“Vi prometto tanta bellezza”, ha annunciato il brasiliano Adriano Pedrosa inaugurando la Biennale di Venezia Foreigners everywhere (Stranieri ovunque) da lui curata. Non ha deluso le aspettative. Il titolo in neon rossi e verdi realizzati dal collettivo Claire Fontaine all’ingresso dei Giardini, e riproposto in tanti colori e lingue che si riflettono penzolanti sull’ultima vasca dell’Arsenale, s’ispira a un’opera realizzata per criticare la xenofobia dell’Italia nei confronti dei migranti, ma non fa la paternale.
Negli ultimi vent’anni nessuna mostra centrale della Biennale ha vantato una simile varietà di dipinti trascinanti e di sculture armoniose e formalmente soddisfacenti. La mostra di Pedrosa è così tradizionale da risultare radicale. Le installazioni sono rare, così come le opere video, quasi del tutto assenti il digitale e l’intelligenza artificiale. L’antica ed eurocentrica Biennale riecheggia invece la pittura che attraversa cent’anni, con artisti provenienti dal “sud globale”, gli “stranieri”.
Un posto nel canone
Pedrosa rivendica un posto nel canone per latinoamericani, mediorientali, asiatici e africani. Più della metà degli artisti sono morti. Tra chi è ancora vivo, pochi sono famosi. In La del albanico verde (1919), la figura fratturata e sensuale in rosa dipinta dal cubista argentino Emilio Pettoruti regge un ventaglio verde che con le sue pieghe dinamiche anima l’intera composizione. Il pioniere iracheno Jewad Selim gioca con forme di mezzelune e lune piene in Donna e brocca (1957). Nei ritratti a grandezza naturale e dall’intricata stratificazione di sconosciuti eroi neri brasiliani di Dalton Paula – Pacífico Licutan e Ganga Zumba, entrambi del 2024 – le teste in foglia d’oro risplendono come aureole, uno stropicciato impasto bianco disturba la lucentezza morbida di abiti eleganti, con increspature e spazi che diventano metafora della turbolenza e del vuoto nelle narrative coloniali.
Arricchire di sfumature geografiche il canone del novecento non è certo un’operazione originale. Eppure la sezione storica di Pedrosa ai Giardini è godibile, accessibile, coesa, ribadisce la vitalità del tocco umano nel fare e conferma l’arte come progetto umano.
Emblematico è l’espressivo ritratto di un giovane giamaicano, Johnny Cool (1967) di Osmond Watson.
L’ottimismo modernista e la fede nella forza dell’arte di cambiare le cose espressi da Pedrosa si percepiscono perfino nelle opere contemporanee di protesta o addirittura di lutto in mostra all’Arsenale. Imitando gli antichi mosaici, Omar Mismar reimmagina la guerra siriana nella sua opera Fantastical scene (2019-2020), in cui un leone, assad in arabo, è sopraffatto da un toro, thawr (in arabo rivoluzione si dice thawra).
Nell’opera Prêt-à-patria (2021) di Bárbara Sánchez-Kane, soldati messicani in marcia sono montati l’uno sull’altro con indosso uniformi che, aperte sul retro, mostrano biancheria intima, un’interpretazione sardonica e oscena del nazionalismo e del potere maschile. Electric dress di Puppies Puppies, una figura ornata di luci colorate, sembra un’opera comica ma non lo è. Sulla cinta c’è scritto “Pulse”, il locale gay della Florida in cui nel 2016 furono uccise 49 persone.
Il meglio è esuberante e azzarda l’umorismo; il peggio è un sovraccarico di monotone opere tessili che alludono all’artigianato. I pezzi più grandi della mostra sono il murale Diaspora, del collettivo indiano di donne cis e transgender Aravani Art Project, e Rage is a machine in times of senselessness, puerile dipinto in tessuto e olio con cui Frieda Toranzo Jaeger celebra il sesso lesbico.
Cosa insolita, il momento più memorabile all’Arsenale è storico. Una ricostruzione dei progetti dell’architetta modernista italiana Lina Bo Bardi dedicati ad alcuni artisti italiani della diaspora, tra cui il bassorilievo in calcestruzzo di Costantino Nivola in Studio per lo showroom Olivetti a New York (1953), ispirato alle maschere sarde e ai totem dei nativi americani, o Mother and child (1963-2010) di Edoardo Villa, una colonna di forme impilate che s’intrecciano in una maestosa figura femminile, influenzata dal classicismo e dalla scultura africana.
Finestre sul mondo
Il tema di Pedrosa è talmente forte, fertile e giusto per questi tempi da caratterizzare quasi tutti i padiglioni nazionali. Molti paesi occidentali hanno scelto artisti dei popoli indigeni o con una storia di migrazioni. Alcuni – come quello britannico e quello francese – hanno prodotto padiglioni straordinari. Altri però sono spenti e monodimensionali, in particolare quello degli Stati Uniti curato da Jeffrey Gibson, con The space in which to place me, pacchiane sculture incastonate di perline che alludono alle tradizioni e alle storie dei nativi americani. Cosa che come sempre rende unica la Biennale di Venezia, i paesi che vivono o sono vicini a tragedie chiedono di essere ascoltati. Una Polonia con il cuore lacerato dedica il suo padiglione a Repeat after me II del collettivo ucraino Open Group, sulla cacofonia quotidiana della guerra. L’Ucraina mette in mostra Civilians. Invasion, enciclopedia filmica della violenza, di Daniil Revkovskyi e Andrii Rachynskyi. La Russia ha offerto il suo padiglione chiuso alla Bolivia, che non è riuscita ad aprire in tempo. Il padiglione di Israele, sorvegliato dai carabinieri, aprirà – si legge in una nota affissa davanti alla struttura vuota – “quando sarà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e la restituzione degli ostaggi”.
La Germania, con la sua facciata di epoca nazista ricoperta dall’ormai abituale cumulo di macerie, è rappresentata in Thresholds da due progetti: gli striduli ma poco memorabili film dell’israeliana Yael Bartana e un’indimenticabile performance partecipativa del regista teatrale Ersan Mondtag, che ha antenati turchi. La sua rappresentazione, con attori che si contorcono su una scalinata di ferro coperta da polvere in un bunker di cemento tra scene domestiche distrutte, racconta della morte del nonno, operaio in una fabbrica di amianto. Fuori ci sono lunghe code e al suo interno, claustrofobico e nebbioso, sussulti che mozzano il fiato. ◆ gim
◆ La giuria della sessantesima Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia, presieduta dalla statunitense Julia Bryan-Wilson, ha assegnato il Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale all’Australia per il padiglione Kith and kin, realizzato da Archie Moore e curato da Ellie Buttrose. Il Leone d’oro per il miglior partecipante assoluto è andato al collettivo neozelandese Mataaho. La britannica di origini nigeriane Karimah Ashadu ha vinto il Leone d’argento come artista più promettente.
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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati