Pere Santamaria aveva 15 anni quando ha sviluppato la miastenia gravis. Questa malattia autoimmune provoca un’estrema debolezza muscolare e può causare difficoltà respiratorie. Nel caso di Santamaria, aveva colpito i muscoli oculari, facendogli vedere doppio. “Ha avuto un effetto tremendo sulla mia vita”, dice. “Ero un adolescente e all’improvviso non potevo più fare sport né vivere un’esistenza normale. Ho dovuto assumere dosi molto alte di corticosteroidi, che mi hanno fatto gonfiare come un pallone”.

Quel che è peggio è che questi farmaci si limitano ad attenuare la risposta immunitaria generale dell’organismo, invece di agire sulle cause dell’autoimmunità, quindi Santamaria sapeva che prenderli non sarebbe servito a curarla. Con il tempo ha sviluppato altre patologie autoimmuni, e ha deciso di saperne di più: “Volevo capire le malattie e i loro meccanismi, con la speranza di poter aiutare gli altri”. Ora sta facendo passi concreti verso questo obiettivo. Lavorando come immunologo all’università di Calgary, in Canada, Santamaria è in prima linea nella ricerca di nuove terapie per riprogrammare il sistema immunitario e mettere fine alla guerra tra il corpo umano e i suoi tessuti. Queste terapie stanno entrando nella fase di sperimentazione clinica, e si cominciano a vedere segnali promettenti. Alcune sono così efficaci che, in certi casi, con una singola dose i sintomi scompaiono per anni. Quindi la fine delle malattie autoimmuni è imminente?

Il nostro organismo ha diverse linee di difesa contro gli agenti patogeni. Le barriere fisiche come la pelle rendono difficile a batteri e virus accedere ai tessuti interni e, se ci riescono, cellule immunitarie come i macrofagi possono sconfiggere gli invasori inglobandoli e digerendoli. Queste difese fanno parte del nostro sistema immunitario innato, che è un modo rudimentale ma efficace di affrontare le minacce. “Uccidono in modo non specifico i cattivi che non sembrano umani”, afferma Daniella Schwartz dell’università di Pittsburgh, in Pennsylvania.

Ma c’è un altro ramo del sistema immunitario, molto più sofisticato. Si chiama sistema immunitario adattativo ed è controllato da globuli bianchi altamente specializzati detti linfociti B e T. Questi linfociti riconoscono delle molecole chiamate antigeni sulle superfici di virus e batteri, e usano queste informazioni per eliminare la minaccia. Possono anche ricordare gli antigeni, il che consente loro di reagire rapidamente se incontrano di nuovo un particolare patogeno, una capacità che è alla base dei vaccini.

Questo meccanismo rende il sistema immunitario adattativo uno strumento potente per difendersi dalle infezioni, ma può anche causare dei problemi. Alcune cellule B e T riconoscono gli “autoantigeni”, le molecole presenti sulle nostre cellule. Di solito sono programmate per tollerarli, ma a volte cominciano ad attaccare quelle cellule invece dei patogeni. Il risultato è una malattia autoimmune.

Anni di ricerca per ripristinare la tolleranza del corpo ai propri tessuti stanno finalmente dando risultati. Per esempio, cellule B disfunzionali che producono anticorpi contro il dna sono la causa principale del lupus, una malattia potenzialmente letale che causa infiammazione e danni alla pelle, alle articolazioni, al cuore, ai polmoni, ai reni e al cervello. Il diabete di tipo 1, invece, si sviluppa quando le cellule T attaccano quelle che producono insulina nel pancreas.

Premere reset

Non è ancora chiaro cosa scateni le malattie autoimmuni. “Al momento si pensa che dipendano da una combinazione tra fattori di rischio genetici e ambientali, e questi variano da persona a persona”, spiega Frederick Miller, ex capo dell’Environmental autoimmunity group dei National institutes of health in North Carolina.

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Sappiamo che le malattie autoimmuni di solito non compaiono da un giorno all’altro. Piuttosto, dice Miller, sembrano svilupparsi nel corso di anni, o addirittura decenni, dalla complicata interazione tra fattori di rischio. Le malattie che ne risultano possono essere estremamente debilitanti. “Hanno un impatto devastante sui pazienti e sulle loro famiglie”, osserva Santamaria.

I trattamenti tradizionali che limitano l’azione immunitaria, come quello a cui è stato sottoposto Santamaria, possono alleviare i sintomi, ma hanno degli effetti negativi. “Funzionano abbastanza bene, ma a lungo termine aumentano il rischio di infezioni e cancro, perché sostanzialmente sopprimono l’intero sistema immunitario”, afferma.

Per questo motivo sarebbe meglio ripristinare in qualche modo la tolleranza del corpo ai propri autoantigeni, eliminando o riprogrammando le cellule immunitarie responsabili dell’autoimmunità. Questo obiettivo potrebbe finalmente essere a portata di mano.

Per esempio, le terapie Car-T (acronimo di recettore antigenico chimerico delle cellule T), che hanno già dimostrato di poter debellare alcuni tumori del sangue, stanno mostrando risultati promettenti anche contro il lupus. Questa versione della terapia prevede la raccolta di cellule T da un individuo affetto da lupus per coltivarle e modificarle in laboratorio in modo che esprimano uno speciale recettore proteico noto come Car. Le cellule vengono quindi reinserite nel corpo dell’individuo, dove riconoscono e distruggono le cellule B, comprese quelle che sono la causa principale del lupus. Il corpo produce quindi delle nuove cellule B. È un po’ come premere il pulsante reset sul sistema immunitario, ripristinandolo alle impostazioni di fabbrica.

L’aspetto più promettente della terapia Car-T, dice Schwartz, è che in alcune persone sembra avere un effetto permanente. “La terapia elimina un gran numero di cellule B, e sembra che quelle reattive [che causano il lupus], per qualche motivo, non ricompaiano”, dice.

In uno studio pubblicato nel 2022 i ricercatori hanno somministrato la terapia a cinque persone affette da lupus grave. Tutte e cinque hanno avuto una remissione e hanno potuto smettere di assumere i loro farmaci, come l’immunosoppressore micofenolato. Secondo Georg Schett, che ha guidato la sperimentazione clinica, alcuni dei partecipanti non hanno ancora avuto sintomi quattro anni dopo aver ricevuto una sola infusione. “Il reset immunitario è estremamente efficace, il che è comprensibile perché non è facile sviluppare una malattia autoimmune da zero”, afferma Schett. “Il processo non sembra ripetersi. Ecco perché molti pazienti non riscontrano una ricaduta o una riacutizzazione della loro malattia originale”.

Sulla base di questi promettenti risultati, Schett e i suoi colleghi hanno avviato una sperimentazione clinica che ha coinvolto persone con diverse altre condizioni autoimmuni. La terapia Car-T per il lupus è ora oggetto di una sperimentazione clinica di fase I guidata dall’University college London, il cui obiettivo è valutare la sicurezza e stabilire dosi efficaci su un piccolo numero di pazienti.

Queste sperimentazioni sono essenziali perché la terapia Car-T può provocare gravi effetti collaterali e perfino portare alla morte per infezione dopo che le cellule B sono state eliminate. Inoltre le conseguenze a lungo termine dell’eliminazione di quelle cellule immunitarie, seppur temporanea, sono sconosciute. La terapia Car-T è anche molto cara, dato che ogni infusione costa in media più di 600mila dollari. “Penso che resteranno trattamenti molto costosi a cui non tutti i pazienti potranno avere accesso”, afferma Miller.

La buona notizia è che sono in fase di sviluppo anche altri trattamenti potenzialmente più economici e sicuri. Invece di inibire o uccidere le cellule immunitarie, questi mirano ad aumentarne la tolleranza. Santamaria, per esempio, sta sviluppando una nuova classe di nanomedicine chiamate Navacim. Queste minuscole particelle riprogrammano un tipo di cellule T, che in molte condizioni autoimmuni sono la causa ultima del problema.

Le cellule T helper follicolari si trovano nella milza, nelle tonsille e nei linfonodi, dove aiutano le cellule B a produrre anticorpi contro gli agenti patogeni. Ma in molte malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide, le cellule T helper follicolari non funzionano correttamente e incoraggiano le cellule B a produrre anticorpi contro gli autoantigeni. Questi anticorpi agiscono come fari, attirando un esercito di globuli bianchi che seguono il segnale e attaccano i tessuti.

Nei topi trattati, le cellule immunitarie hanno smesso di attaccare la mielina, consentendo ai neuroni di rigenerarsi e funzionare

I farmaci Navacim possono fermare questo processo. Sono rivestiti con l’autoantigene preso di mira, quindi sono riconosciuti dalle cellule T helper follicolari malfunzionanti. Ma i Navacim sono presenti in concentrazioni così innaturalmente elevate che le cellule T follicolari sono sopraffatte. Questo ha l’effetto sorprendente di spingerle a trasformarsi in un tipo di cellule completamente diverso, le cosiddette cellule T regolatrici, che sopprimono anziché favorire la risposta immunitaria. “I Navacim possono riprogrammare quelle cellule aggressive e trasformarle in cellule protettive”, afferma Santamaria.

Una volta riprogrammate, le cellule T regolatrici si moltiplicano, formando un esercito di globuli bianchi che alleviano l’infiammazione provocata dall’autoimmunità. Poiché queste cellule viaggiano solo verso i siti di infiammazione associati all’autoantigene, hanno un effetto localizzato, mentre il sistema immunitario del resto del corpo può continuare a lottare contro infezioni e tumori.

Finora i Navacim hanno dimostrato di essere efficaci nei modelli animali di malattie autoimmuni del fegato, del diabete di tipo 1, delle malattie infiammatorie intestinali, dell’artrite reumatoide e della sclerosi multipla. È ora in corso una sperimentazione umana di fase I per le malattie autoimmuni del fegato.

Vaccini al contrario

Il fegato è anche l’obiettivo di quello che è forse l’approccio più promettente per affrontare le condizioni autoimmuni. L’organo ha una posizione cruciale nel corpo perché funge da congiunzione tra l’intestino e il sistema circolatorio. L’80 per cento del sangue che entra nel fegato proviene dall’intestino e, cosa ancora più importante, è pieno di antigeni provenienti dal cibo e dai batteri intestinali. Il fegato è anche l’organo in cui vengono inviate le vecchie cellule del sangue danneggiate per essere smaltite, un processo che rilascia altri autoantigeni nel sangue. Per impedire a tutti questi antigeni di mandare in tilt il sistema immunitario, il fegato si è evoluto in modo da essere estremamente flessibile. “Quando sono rilevati degli antigeni, la risposta immunitaria è più orientata verso la tolleranza”, afferma Jeffrey Hubbell della New York university.

Una volta che gli antigeni sono stati rilevati nel fegato, uno speciale tipo di cellula immunitaria, detta cellula presentante l’antigene, li indica alle cellule T. Questa è una parte importante della risposta immunitaria e può provocare un attacco, ma nel fegato il sistema immunitario risponde producendo cellule T regolatrici, simili a quelle che i Navacim contribuiscono a creare. E proprio come in quel caso, queste cellule T regolatrici sopprimono la reazione infiammatoria.

Hubbell si è chiesto se avrebbe potuto sfruttare questo processo per progettare una specie di “vaccino inverso”. A differenza dei normali vaccini, che insegnano al sistema immunitario a riconoscere e attaccare un antigene associato a un particolare patogeno, un vaccino inverso fa l’opposto: cancella la memoria del sistema immunitario di un autoantigene che innesca una risposta autoimmune.

Disparità di genere
Incidenza di alcune malattie autoimmuni in base al genere, percentuale di casi - Trends in Gnetics 2019
Incidenza di alcune malattie autoimmuni in base al genere, percentuale di casi (Trends in Gnetics 2019)

Il vaccino inverso ideato da Hubbell e dalla sua équipe funziona legando a un polimero l’autoantigene in questione. Il polimero è anche legato a una molecola di zucchero detta N-acetilgalattosammina, simile a quelle che si trovano nei frammenti delle vecchie cellule, quindi il corpo lo invia al fegato perché sia eliminato. Una volta lì, le cellule che presentano l’antigene e le cellule T regolatrici assicurano che l’autoantigene sul polimero sia riconosciuto ma tollerato dal sistema immunitario.

In uno studio del 2023, Hubbell e i suoi colleghi hanno usato questo metodo per curare topi affetti da una malattia simile alla sclerosi multipla. Nella sclerosi multipla, le cellule T anomale attaccano la mielina, il rivestimento isolante che circonda i neuroni, portando a un progressivo intorpidimento e potenzialmente alla paralisi e alla morte. Per creare il vaccino inverso, il team ha collegato le proteine della mielina al polimero. Nei topi trattati, le cellule immunitarie hanno smesso di attaccare la mielina, consentendo ai neuroni di rigenerarsi e funzionare correttamente.

Questo ha ridotto i livelli di infiammazione e i sintomi della malattia hanno cominciato a regredire. “Abbiamo visto un vero effetto terapeutico”, afferma Hubbell. “Si possono prendere animali con un sistema immunitario gravemente malfunzionante e migliorare i loro sintomi con un solo ciclo di trattamento”.

Sono in corso uno studio clinico di fase II che applica un metodo simile su persone affette da celiachia, una malattia autoimmune associata all’intolleranza al glutine, e uno studio di sicurezza di fase I anche su persone affette da sclerosi multipla. Gli studi sono condotti dalla Anokion, un’azienda farmaceutica con sede in Svizzera di cui Hubbell è uno dei fondatori.

Nel frattempo l’azienda tedesca Biontech sta cercando di stabilire se la tecnologia mRna che si è dimostrata così efficace contro il covid-19 possa contribuire a combattere le malattie autoimmuni. L’idea è usare l’mRna per aumentare la produzione di cellule T regolatrici per un particolare autoantigene, con l’obiettivo di insegnare al corpo a evitare di attaccarlo.

Uno per tutti

I metodi terapeutici basati sulla produzione di cellule T regolatrici hanno un vantaggio fondamentale: non richiedono di curare, o addirittura di comprendere, tutte le cause di una particolare malattia. Questo è importante perché, anche se una condizione autoimmune può cominciare dall’attacco a un solo autoantigene, con il tempo la reazione si amplia e ne coinvolge molti altri. Ma le cellule T regolatrici che prendono di mira un solo autoantigene possono attenuare l’infiammazione legata a tutti gli altri. “La cosa entusiasmante è che hanno le potenzialità di sopprimere l’immunità ad antigeni di cui non potremmo mai conoscere l’esistenza”, afferma Hubbell.

Con così tante terapie in fase di sviluppo, sembra che cinquant’anni di ricerca per ripristinare la tolleranza del corpo ai suoi stessi tessuti stiano finalmente giungendo al termine. Santamaria è cautamente ottimista sul fatto che un giorno non lontano gli adolescenti a cui è stata diagnosticata una patologia come la miastenia gravis potranno assumere farmaci che consentiranno loro di vivere una vita normale, senza aumentare il rischio di infezioni e tumori.

“Certo, dobbiamo sviluppare questi trattamenti con le sperimentazioni cliniche per garantire sicurezza ed efficacia, ma da ciò che ho visto so che c’è una strada da seguire per battere queste malattie”, afferma. “Sono molto fiducioso”.◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati