Chiunque abbia imparato una seconda lingua avrà fatto una scoperta esaltante (e anche, in qualche modo, destabilizzante): non c’è mai una corrispondenza di significato univoca di parole e frasi tra una lingua e un’altra. Anche le espressioni più banali hanno sfumature leggermente diverse, frutto di una serie d’idee e atteggiamenti. Passando da una lingua all’altra, a volte ci sembra di uscire da un mondo e di entrare in un altro. È come se ogni lingua ci spingesse a parlare in un certo modo e a vedere le cose da una particolare prospettiva. Ma è solo un’illusione? È vero che ogni lingua incarna una visione del mondo diversa, o addirittura che impone specifici schemi di pensiero a chi la parla?
Nell’università oggi, queste domande di solito sono ricondotte al concetto di “relatività linguistica” o ipotesi di Sapir-Whorf. La ricerca contemporanea si focalizza sul definire con precisione questi interrogativi, provando a formularli in termini rigorosi che possano essere messi alla prova empiricamente.
È vero che ogni lingua incarna una visione del mondo diversa, o addirittura che impone specifici schemi di pensiero a chi la parla?
Ma le idee attuali sui collegamenti tra lingua, mente e visione del mondo hanno una lunga storia che attraversa le epoche. Un tema ricorrente è lo scetticismo che circonda la relatività linguistica, un atteggiamento che non nasce solo dalla difficoltà di definire il concetto, ma anche da una profonda ambivalenza sui presupposti e le implicazioni delle dottrine relativistiche.
La posta in gioco è alta quando ammettiamo la possibilità della relatività linguistica, perché questa incide direttamente sulla nostra capacità di comprendere la natura del linguaggio umano. Uno dei postulati più antichi è di Aristotele, e afferma che le parole sono delle semplici etichette applicate alle idee per poterle condividere con gli altri. La relatività linguistica, invece, descrive il linguaggio come una forza attiva nel dare forma ai nostri pensieri. In più, se ammettiamo l’esistenza di una differenza di fondo tra le lingue e tra le visioni del mondo teoricamente collegate a esse ci troviamo di fronte a una serie di questioni spinose su ciò che costituisce la nostra umanità. È possibile che ci siano abissi incolmabili di pensiero e percezione tra gruppi di persone che parlano lingue diverse?
Le radici delle riflessioni sulla relatività linguistica risalgono almeno all’illuminismo, tra la fine del settecento e i primi anni dell’ottocento. Le discussioni illuministiche erano spesso formulate in termini di “genio” di una lingua, un’espressione coniata originariamente in francese come génie de la langue. Era usata in una varietà di sensi, al punto che spesso non era chiaro cosa volesse dire di preciso. Un commentatore contemporaneo osservava: “Spesso chiediamo cos’è il genio di una lingua, ma è difficile spiegarlo”. Ciò che possiamo dire è che per “genio di una lingua” si intendeva il suo carattere distinto, che si riteneva incarnasse in qualche modo la mentalità nazionale di chi la parlava.
Una formulazione classica di questo concetto è nel Saggio sull’origine del linguaggio scritto nel 1772 dal filosofo e poeta tedesco Johann Gottfried von Herder (1744-1803). In contrasto con i contemporanei, che riconoscevano l’origine del linguaggio umano nelle grida animali, Herder sosteneva che c’era una differenza di qualità tra la comunicazione umana e quella animale. Il linguaggio umano, diceva Herder, si fonda sull’irriducibile facoltà umana della riflessione (Besonnenheit), cioè la capacità di riconoscere i propri pensieri e di pensare a essi. Nell’atto di coniare le parole, riflettiamo sulle proprietà delle cose che descrivono e scegliamo quelle principali. Popoli diversi si concentrano su proprietà diverse, dunque ogni lingua rifletterà una prospettiva leggermente diversa sul mondo. E man mano che si tramandano le differenze si accumulano, rendendo la visione del mondo racchiusa in quella lingua sempre più distinta dalle altre. Per capire la prospettiva unica di ciascuna lingua, dobbiamo risalire alla forma delle parole e alle loro origini etimologiche.
All’inizio dell’ottocento il filo di Herder fu raccolto e tessuto con mano esperta da Wilhelm von Humboldt (1767-1835) in una trattazione più ampia sul linguaggio e la letteratura. Humboldt introdusse un elemento di determinismo linguistico, osservando che il linguaggio non solo riflette una particolare visione del mondo, ma è parte attiva nel darle forma. “Il linguaggio è l’organo formativo del pensiero”, scriveva. La relazione ipotizzata da Humboldt, tuttavia, non è unilaterale ma dialettica. Tra linguaggio e pensiero s’instaura un circuito di ritorno infinito: i pensieri danno forma alle parole e le parole danno forma ai pensieri. Questa interpretazione non si limita alle singole parole, ancora più importanti sono le strutture grammaticali che costituiscono le diverse lingue del mondo. Anche lo studio della grammatica è solo un’attività preliminare rispetto al vero obiettivo, sosteneva Humboldt. La grammatica e il vocabolario sono lo “scheletro morto” di una lingua. Per cogliere il suo carattere, per vedere la sua “struttura vivente”, dobbiamo apprezzarne la letteratura, l’uso che ne fanno i suoi oratori e i suoi scrittori più eloquenti.
Nonostante le esortazioni di Humboldt a ricercare la vita della lingua nella letteratura, nell’ottocento i suoi successori si dedicarono soprattutto a formulare classificazioni delle lingue in base alle loro caratteristiche grammaticali. L’obiettivo era spesso identificare la forma interna di ogni lingua. “Forma interna” era un’espressione usata da Humboldt per indicare la struttura e l’organizzazione di una lingua, in contrasto con la sua “forma esterna”, costituita dalle forme percettibili esternamente delle parole, della grammatica e del sistema fonetico. La forma interna di Humboldt riprende le questioni del genio della lingua dell’illuminismo, mentre la forma esterna consiste nei dettagli delle declinazioni dei nomi, delle coniugazioni dei verbi e così via.
Molti studiosi, sulla scia di Humboldt, adottarono l’idea della forma interna e la svilupparono in direzioni diverse, anche se la versione più importante del concetto fu elaborata da Heymann Steinthal (1823-1899). La forma interna è l’elemento centrale della classificazione delle lingue di questo filologo, che a sua volta è il fulcro della Völkerpsychologie, la psicologia dei popoli o etnopsicologia. L’obiettivo era descrivere la presunta mentalità condivisa di ogni nazione. La forma interna di una lingua, pensava Steinthal, era la finestra perfetta su questa mente nazionale.
Nell’ottocento, tuttavia, i discorsi sulle menti nazionali e il carattere delle lingue passarono di moda. In quegli anni, nella linguistica si affermò la grammatica storico-comparativa, un approccio basato sul confronto di parole e forme grammaticali tra diverse lingue per ricostruirne i cambiamenti storici e identificarne le possibili relazioni genealogiche. La linguistica storico-comparativa ci dice, per esempio, che il francese, l’italiano e lo spagnolo discendono tutti dal latino; che l’hindi-urdu, il bengalese e il punjabi vengono dall’antico sanscrito; e che tutte queste lingue, insieme a molte altre parlate tradizionalmente dall’Europa occidentale all’India settentrionale, fanno parte della famiglia allargata indoeuropea.
L’ipotetico progenitore di questa grande famiglia, il proto-indoeuropeo, si è perso nel tempo, ma alcuni elementi del suo vocabolario, della sua grammatica e del suo sistema fonetico possono essere ricostruiti dalle caratteristiche dei suoi discendenti. È fondamentale osservare che quelli appena elencati sono tutti aspetti delle forme esterne delle lingue, e i linguisti che le studiavano preferivano descrivere le trasformazioni storiche che osservavano in termini di “leggi fonetiche”. Le leggi fonetiche sono dichiarazioni di fatto che si limitano a constatare che un suono rilevato in una lingua primaria si trasforma in altri suoni nelle lingue discendenti. Il riferimento a qualsiasi principio esplicativo è accuratamente evitato. La maggior parte dei grammatici storico-comparativi era convinta che la linguistica, per essere considerata una scienza seria, doveva limitarsi a dati solidi e osservabili oggettivamente. Svelare la vita interiore delle lingue, cogliere il loro carattere e i collegamenti con il pensiero e la cultura, nella migliore delle ipotesi era considerato il compito futuro di una scienza del linguaggio. Nella peggiore appariva poco più che un’oziosa speculazione metafisica.
Nell’ultimo sussulto della tradizione linguistica accademica humboldtiana, il sinologo e linguista generale Georg von der Gabelentz (1840-1893) propose il nuovo sottocampo della “tipologia”, che mirava a studiare minuziosamente le caratteristiche grammaticali delle lingue del mondo per scoprire “i tratti tipici, le tendenze dominanti” che danno vita alle strutture linguistiche. Questo avrebbe fornito il fondamento empirico del compito più alto della linguistica: spiegare le tendenze strutturali come manifestazioni della mente nazionale. In un’epoca dominata dalla grammatica storico-comparativa, l’appello di Gabelentz alla creazione di questo nuovo campo di studi cadde nel vuoto. La tipologia sarebbe riemersa come una delle branche principali della linguistica solo all’inizio del novecento.
Nello stesso periodo, dall’altra parte dell’Atlantico, le questioni della mente e del linguaggio godevano di ampia considerazione in un’antropologia influenzata dal pensiero di Humboldt. Franz Boas (1858-1942), uno dei padri dell’antropologia statunitense, decise di compilare il compendio definitivo delle lingue indigene del Nordamerica nel suo Handbook of american indian languages (Manuale delle lingue indiano-americane), di cui il primo volume fu pubblicato nel 1911. Le descrizioni grammaticali contenute nel manuale di Boas sarebbero “dipese interamente dalla forma interna di ciascuna lingua”. “In altre parole”, spiegava, era “come se un nativo intelligente sviluppasse le forme dei suoi pensieri attraverso un’analisi della forma del suo discorso”.
Boas, tuttavia, fu messo in difficoltà dalle implicazioni del nesso mente-linguaggio. Il dibattito intellettuale sulle differenze tra nazioni si fondava fin troppo spesso su una presunta gerarchia dell’umanità. Era diffusa la convinzione che i popoli del mondo avessero raggiunto diversi stadi evolutivi nelle rispettive società e culture, e che queste differenze fossero dovute alle loro diverse capacità cognitive. Al vertice della gerarchia c’era l’uomo europeo ottocentesco, che aveva dispiegato i suoi poteri mentali in tutte le direzioni, mentre alla base c’erano le varie popolazioni indigene del mondo, che si presumevano bloccate in un’eterna infanzia o regredite da un precedente stato di civiltà.
Non erano posizioni monolitiche: in quegli anni c’erano molti modelli diversi sull’evoluzione sociale, culturale e cognitiva dell’umanità, che tenevano conto di tante sfumature. Ma anche figure come Humboldt, Steinthal e Gabelentz, che davano valore alla diversità umana, avevano un debole per alcune lingue. Le lingue americane, sosteneva Steinthal, in realtà non hanno una forma interna. Le costruzioni innegabilmente complesse dei loro sistemi grammaticali non sono altro che miscugli di materiali concettuali concreti senza una struttura formale di fondo. Le posizioni dei principali antropologi e linguisti statunitensi del tempo erano ancora più estreme.
Boas cercò di contrastare questi pregiudizi. Concordava sul fatto che ci fossero alcune presunte carenze delle lingue indigene, ma si rifiutava di considerarle un indicatore dello sviluppo mentale. In molte lingue del Nordamerica mancavano i termini astratti e i numeri indefinitamente grandi, ma questo non voleva dire che gli indigeni fossero incapaci di afferrare quei concetti. Semplicemente, non avevano mai avuto la necessità di parlare in termini astratti o di contare numeri più alti, quindi non avevano mai prodotto queste forme nelle loro lingue. Se questa esigenza si fosse presentata, si sarebbero rapidamente adeguati.
Per le sue idee Boas si era ispirato agli insegnamenti dell’etnografo Adolf Bastian (1826-1905), con cui aveva lavorato a Berlino. Bastian sosteneva il principio dell’“unità psichica dell’umanità”: l’idea che tutti gli esseri umani, a prescindere dalle loro origini o dalla loro condizione culturale, hanno le stesse facoltà e abilità mentali. I “pensieri etnici” apparentemente distinti dei vari popoli del mondo non sono altro che ricomposizioni diverse dei pensieri elementari comuni a tutta l’umanità. La mente umana è sostanzialmente la stessa ovunque.
Nell’ottocento, quindi, si delinea un arco nell’atteggiamento accademico verso la relatività linguistica: all’inizio del secolo questa concezione era rispettata nello studio del linguaggio; alla fine, invece, la linguistica accademica diventò sempre più dominata dalla scuola della grammatica storico-comparativa, il cui approccio era altamente tecnico ed empirico. In questo contesto, i linguisti si allontanarono dagli interrogativi apparentemente fumosi sugli apparati concettuali sottesi alle lingue. Gli antropologi, invece, continuarono per tutto il secolo a considerare i possibili collegamenti tra il linguaggio e la mente, ma negli anni i presupposti gerarchici che spesso caratterizzavano le loro discussioni furono oggetto di molte critiche.
L’ipotesi di Sapir-Whorf è per molti aspetti una continuazione dei dibattiti del diciannovesimo secolo. Edward Sapir (1884-1939) e il suo allievo Benjamin Lee Whorf (1897-1941) erano eredi della tradizione humboldtiana. Sapir era intriso di studi sulla lingua tedesca: la sua tesi di dottorato era incentrata sul Saggio sull’origine del linguaggio di Herder. Era però anche uno dei più talentuosi allievi di Boas e condivideva le posizioni del suo maestro. “Il linguaggio e i nostri solchi del pensiero sono inestricabilmente intrecciati”, scrive Sapir nel 1921, “e sono, in un certo senso, un tutt’uno e la stessa cosa”. Al pari di Boas, Sapir sosteneva che non ci sono “differenze razziali significative” nel pensiero della specie umana e non esiste un collegamento diretto tra cultura e linguaggio. È impossibile, dunque, dedurre stadi evolutivi dalla struttura del linguaggio: “Per quel che riguarda la forma linguistica, Platone cammina a braccetto con il porcaro macedone, e Confucio con il selvaggio cacciatore di teste dell’Assam”.
Nonostante la volontà di slegare la sua ricerca dai pregiudizi degli studi accademici passati, Sapir non aveva ancora abbandonato il progetto di analizzare i processi grammaticali riscontrati nelle lingue del mondo per identificare il “tipo o il piano o il ‘genio’ strutturale” di ogni lingua. Questo sforzo, tuttavia, era temperato dalla convinzione che ogni forma linguistica avesse un’autonomia. Secondo Sapir, ogni lingua ha un “sistema fonetico interno” e “una sua sensibilità alla schematizzazione a livello di formazione grammaticale”, e queste due cose “operano a prescindere dalla necessità di esprimere concetti particolari o dare una forma esterna a gruppi particolari di concetti”. Il linguaggio, evidentemente, non era poi così bloccato in quei solchi del pensiero.
Pensare la forma linguistica come in qualche modo autonoma era implicito nelle leggi fonetiche della grammatica storico-comparativa. Nel novecento arrivò il tentativo esplicito di molti linguisti di fare della struttura del linguaggio qualcosa che potesse essere oggetto di studio. In quegli anni, il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913) introdusse la distinzione tra la langue (lingua) e la parole (il discorso), distinzione che poi diventò fondamentale in gran parte degli studi successivi. La langue è il sistema astratto, autosufficiente di ogni lingua, mentre la parole è l’uso della langue per creare enunciati veri e propri. I linguisti, sosteneva Saussure, dovrebbero descrivere le proprietà di ogni langue senza preoccuparsi del suo posto nella mente e nella bocca di chi la parla: questi sono problemi di scienze come la psicologia, la fisiologia e la fisica. La concezione di Edward Sapir dell’autonomia formale delle lingue può essere interpretata come parte di questa tendenza anche se, allo stesso tempo, il linguista statunitense non intendeva abbandonare l’eredità di Humboldt, con le sue preoccupazioni psicologiche e antropologiche.
Ma che dire del determinismo linguistico della cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf? Anche se né Sapir né Whorf formularono mai un’ipotesi verificabile sull’influenza del linguaggio sul pensiero, certamente ne contemplarono gli effetti. Nel 1929 Sapir scriveva:
Il fatto è che il “mondo reale” è in larga misura inconsciamente costruito sulla base delle abitudini linguistiche del gruppo. I mondi in cui società diverse vivono sono mondi distinti, non semplicemente lo stesso mondo con etichette diverse. Vediamo e sentiamo e facciamo esperienza in una certa maniera soprattutto perché le abitudini linguistiche della nostra comunità predispongono certe scelte interpretative.
La teoria di Sapir e Whorf rispondeva alla diffusa preoccupazione per l’uso e abuso del linguaggio. Il giovane novecento stava assistendo alla perversione del dibattito pubblico attraverso nuove forme di propaganda disseminate da tecnologie come la radio e il cinema, che avevano accompagnato e favorito gli sconvolgimenti catastrofici della prima guerra mondiale e la polarizzazione politica che avrebbe portato all’ascesa dei governi totalitari in tutta Europa. C’era il desiderio di spezzare l’incantesimo del linguaggio, di ribellarsi alla sua tirannia messa al servizio dell’irrazionalità e della barbarie, e di assoggettarlo al pensiero illuminato.
Questo clima trovò espressione, tra le altre cose, nella svolta linguistica della nascente filosofia analitica dell’epoca. La parte più divulgativa di questo filone sfociò nella pubblicazione di manuali come Il significato del significato (1923) di C.K. Ogden e I.A. Richards, Scienza e sanità mentale (1933) di Alfred Korzybski e La tirannia delle parole (1938) di Stuart Chase. Siamo nel mondo della neolingua di Orwell, in cui il linguaggio è il padrone della mente.
Sapir e Whorf misero in evidenza il contributo che il loro campo della linguistica poteva dare alla risoluzione di questi problemi. Rivelando la diversità delle realtà create dalle lingue, i linguisti potevano aiutare a spiegare come il linguaggio inganna le nostre menti. Nel 1924, Sapir scriveva:
Forse il modo migliore di stare dietro ai nostri processi di pensiero e di purgarli di tutti gli incidenti o delle irrilevanze dovute alla loro veste linguistica è immergersi nello studio delle modalità esotiche di espressione. In ogni caso, non conosco una maniera migliore di eliminare le “entità” spurie.
Alla metà del novecento la linguistica accademica tornò allo scientismo tipico della fine del secolo precedente. A proposito di presunti casi di collegamenti tra struttura del linguaggio e cultura in una varietà di lingue, lo statunitense Joseph Greenberg (1915-2001) osservava: “Non si riscontra alcun modello implicito tale da far pensare che il sistema semantico di una lingua rifletta una qualche visione generale del mondo di natura metafisica”.
Ispirandosi al lavoro di Boas e Sapir, Greenberg riaccese la fiaccola della tipologia linguistica che era stata sollevata da Gabelentz alla fine dell’ottocento. La continuazione da parte di Greenberg del progetto humboldtiano d’indagare sulla diversità strutturale delle lingue del mondo rifiutando al tempo stesso ogni collegamento tra struttura e cultura fu decisiva per il successivo sviluppo della teoria. Quello che per Gabelentz era stato “il compito più alto” della ricerca sul linguaggio veniva ufficialmente relegato all’unico angolo della linguistica ancora dedito a osservare e a confrontare le caratteristiche grammaticali delle lingue.
In ogni caso, alla metà del novecento l’interesse per la diversità era ai minimi storici. Nella sua ricerca sulla “grammatica universale”, Noam Chomsky tentò di ristabilire una sorta di unità psichica dell’umanità. Le differenze tra singole lingue, secondo Chomsky, non sono che fantasmi, variazioni superficiali dello stesso sistema di fondo, frutto di una facoltà del linguaggio innata e comune a tutti gli esseri umani. Il compito del linguista non è catalogare meticolosamente queste varianti, ma tenerne conto e scoprire i princìpi universali che governano tutte le lingue. Sulla scia di Chomsky, l’opinione condivisa da gran parte della ricerca accademica avrebbe mantenuto questa scrupolosa separazione tra lingua e pensiero fino alla fine del secolo.
Ma la relatività linguistica non si è fatta mettere da parte. Linguisti e psicologi, rifiutando d’ignorare tali questioni, hanno riportato la relatività al centro del dibattito accademico con risultati solidi. Per citare solo un esempio, in uno studio ancora in corso, i ricercatori hanno mostrato che alcune lingue permettono di sbloccare sensi che sono patrimonio comune di tutti gli esseri umani ma che restano inutilizzati dalla maggior parte delle persone. In inglese e in molte altre lingue, la localizzazione spaziale è solitamente descritta in termini egocentrici. Se una mosca si posa sulla mia gamba, dirò: “Una mosca si è posata sul lato destro della mia gamba”. Destro è un termine spaziale egocentrico che orienta gli oggetti del mondo secondo un asse immaginario sinistra-destra proiettato dal mio corpo.
Ma questo non è l’unico modo che abbiamo per concettualizzare lo spazio. Nella lingua gurindji, parlata nel nord dell’Australia – così come in molte altre lingue nel mondo – la posizione di un oggetto nello spazio è solitamente descritta usando le direzioni cardinali nord, sud, est e ovest. Nell’esempio precedente, ipotizzando che la mia gamba destra sia orientata a ovest, la frase corrispondente in gurindji sarebbe: karlarnimpalnginyi nyawama wurturrjima, walngin ngayinyja wurturrjila. Letteralmente: “Questa è la parte occidentale superiore esterna della (mia) gamba. La mosca si è posata qui sulla mia gamba”. Se mi voltassi nella direzione opposta, la mosca si troverebbe ancora – in termini egocentrici – sul lato destro della mia gamba, ma una persona di lingua gurindji osserverebbe che – in termini cardinali – ora la mosca è sulla parte orientale della mia gamba. Anche se il mio asse privato destra-sinistra mi segue fedelmente, la Terra rimane ferma.
Le direzioni cardinali non sono sconosciute alla lingua inglese, ma di solito sono usate solo quando si parla di geografia. In gurindji, invece, anche le parti del corpo di chi parla sono localizzabili nello spazio in un sistema di coordinate che vale in tutto il mondo. Gran parte degli anglofoni avrebbe difficoltà anche solo a identificare i punti cardinali senza l’aiuto di una bussola. Come fanno le persone di lingua gurindji? A quanto pare, si regolano in base a una serie di indizi ambientali, primo tra tutti il percorso del Sole nel cielo. Ma la neurofisiologia umana è sensibile anche al campo magnetico della Terra: il cervello umano risponde in modi misurabili ai campi magnetici esterni. In un certo, senso, siamo tutti delle bussole. Un anglofono di solito non ne è consciamente consapevole, anche se la sua attività cerebrale cambia quando i campi magnetici circostanti sono manipolati in condizioni sperimentali. I recenti esperimenti della linguista australiana Felicity Meakins e dei suoi collaboratori hanno mostrato che alcuni nativi gurindji sono in grado di percepire e descrivere in modo affidabile gli spostamenti dei campi magnetici esterni.
L’abitudine dei gurindji di usare le direzioni cardinali sembra aver sbloccato le loro capacità di percezione. Alcuni gurindji sono in grado di sentire consapevolmente il campo magnetico della Terra. Ma gli anglofoni e i gurindji vivono in “mondi distinti”, come direbbe Sapir? Il fatto di avere una maggiore sensibilità per alcuni aspetti dell’ambiente è ancora lontano dalle visioni del mondo onnicomprensive della tradizione humboldtiana.
Quella appena descritta è forse la principale causa dello scetticismo che circonda ancora la relatività linguistica in molte università. Partiamo dalla sensazione, da un ineffabile non so che, che la nostra lingua plasmi il nostro mondo. Ma per valutare la veridicità di questa affermazione, lo scienziato ha bisogno di un’ipotesi, un enunciato rigoroso, verificabile sperimentalmente, di quanto esattamente il linguaggio modelli il nostro mondo. Le meditazioni semimistiche sulla nostra lingua non sono materia per le riviste scientifiche moderne. D’altra parte, ogni ipotesi propriamente formulata sarà necessariamente riduttiva: concepire dei test empirici sulle presunte differenze tra le nostre visioni del mondo significa inevitabilmente trasformare i nostri sentimenti più intimi in oggetti distaccati ed estranei che possiamo osservare e analizzare dall’esterno. Questi test potrebbero non cogliere mai la totalità e la primordialità della sensazione originale.
Questo significa che il lavoro accademico dei secoli scorsi non ha un posto nel mondo di oggi? Oppure che la scienza moderna non è in grado di afferrare le profondità filosofiche esplorate dalla ricerca del passato? Il punto è che gli studi del passato e quelli moderni sono complementari. Gli scritti degli studiosi del passato – per quanto possano sembrarci fondati su congetture e presupposti discutibili – colgono innegabilmente qualcosa della nostra esperienza umana e possono stimolare le indagini dei ricercatori di oggi. A loro volta, le ipotesi e gli esperimenti dei linguisti e degli psicologi moderni offrono un’altra prospettiva – influenzata dalla visione del mondo scientista della nostra epoca – sulle questioni irrisolte dei collegamenti tra mente e linguaggio. In tutti questi casi, non possiamo dare un senso a questi interrogativi senza capire qualcosa dei contesti intellettuali in cui sono nati. ◆ fas
James McElvenny è un linguista australiano. Insegna all’università di Siegen, in Germania. È autore del podcast History and philosophy of the language sciences. Questo articolo è uscito sulla rivista culturale online Aeon con il titolo Our language, our world.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati