente un agente plurale in aree importanti ed estese della loro vita arrivano a identificarsi profondamente le une con le altre, e la loro relazione diventa fondamentale per definirle. Questo è probabilmente ciò che Aristotele aveva in mente quando si riferiva a un caro amico come a “un altro sé”, e spiega perché la morte di una persona cara può causare una sofferenza così profonda. Se muore un caro amico, perdiamo la persona plurale che formavamo insieme. Se abbiamo agito come quella persona in tanti ambiti della nostra vita, non è puramente metaforico dire che ci è stata strappata una parte di noi stessi.

Non tutti i gemelli vanno d’accordo ma, quando succede, il loro legame è speciale. Quando un gemello muore, il sopravvissuto sperimenta in media il punteggio più alto in assoluto nella scala dell’intensità del lutto. Una volta ho letto di una conferenza che includeva una sessione sul lutto per la perdita di un gemello. A quanto pare, nessuno dei partecipanti si è presentato: non potevano sopportare l’idea. L’ho detto a Julia e lei ha annuito. Non ce l’avrebbe fatta neanche lei.

Ora penso che questi tre fenomeni – la condivisione della cognizione, dell’azione e dell’identità – supportino l’ipotesi che i gemelli condividano la persona in misura significativa. Ma sono ancora contraria all’idea che io e Julia siamo semplicemente la stessa persona. Questo implicherebbe alcune cose piuttosto assurde: per esempio, che se Julia commettesse un crimine, non ci sarebbe alcuna differenza morale tra punire lei e punire me; che io sarei la madre invece che la zia di suo figlio; e che qualunque uomo io frequenti, starebbe uscendo anche con lei. Che caos!

Come posso conciliare la sensazione che il mio sé sia separato da quello di Julia e al tempo stesso condiviso con lei? Ultimamente ho pensato che il problema stia nel vedere il concetto di persona come unitario e statico. E se invece fosse dinamico e discontinuo? E se una persona non fosse solo quello che siamo, ma anche quello che facciamo? Dal momento che le nostre azioni variano nel tempo, potremmo entrare e uscire dalle persone condivise con qualcun altro, in momenti e campi della vita diversi, e a diversi livelli, a seconda di come interagiamo con loro.

La mia vita conferma questa idea. Julia e io non viviamo nello stesso paese da più di vent’anni, e le occasioni in cui il confine tra noi sembra sfumare oggi sono più rare di quando vivevamo l’una accanto all’altra. Ma queste esperienze di fusione si verificano ancora, di solito quando trascorriamo un lungo periodo di tempo insieme. Un caso recente piuttosto eclatante è stato quando io e Julia eravamo entrambe di fretta e mi sono trovata a offrirmi distrattamente di andare in bagno a fare pipì per lei. Penso davvero di condividere la vescica con la mia gemella? No. Penso di condividere la mia persona con lei? In questi giorni, mi sembra proprio di sì.

Nella cultura occidentale, quando qualcuno dice che i gemelli sono una sola persona, spesso sembra voler dire che un singolo gemello è meno di una persona: che né io né Julia, per esempio, siamo persone complete a causa del nostro rapporto troppo stretto. “È arrivato il momento di smettere di essere gemelle e cominciare a essere persone”, dice il fidanzato di una sorella nel romanzo per adolescenti Double trouble (1964) di Carol Morse. “Diventare persone separate”. Come se le due cose fossero equivalenti.

I gemelli reagiscono comprensibilmente male a questa idea, dal momento che un potente insieme di norme ci dice che solo le persone complete possono essere agenti morali, cittadini portatori di diritti, dignità e valore. Essere una persona a metà è come non essere affatto una persona.

Un pezzo di cuore

Ma se invece fosse sbagliata la premessa di fondo che essere una persona completa richiede la totale separazione dall’altro? Solo da relativamente poco tempo la nostra specie pensa che la vita migliore sia quella individuale e autonoma, libera dall’influenza e dalle aspettative degli altri. Per la maggior parte del passato umano, in gran parte del pianeta, la persona è stata radicata nelle relazioni sociali. Chi eri dipendeva da come ti adattavi a una rete interdipendente di relazioni parentali e comunitarie. I gemelli che condividono la persona possono essere visti come un problematico ritorno a quell’oscuro passato. Oppure possono essere visti come una dimostrazione della verità e della bellezza dell’immagine più antica.

Non abbiamo davvero bisogno di chimere o di gemelli per rivelare la natura profondamente relazionale della nostra specie. La condivisione della persona è comune in molti altri tipi di coppie. I neogenitori parlano della sorprendente sensazione di avere una parte di sé che vive al di fuori del loro corpo: il figlio è un pezzo del loro cuore che dorme tranquillamente nella stanza accanto. Frank Sinatra cantava: “Sei sotto la mia pelle… così profondamente nel mio cuore da essere veramente una parte di me”. Dopo la morte del suo migliore amico, Michel de Montaigne scrisse: “Ero così abituato ad avere un secondo me che adesso solo la metà di me sembra essere viva”. Possiamo prendere tutto questo in senso figurato, oppure trattarlo come una teoria metafisica letterale e sostenibile. Dopotutto, se noi gemelli possiamo accettare il superamento della barriera del nostro corpo fisico, cosa impedisce agli altri di farlo? Cosa ci rende così sicuri che siamo interamente contenuti in quell’unico involucro di pelle? ◆bt

Helena de Bres insegna filosofia al Wellesley college, negli Stati Uniti. Insieme alla sua sorella gemella Julia ha scritto How to be multiple: the philosophy of twins (Bloomsbury 2023).

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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati