È finita. Facebook è in declino, Twitter nel caos. Il valore dell’impero di Mark Zuckerberg è diminuito di centinaia di miliardi di dollari e l’azienda ha licenziato undicimila dipendenti; la sua raccolta pubblicitaria è in difficoltà e il progetto del metaverso è in stallo. Dopo che Elon Musk ha comprato Twitter, gli inserzionisti hanno ritirato gli investimenti e molti utenti influenti hanno lasciato la piattaforma o almeno hanno detto di volerlo fare. L’idea che l’epoca dei social network possa finire, e presto, non è mai sembrata così verosimile.
Ora che siamo approdati su questa riva inaspettata, possiamo contemplare con occhi nuovi il naufragio che ci ha lasciati qui. Forse saremo sollevati: i social network non sono mai stati un mezzo naturale per lavorare, giocare e socializzare, anche se sono diventati una seconda natura. L’uso che abbiamo fatto di queste piattaforme si è evoluto attraverso una strana mutazione, così sottile che n0n ce ne siamo accorti.
La transizione è cominciata vent’anni fa, quando praticamente tutti i computer si sono connessi alla rete e le persone hanno cominciato a usarli per costruire e gestire i loro rapporti. Costruire reti sociali online aveva i suoi problemi – per esempio collezionare amici contava più dell’essere amichevoli con loro – ma erano niente rispetto a quello che è successo dopo. Lentamente e senza clamore, i social media hanno preso il sopravvento. Il cambiamento è stato quasi impercettibile, ma ha avuto conseguenze enormi. Invece di facilitare le connessioni esistenti – in gran parte in funzione della vita offline, per esempio per organizzare una festa di compleanno –, i social le hanno trasformate in mezzi di comunicazione potenziali. In un colpo solo, miliardi di persone si sono convinte di essere celebrità e opinionisti, e di poter creare nuove tendenze.
Una rete globale in cui ognuno può dire qualsiasi cosa a chiunque ogni volta che vuole – e in cui tutti pensano di meritare questa possibilità – è una pessima idea di partenza, legata al concetto stesso di social media: sistemi creati e usati per generare un flusso infinito di contenuti.
Ma ora, forse, siamo arrivati alla fine. Il possibile declino di Facebook e Twitter (e di altri) è un’opportunità: non per passare a un’altra piattaforma simile, ma per accettare la loro rovina, cosa impensabile fino a qualche anno fa.
Tempo fa sul nostro pianeta c’erano tanti social network. Nel 1997 fu lanciato Six Degrees, che aveva preso il nome da un’opera teatrale ispirata a un esperimento psicologico. Chiuse subito dopo la bolla tecnologica del 2000: il mondo non era ancora pronto. Nel 2002 arrivò Friendster, seguito da MySpace e LinkedIn, poi da hi5 e da Facebook, nato nel 2004 per gli studenti universitari. Lo stesso anno vide l’arrivo anche di Orkut, realizzato e gestito da Google. Nel 2005 fu il turno di Bebo, poi comprato da Aol. Durarono poco Google Buzz e Google+. Forse non ne avete mai sentito parlare, ma prima che Facebook fosse ovunque, molti di loro erano incredibilmente diffusi.
Le persone non sono fatte per parlarsi tanto. Non dovrebbero avere tanto da dire, non dovrebbero aspettarsi di ricevere tanta attenzione
Anche i siti di condivisione dei contenuti servivano da social network, consentendo di vedere contenuti postati soprattutto da persone conosciute o da celebrità, non da chiunque nel mondo. Tra questi c’erano Flickr, per la condivisione di foto, e YouTube, un tempo considerato una sorta di Flickr per i video. I blog – e i servizi simili ai blog, come Tumblr – li affiancarono, ospitando interventi che poche persone vedevano e pochissime commentavano. Nel 2008 Geert Lovink, esperto olandese di mezzi di comunicazione, pubblicò un libro sui blog e sui social network il cui titolo riassumeva la loro portata: Zero comments (Mondadori 2008).
Strumenti tossici
Oggi ci si riferisce a questi e ad altri servizi come social media, un termine così familiare che ha smesso di avere un significato preciso. Eppure vent’anni fa quest’espressione non esisteva. Molti di questi siti si inserivano all’interno della rivoluzione del cosiddetto web 2.0 dei contenuti generati dagli utenti, offrendo strumenti facili da usare e da sfruttare sui siti e poi sulle applicazioni per i telefoni. Erano concepiti per creare e condividere content, una parola che fino ad allora in inglese significava “contenti”, se pronunciata in modo diverso. Ma all’epoca, e per anni, questi strumenti sono stati definiti social network o, più spesso, servizi di social network (Sns). Il numero di questi servizi cresceva tanto che fu inventato un acronimo divertente: Yasn, cioè “yet another social network”, l’ennesimo social network.
Come suggeriva il nome, i social network implicavano la creazione di connessioni, non la pubblicazione di contenuti. Collegando la propria rete personale di contatti scelti (“legami forti”, come li chiamano i sociologi) alle reti di altre persone (tramite “legami deboli”), si poteva creare una rete più grande di contatti affidabili. LinkedIn prometteva di facilitare la ricerca di lavoro e la creazione di reti nel mondo degli affari attraverso vari livelli di connessione. Friendster lo faceva per le relazioni personali, Facebook per i compagni di università e così via. L’idea di fondo era il networking: costruire o approfondire i rapporti, soprattutto con persone conosciute. Le modalità e le ragioni di questo approfondimento erano in buona parte lasciate alla discrezione degli utenti.
Le cose sono cambiate quando i social network sono diventati social media, intorno al 2009, tra l’introduzione degli smartphone e il lancio di Instagram. Invece di creare legami, i social media hanno offerto la possibilità di pubblicare contenuti che potevano essere visti da un gran numero di persone, ben oltre le reti di contatti diretti. I social media hanno trasformato tutti in produttori e diffusori di contenuti. I risultati sono stati disastrosi, ma anche piacevoli ed estremamente redditizi: una combinazione catastrofica.
I termini social network e social media sono ormai usati in modo intercambiabile, ma non dovrebbe essere così. Un social network è uno schedario in cui conservare dei contatti, un sistema passivo. Invece i social media sono attivi – anzi, iperattivi – e riversano costantemente contenuti su queste reti.
Nel 2003 uscì uno studio, pubblicato dall’Enterprise information systems, che per la prima volta faceva notare questo aspetto. Gli autori descrivevano i social media come un sistema in cui gli utenti partecipavano a uno “scambio di informazioni”. La rete, che in precedenza era stata usata per stabilire e mantenere relazioni, era reinterpretata come un mezzo attraverso il quale diffondere contenuti. Era un concetto nuovo. Quando nel 2005 il gruppo editoriale News Corp comprò MySpace, il New York Times definì il sito “una piattaforma di musica e ‘networking sociale’ per i giovani”. Il suo contenuto principale, la musica, era cioè separato dalle sue funzioni di rete sociale. Anche la visione di Zuckerberg per Facebook, “connettere tutto il mondo”, prevedeva la creazione di legami, non di contenuti.
La tossicità dei social media fa dimenticare quanto questa innovazione fosse magica all’inizio. Tra il 2004 e il 2009 bastava iscriversi a Facebook e tutte le persone che si conoscevano, comprese quelle di cui si erano perse le tracce, erano lì, pronte a connettersi o a riconnettersi. I post e le foto che vedevo descrivevano l’evoluzione della vita dei miei amici, non le teorie cospirazioniste condivise dai loro amici squilibrati. LinkedIn faceva lo stesso per il mondo degli affari, rendendo le segnalazioni, le trattative e la ricerca di lavoro molto più semplici di quanto fossero in precedenza.
Twitter, lanciato nel 2006, è stato probabilmente il primo vero social media, anche se all’epoca nessuno lo chiamava così. Invece di concentrarsi sulla connessione tra le persone, il sito era una sorta di grande chat room mondiale. Twitter serviva a parlare con tutti e questo è forse uno dei motivi per cui i giornalisti ci sono arrivati in massa. È vero che in teoria un blog poteva essere letto da chiunque avesse una connessione a internet, ma in pratica era difficile trovare un pubblico di lettori. Per questo motivo i blog hanno funzionato prima come social network, attraverso meccanismi come il blogroll (la raccolta di link ad altri blog) e i linkback (un link al proprio blog da un altro sito). Su Twitter, invece, tutto quello che era pubblicato poteva essere visto istantaneamente da chiunque. Inoltre, a differenza dei post sui blog, delle immagini su Flickr o dei video su YouTube, i tweet erano brevi e poco impegnativi: era facile pubblicarne molti durante una settimana o perfino in un giorno.
Il concetto di “piazza globale”, come l’ha definita Elon Musk, emerge da tutti questi fattori. Su Twitter è possibile essere immediatamente al corrente di qualsiasi notizia. Questo è anche il motivo per cui i giornalisti sono diventati così dipendenti da Twitter: è un flusso costante di fonti, eventi e reazioni, un distributore automatico di notizie, oltre che una vetrina per i mezzi d’informazione.
Instagram, lanciato nel 2010, potrebbe aver gettato un ponte tra l’epoca dei social network e quella dei social media. Usava le connessioni tra gli utenti come meccanismo per l’attività principale, che era diffondere contenuti. Ma ben presto tutti i social network sono diventati soprattutto social media. Con la creazione dei gruppi, delle pagine e della sezione notizie, Facebook ha cominciato a incoraggiare gli utenti a condividere i contenuti pubblicati da altri per aumentare il coinvolgimento sul sito, più che per aggiornare gli amici. Anche LinkedIn ha dato la possibilità di pubblicare contenuti su tutta la piattaforma. Twitter ha aggiunto la funzione “retweet”, facilitando molto la diffusione virale dei contenuti.
Accelerare il declino
Altri servizi sono stati creati o si sono evoluti in questo senso, tra cui Reddit, Snapchat e WhatsApp, tutti molto più popolari di Twitter. Le reti sociali, un tempo strade per raggiungere possibili contatti, sono diventate autostrade di contenuti continui. Nella loro ultima fase, gli elementi tipici dei social network sono passati in secondo piano. Su TikTok si possono seguire utenti specifici, ma l’app è soprattutto un flusso ininterrotto di contenuti video scelti da un algoritmo. Per usare alcune funzioni di questi servizi è ancora necessario connettersi con altri utenti. Ma la connessione non è più l’elemento centrale. Pensate a questo cambiamento: nell’era dei social network, le connessioni erano essenziali perché spingevano a creare contenuti; l’epoca dei social media, invece, punta alle connessioni più esili possibili, quanto basta per far fluire i contenuti.
Quest’evoluzione ha creato sia opportunità sia problemi. Facebook e altre piattaforme hanno registrato un grande aumento dell’attività degli utenti e dei ricavi pubblicitari. Lo stesso fenomeno ha creato anche il sistema degli influencer, in cui i singoli utenti dei social media sono diventati preziosi mezzi di diffusione di messaggi promozionali o di sponsorizzazioni di prodotti grazie al numero reale o immaginario di persone che vedono i loro post. Le persone comuni hanno potuto guadagnare un po’ di soldi o perfino diventare ricche creando contenuti online. Le piattaforme hanno venduto questa promessa, creando programmi e meccanismi per facilitarla. Quello dell’influencer è diventato un ruolo ambito, in particolare tra ragazze e ragazzi a cui è sembrato più facile diventare famosi attraverso Instagram che in modi più tradizionali.
Il risultato è stato disastroso da molti punti di vista. In primo luogo, i gestori dei social media hanno scoperto che più il contenuto era carico di emozioni, più si diffondeva. Le informazioni polarizzanti, offensive o semplicemente false erano l’ideale per raggiungere questo scopo. Quando le piattaforme se ne sono rese conto e gli utenti si sono ribellati, era troppo tardi per disattivare il meccanismo.
L’ossessione per l’accumulo di contatti, che da sempre affligge i social network, ha alimentato il problema. Riunire gli amici o i contatti di lavoro nel recinto del proprio profilo online per sfruttarli in futuro non è mai stato un modo sano di intendere le relazioni sociali. Nel 2003 era comune essere ossessionati dal numero di contatti su LinkedIn come oggi lo è desiderare follower su Instagram. Ma quando i social network sono diventati social media, le aspettative degli utenti sono aumentate. Spinte dalle pressioni degli investitori e poi dalle richieste di Wall street, le aziende tecnologiche – Google, Facebook e tutte le altre – sono diventate dipendenti dai numeri su larga scala. Raggiungere più persone possibili in modo facile ed economico, traendone beneficio, ha attirato tutti: il giornalista che cerca di farsi una reputazione su Twitter; il ventenne che punta a trovare sponsorizzazioni su Instagram; il dissidente che promuove la sua causa su YouTube o cerca di scatenare una rivolta usando Facebook; le persone che vendono sesso, o la loro immagine, su OnlyFans; il falso guru che si fa pagare per dare consigli su LinkedIn. I social media hanno dimostrato che tutti hanno la possibilità di raggiungere un pubblico enorme a basso costo e ad alto profitto, e questo potenziale ha dato a molte persone l’impressione di meritare un simile pubblico.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Sui social media tutti credono che ogni utente sia tenuto a prestargli ascolto: uno scrittore che posta un articolo, una celebrità che annuncia un progetto, l’anonimo che esprime la sua angoscia. Quando le connessioni si creano, per qualsiasi motivo o per nessun motivo, allora sembra che ognuna meriti di essere percorsa. È un’idea terribile. Le persone non sono fatte per parlarsi così tanto. Non dovrebbero avere così tanto da dire, non dovrebbero aspettarsi di ricevere un’attenzione così grande e non dovrebbero nemmeno presupporre il diritto di commentare o controbattere ogni pensiero o concetto. Dalla richiesta di recensire ogni prodotto acquistato alla convinzione che ogni tweet o immagine di Instagram meriti un like, un commento o un follower, i social media hanno prodotto una rappresentazione della socialità umana decisamente squilibrata e sociopatica. Non c’è da sorprendersi, visto che il modello è stato progettato in luoghi di lavoro come Facebook, in cui la sociopatia fa parte della filosofia aziendale.
Se Twitter dovesse fallire, per il crollo dei guadagni o per l’enorme debito imposto dall’accordo di Musk, l’esito potrebbe contribuire ad accelerare il declino dei social media in generale. Sarebbe anche tragico per chi si è affidato a queste piattaforme per trovare notizie, connettersi con gli altri, fare conversazione o per semplice compulsione. È questa l’ipocrisia del momento. La corsa ai like e alle condivisioni è piaciuta tanto perché l’epoca dei zero commenti era stata desolante, e perché la ricerca dei grandi numeri ha ucciso le alternative molto tempo fa.
Se un cambiamento è possibile, realizzarlo sarà difficile, perché abbiamo trasformato le nostre vite per adattarci ai piaceri e ai tormenti dei social media. Sembra che rinunciarci sia difficile tanto quanto lo è stato smettere di fumare in massa, come hanno fatto gli statunitensi nel novecento. Per farla finita con le sigarette ci sono voluti decenni di leggi, campagne di sensibilizzazione, stigma sociale e cambiamenti estetici. Non abbiamo smesso di fumare solo perché era sgradevole, poco alla moda o perfino perché poteva ucciderci. Lo abbiamo fatto lentamente e col tempo, costringendo la vita sociale a soffocare questa abitudine. Ora c’è bisogno di un processo simile per i social media.
La nostra parte
Qualcosa si potrebbe salvare: i social network, il cuore trascurato di queste piattaforme. Non è mai stata una cattiva idea usare i computer per connettersi agli altri di tanto in tanto, per motivi giustificati e con moderazione. Il problema è stato quello di farlo sempre, come stile di vita, aspirazione, ossessione. L’offerta è sempre stata troppo bella per essere vera, ma ci sono voluti vent’anni per capire la natura diabolica dell’accordo. Un giorno, alla fine, forse la sua tela si scioglierà. Ma non presto e non facilmente.
Un anno fa, quando ho parlato per la prima volta di un ridimensionamento, quest’obiettivo sembrava necessario ma impossibile. Sembra ancora improbabile, ma forse di nuovo plausibile. È una vittoria, anche se piccola, a patto che l’astinenza non ci riporti alla dipendenza. Per avvicinarci all’essenza della vita sociale, dobbiamo imparare di nuovo a contenerla, in tutto il mondo, tra miliardi di persone. Parlare di meno, con meno gente e meno spesso, e fare in modo che gli altri facciano lo stesso con voi e con tutti. Non possiamo rendere buoni i social media, perché sono intrinsecamente dannosi. Tutto ciò che possiamo fare è sperare che appassiscano, e fare la nostra piccola parte nel contribuire ad abbandonarli. ◆ svb
Ian Bogost è un giornalista dell’Atlantic e professore di interactive computing al Georgia institute of technology.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati